APPUNTI E RIFLESSIONI PER UN NUOVO WELFARE

Tavola rotonda con Riccardo Terzi, Francesco Rampi, Pierangelo Ferrari, Michele Mazzarano e Alessandro Palumbo

Quale welfare per il futuro? Quale intreccio tra diritti di cittadinanza e diritti civili? Su questi temi Generazioni ha chiamato al confronto: Francesco Rampi, segretario generale SPI CGIL Lombardia, Pierangelo Ferrari, capogruppo Ulivo-Democratici di sinistra in Consiglio regionale, Riccardo Terzi, vicepresidente Centro Riforma dello Stato, Michele Mozzarono, esecutivo nazionale Sinistra giovanile-responsabile welfare e Alessandro Palumbo, presidente Tikkun.

 

In questi anni la CGIL ha lanciato un approccio alla questione della protezione sociale sotto il profilo dei diritti di cittadinanza. Nella realtà la storia del sistema di protezione sociale del nostro paese è una storia molto legata al lavoro, e non alla cittadinanza, tant’è che negli anni si sono sedimentate delle modalità di protezione fortemente ancorate alla condizione di lavoratore. È possibile ripensare oggi ad un nuovo approccio alla riforma del welfare che tenga conto anche di un nuovo rapporto tra le generazioni? E quale sarebbe la direzione verso cui muoversi?

Rampi «L’unica vera eccezione, a questo approccio lavoristico dello stato sociale, è stata la riforma sanitaria del ‘78. Qui – sia pur con deroghe che solo negli anni Novanta hanno portato ad addossare alla fiscalità generale la sanità – la condizione è quella di essere cittadino. Recenti studi dimostrano poi che l’unico elemento di riequilibrio economico, di redistribuzione economica o sociale, nello stato sociale viene fatto attraverso la sanità. Oggi è di grande centralità il problema delle pensioni. Molti sostengono la non necessità di discutere delle pensioni e, se lo si vede dal punto di vista prettamente degli equilibri economici, c’è motivo per sostenere questa tesi: la riforma Dini, la riforma 335, ha portato sostanzialmente a equilibro economico. Se si guarda al sistema pensionistico, invece, nei mutamenti delle forme del lavoro, e quindi della composizione sociale, la necessità di pensare a come tutelare meglio coloro che non hanno un rapporto di lavoro dipendente e continuativo è un problema aperto. Quindi per noi il primo problema di rapporto generazionale – in particolare per noi pensionati – riguarda, appunto, come gli elementi di tutela e le conquiste degli anni ‘70 e ‘80 hanno sedimentato, non siano svuotati dai mutamenti di carattere sociale. E quindi come ripensare, non alla riduzione di queste conquiste ma a una rimodulazione. L’idea di fondo è stata quella legata al sistema di carattere contributivo. Il sistema di carattere contributivo ha bisogno però di livelli di contribuzione significativi – che oggi ad esempio i co.co.co., coloro che hanno i contratti di collaborazione, non hanno in maniera adeguata. Quindi c’è la necessità di un ripensamento di come si sedimentano risorse durante le varie forme del lavoro, nella vita, per creare un sistema di tutela.»

 

Mozzarono «Oggi noi abbiamo la necessità di rimettere in discussione uno schema, che è lo schema categoriale, lo schema lavoristico, su cui si è costruito il welfare nel passato. Il sistema previdenziale italiano è di fatto costruito ma anche in Europa è stato così – sulla base del patto tra generazioni. Noi pensiamo, la sinistra giovanile pensa che ci sia la necessità di ripartire quindi dal rapporto tra generazioni come chiave politica di riflessione sul futuro welfare. E pensiamo che oggi ci sia bisogno, ancora di più – per come si ristruttura il mercato del lavoro, per come si struttura il sistema produttivo di mettere in discussione, e al centro della riflessione, le nuove generazioni per cercare di ridefinire, anche sul piano dei valori, un equilibrio tra uguaglianza e libertà, tra opportunità, tutele e garanzie. Io credo che il welfare italiano vada ridefinito sul principio dell’universalismo, soprattutto a fronte di una sempre più spiccata individualizzazione della società, dell’atomizzazione della società e dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro, del modo di lavorare dei sistemi produttivi. Oggi ci troviamo di fronte ad una società che non è in grado di offrire delle risposte alle nuove generazioni che si cimentano con il problema del mercato del lavoro flessibile. La flessibilità viene, per la maggiore, intesa – proprio perché mancano sistemi di inclusione e regolazione – come precarietà, come precarizzazione. Quindi c’è bisogno che lo Stato, la politica e, io credo, innanzitutto la sinistra riformista, fuori da schemi precostituiti, riescano ad affrontare questo problema in chiave europea; perché l’Europa è la dimensione per ridefinire la nuova cittadinanza. Ultimo punto, e poi mi fermo: noi siamo in una società in cui essere giovani è diventato qualcosa che – dal punto di vista temporale – si allarga sempre di più. Giovane viene considerato chi non è ancora in grado di rendersi autonomo completamente dalla famiglia, rendersi completamente autonomo per costruirsi un proprio percorso di vita, di lavoro. Per cui c’è il grande ammortizzatore sociale della famiglia. Io credo che la politica debba farsi carico di questo che è un grande problema, perché c’è bisogno di una società in cui i giovani possano sentirsi protagonisti e non aver bisogno della dimensione di sicurezza e di integrazione del reddito della famiglia.»

 

Ferrari «L’estensione dei diritti, l’universalità. Non c’è alcun dubbio: è questo il punto centrale della riforma del welfare. Quello che io lamento è che nei cinque anni propri, otto impropri, del governo del centrosinistra, non si sia riusciti a dare una risposta consapevole e determinata a questa esigenza. Cioè mettere mano a una ricostruzione di un welfare che si adatti a queste trasformazioni e vi risponda; e che non si sia riusciti a mettere mano anche al nodo delle pensioni, perché resta aperto il nodo delle pensioni, non è vero che non sia un problema. Le pensioni hanno avuto una funzione maggiore che non quella della percezione di un reddito a garanzia, della terza fase della vita. Hanno svolto la funzione di perno del welfare italiano. Hanno finanziato il welfare italiano. Questo è il nodo con cui noi dobbiamo fare i conti. Solo che con le trasformazioni sociali, con la morfologia sociale modificata radicalmente, questa centralità viene sempre meno. Noi dobbiamo progettare il futuro partendo da questa consapevolezza: che occorre riequilibrare il welfare italiano e occorre farlo tenendo conto del punto di vista del rapporto tra le generazioni. Noi dobbiamo estendere le protezioni e le garanzie a fasce sociali e generazionali che ne sono prive; a fasce sociali produttive e generazionali che ne sono prive. Dal punto di vista del modello contributivo vuoi dire, intanto, più contributi e più a lungo se vogliamo che il sistema regga. Ma c’è anche un punto di vista dei rapporti interni al welfare. Si devono recuperare risorse, incrementare risorse a disposizione per un welfare che in Italia è finanziato in misura inferiore agli altri grandi paesi europei. E non c’è alcun dubbio che noi dobbiamo ricavare sempre più risorse per quegli interventi, appunto – diritto allo studio, prima casa, l’autosufficienza, disoccupazione – che il sistema pensionistico, per quanto impropriamente e surrettiziamente, non è più in grado di finanziare e sostenere. Questa è la complicatissima operazione che noi abbiamo visto come necessaria, nella seconda metà degli anni Novanta, ma che non siamo riusciti a portare in porto e a governare.»

 

Palumbo «A me sembra importante, nel momento in cui affrontiamo questi argomenti, cominciare a togliere dall’orizzonte ogni eventuale tipo di tabù, ogni eventuale mito di intoccabilità. E cioè credo che dobbiamo essere molto franchi nel dire che il nodo che va toccato è quello delle pensioni. Se vogliamo veramente declinare operativamente l’allargamento ai diritti del welfare e riscrivere – com’è corretto, com’è giusto – un nuovo welfare adeguato alla nuova struttura sociale che l’Italia sta vivendo, dobbiamo avere il coraggio di dire che il nodo principale da affrontare è quello delle pensioni. Va affrontato accelerando i tempi dell’eliminazione delle pensioni di anzianità e va affrontato allargando, per quanto è possibile, il sistema contributivo pensionistico. Soltanto in questo modo noi potremo fare tutte quelle operazioni di redistribuzione della spesa sociale che ci consentiranno di declinare operativamente i nostri principi. Mai la parola riformismo è stata sulla bocca di tutti, e mai come in questo periodo, invece, il riformismo non viene declinato operativamente. Perché declinare propriamente il riformismo vuoi dire prendere di petto le questioni, affrontarle sapendo che si va a correre anche (come si diceva giustamente prima) in uno scontro anche aspro con quella che è la base sociale su cui è costruito il mondo sindacale, il mondo della sinistra, ma che bisogna avere il coraggio di affrontare.»

 

Terzi «A me sembra che dobbiamo affrontare i problemi del welfare nella loro dimensione complessiva. Questo è quello che poi è mancato: un progetto che affrontasse nel suo insieme i diversi aspetti del welfare. Se facciamo un raffronto con gli altri paesi europei noi non abbiamo una spesa sociale più elevata, anzi, abbiamo una spesa sociale con qualche punto in meno rispetto alla media europea. Per cui non si tratta affatto di fare dei tagli, si tratta di vedere come questa spesa può essere intanto aumentata, in alcune direzioni, e riequilibrata al suo interno. Conseguenza di questo è che una linea, come quella propugnata dalla destra – e non sempre contrastata da noi con forza – una linea che punta a una riduzione generalizzata del carico fiscale impedisce qualunque discorso di rilancio del welfare perché, con una simile politica, andiamo a uno smantellamento, o comunque all’indebolimento complessivo del welfare. Credo che una sinistra, che vede in un sistema moderno di welfare una delle ragioni del suo progetto, deve tirarne le conseguenze, e quindi avere una politica fiscale coerente con queste impostazioni.

Non è solo la logica lavoristica, ma il carattere molto spesso corporativo che ha avuto il sistema di welfare in Italia – dalle origini fasciste a quelle democristiane, un sistema di privilegi, o comunque di situazioni relative a singoli status sociali – ciò che deve essere modificato. Dobbiamo creare un sistema con dei caratteri di universalità. Tra l’altro se pensiamo a come sono oggi le nostre società e le nostre città, qui in Lombardia con un carattere sempre più chiaramente multietnico, si apre un problema ulteriore su come allarghiamo ai lavoratori stranieri i diritti elementari, i diritti fondamentali di cittadinanza. Questo non esclude, io credo, forme di solidarietà intermedia. Ad esempio, anche per le pensioni oltre a ridefinire un sistema pensionistico generale, c’è uno spazio grande per fondi integrativi. Anche in molti altri campi ci possono essere delle forme mutualistiche che riguardano determinati settori sociali, determinati gruppi di persone.

Così come ci deve essere sempre più un intreccio, e un’integrazione, tra l’intervento pubblico e interventi di carattere privato, di carattere sociale, tutte le forme di volontariato, il terzo settore. Non possiamo caricare solo sullo Stato, solo sull’intervento pubblico, un sistema di protezione sociale che può avere, invece, una sua articolazione. Il punto vero è quello che proponevano anche i compagni della sinistra giovanile, quello che riguarda un riequilibrio nei rapporti tra le generazioni. Bisognerebbe aprire, degli spazi veri di sostegno, che rendano possibile alle nuove generazioni l’acquisizione per tempo di una effettiva autonomia. Dobbiamo quindi allargare l’intervento pubblico nelle nuove direzioni che riguardano il sostegno al reddito che copra i periodi di disoccupazione, in una situazione dove è sempre più frequente la mobilità, dove si hanno dei periodi di inattività; avere un investimento forte nel settore della formazione, avere una struttura di avviamento al lavoro, quindi delle strutture pubbliche che gestiscano il mercato del lavoro. Cosa che oggi avviene in misura assolutamente insufficiente e spesso distorta. Puntare, quindi, non soltanto a una politica di assistenza, ma a una politica di sostegno che metta in grado le persone di stare sul mercato, di avere gli strumenti per potersi muovere in una situazione del mercato del lavoro sempre più complessa. Avere conoscenze, avere informazioni, avere possibilità di accedere ai servizi di orientamento sul mercato del lavoro e avere delle coperture anche assistenziali, per i periodi di inattività.»

 

Parlate, quindi, di un’esigenza di rimodulare ed estendere il sistema di protezione sociale. Rimodulare ed estendere: ma la politica portata avanti dalla destra si basa sulla rimodulazione. Che fare?

Rampi «Noi siamo in una situazione in cui sia dal punto di vista dei compi sia dal punto di vista della quantità dello speso sociale c’è una necessità di estensione. E questo apre un campo di forte criticità che equipara la questione della leva fiscale. Nel senso che la parola d’ordine tout court “meno tasse” è una parola d’ordine anti-stato sociale La questione della rimodulazione e della estensione di contro pone al centro la domanda “verso che cosa”? Qui abbiamo un po’ affrontato il tema generazionale. Io credo che ci sia però un elemento di premessa che riguarda fortemente la sinistra. In una parte della sinistra, in una parte nel mondo del centrosinistra, e in gran parte nel centrodestra, c’è un’idea che gli elementi di tutela e di protezione dello stato sociale riguardino la questione della povertà. Visto da questo punto di vista, se è mirata alla questione della povertà, molto probabilmente la soluzione non è neanche così complicata. Perché dentro un paese nel quale la ricchezza cresce, il problema è un problema in parte redistributivo. Ma una tutela della marginalità c’è, in buona sostanza, in ogni paese. L’idea di fondo è – dal nostro punto di vista, quella che noi poniamo alla riflessione – è invece la tutela della fragilità. Lo stato di fragilità è, intanto, una situazione che talvolta non ha relazione con uno stato di carattere economico, ma è una condizione dentro la quale, nelle varie fasi della vita, ci si può trovare. Certamente oggi il giovane è più a lungo fragile, perché dipendente. Altrettanto con l’allungamento della vita media, dell’aspettativa di vita, si crea un problema di periodi di forte fragilità dell’adulto/anziano. Allora se l’idea della protezione è legata ad un’idea di intervento dello Stato sociale che abbia capacità redistributiva, quindi perequativa, e di tutela in termini generali della fragilità allora il problema è la declinazione nei diversi contesti e nelle diverse fasi della vita di quali sono gli strumenti per la tutela della fragilità.

Qui si apre un problema di fondo: sono omogenee le modalità e gli strumenti per la tutela della fragilità o risentono anche dei contesti socio-economici diversi, dentro cui si articola l’Italia? E quindi esiste una diversità nelle tutele? Fino ad oggi il concetto di universalismo è in una declinazione in cui le prestazioni sono uguali in ogni contesto e in ogni situazione.

La tesi che io voglio discutere con voi, che voglio verificare è se possibile che un concetto di tutela e di proiezione di carattere universalistico si possono declinare anche in maniera diversa, nelle diverse fasi della vita, e anche nelle diverse realtà di carattere territoriale. La tutela di un anziano, dell’urbe milanese, è diverso, ad esempio, in un contesto dove la tradizione contadina comunque garantisce una rete informale di assistenza.»

 

Mazzarano «La questione della riforma del welfare credo sia cruciale nella ridefinizione di una sinistra in grado di rimodulare le sue alleanze sociali. Quindi è il grande nodo davanti a noi, non solo in termini proprio di riforma del sistema previdenziale, proprio di riforma del welfare cioè, di un nuovo patto di cittadinanza da costruire nel nostro Paese.

La riforma Dini ha segnato elementi di discontinuità rispetto a contraddizioni, distorsioni corporative, categoriali, lavoristiche, che erano presenti nel welfare italiano. Aver diviso l’assistenza dalla previdenza ha fatto, per certi versi, venire meno alcuni elementi di contraddizione, e ha anche favorito l’avviamento di un processo che andava, per certi versi, a sfoltire quelle tante prestazioni intorno a cui si annidavano dei privilegi. Per cui credo che il processo sia stato avviato. Adesso si tratta, appunto, di capire come se ne esce realmente, e da questo punto di vista credo che puntare solo la lente di ingrandimento sul sistema previdenziale, sia limitativo. Lo dico perché pensare al welfare solo come associazione tra assistenza e previdenza, non ci aiuta o capire quali sono i veri problemi presenti dentro la società che vanno aggrediti.

Nella società della conoscenza il vero grande ammortizzatore sociale da costruire è l’ammortizzatore sociale della formazione. Per cui la domanda è se la sinistra è in grado di riflettere sulla costruzione di un welfare del sapere, della cultura che è davvero la chiave nuova intorno a cui si ridefiniscono uguaglianze, disuguaglianze, opportunità, garanzie, tutele. Cioè investire più risorse sulla formazione, integrando i sistemi di istruzione con i sistemi di formazione, fino ad arrivare alla formazione continua e permanente. Io credo possa essere la chiave di volta per cercare di ridefinire un sistemo di cittadinanza che non può più essere legato alla cittadinanza del lavoro.

È chiaro che ridefinire un sistema di welfare universale, significa fare i conti anche con il federalismo, cioè con il governo dei territori, con lo spostamento dei poteri verso il basso. Per cui oggi, nella ridefinizione del welfare, bisogna saper mettere al centro anche welfare locale, capacità di costruire sul territorio sistemi di cittadinanza che tengano conto, su parametri e principi universali e statuali, specificità territoriali. Io credo, ad esempio, che il welfare campano deve essere un welfare molto, molto diverso dal welfare lombardo. Per cui questa sfida passa anche attraverso la formazione di una nuova classe dirigente. La sinistra deve farsi corico anche di questo problema, deve riflettere su questo problema, su una nuova classe dirigente in grado di affrontare a tutto tondo questo punto.»

 

Terzi «Quando parliamo di universalismo, che coso intendiamo? Intendiamo un sistema uniforme, omogeneo o un sistema duttile, differenziato che si adatta alle diverse situazioni? Io credo che dobbiamo dare questa seconda risposta. Non solo; io starei attento a non mettere troppa enfasi sulla questione dei diritti. Tutto diventa un diritto, tutto diventa immodificabile. I diritti sociali sono sempre relativi a una situazione concreta. Il diritto è quello di essere tutelati dal licenziamento legittimo, però le forme con cui si risponde a questa questione possono essere diverse a seconda, appunto, della tipologia di impresa. Quindi universalismo non vuoi dire un sistema rigido, uniforme, uguale per tutti. Vuoi dire dare risposte diverse a situazioni diverse. Ad esempio, dobbiamo puntare sulla formazione, ma la formazione in funzione delle prospettive di lavoro avrà caratteristiche, contenuti diversi a seconda della struttura economica di una determinata regione che può essere a vocazione industriale, a vocazione turistica, a vocazione terziaria, dipende dalle situazioni concrete il cui distinguo si trova ad essere inserito. Così come la differenziazione vale anche nel senso di tener conto delle esigenze individuali, delle scelte di vita individuali. L’età pensionabile perché deve essere uguale per tutti? Ci possono essere diverse opzioni, si tratta di avere un sistema flessibile di incentivazione, di disincentivazione, che consenta al singolo di scegliere sulla base del proprio progetto di vita, delle proprie condizioni familiari, dei propri interessi, e anche tenendo conto proprio delle diverse caratteristiche del mestiere.

Mestieri usuranti, e mestieri che invece possono essere fatti fino a tarda età. Così le scelte per quanto riguarda la formazione, l’età della formazione, le attitudini individuali, le scelte individuali possono essere differenziate, non è che tutti devono fare la stessa cosa. Quindi un sistema di welfare che è universale nel senso che dà a tutti una rete protettiva che lo mette in grado di affrontare le situazioni di disagio, di incertezza, di difficoltà, che però dia la possibilità a ciascuno di orientarsi sulla base di proprie scelte individuali. E dia la possibilità anche ai diversi territori di organizzare su basi diverse, con modalità diverse, il proprio sistema locale di welfare.»

 

Ferrari «Sono convinto che il federalismo è una risposta utile anche dal punto di vista delle questioni che stiamo discutendo. Sono convinto, insieme a molti altri (non un numero sufficiente, purtroppo, in questi anni, non abbastanza, perché la partita è tutt’altro che finita, che il federalismo non è, come è stato concepito da alcuni, in modo riduttivo, la risposta politica alla protesta politica del Nord veicolata dalla Lega. Il federalismo è la risposta, diciamo strutturale, alla dinamica sociale di questo paese. Il federalismo è lo strumento che mette la classe dirigente in condizione di dare risposte più adeguate, più ravvicinate e più rapide ai problemi del Paese. Questo è il federalismo. Quando si parla di diritti dovremmo dirci che cosa intendiamo. Io per diritti intendo innanzitutto diritti di cittadinanza, e come tali sono quelli universali. I diritti di cittadinanza vanno tutti ripensati, e noi dobbiamo definire uno statuto dei diritti. Perché il cittadino, è ancora lavoratore, ma è sempre meno lavoratore e sempre più utente, cittadino. E quindi è ammalato, è studente, è utente dei servizi della mobilità, e da questo punto di vista sente che l’insieme dei diritti vanno ridefiniti. Ma questa è una questione di grande rilevanza, questa appartiene alla comunità nazionale, questo sono diritti universali che non si possono declinare sui territori. Quindi allo Stato deve rimanere il grande campo dei diritti di cittadinanza, che vanno ripensati e ridefiniti, e anche – dal punto di vista delle garanzie sociali, della tutela sociale – definire i livelli essenziali di assistenza, i LEA; ma anche i LED, livelli essenziali dei diritti; e anche i LEG, i livelli essenziali a garanzie. Ma poi bisogna trasferire poteri e risorse il più vicino al bisogno, il più vicino possibile al cittadino, alle famiglie. Io immagino una comunità nazionale in cui ai Comuni vengono trasferite risorse, cioè autonomia fiscale che consenta a questi amministratori, a queste classi dirigenti di assumersi responsabilità, di decidere interventi rispetto ai bisogni che si manifestano sui territori, che sono diversi da realtà a realtà. E la sussidiarietà davvero ha senso se è questo, se è un’operazione culturale, politica, che trasferisce il più vicino al bisogno, al cittadino, all’ammalato, allo studente. Questa è un’operazione che può fare una classe dirigente che cambia il senso di che cos’è il diritto universale, che definisca i livelli essenziali di garanzia e di tutela, ma che investa coraggiosamente sulle classi dirigenti locali. Solo lì si possono dare risposte articolate.»

 

Palumbo «Porre il problema della costituzione di un nuovo welfare reagendo di nuovo sulle leve del sistema fiscale, e quindi con un classico strumento di politica fiscale penso sia vincente. Sia vincente sia da un punto di vista della capacità di convincere la gente che questo è il sistema giusto, sia nella capacità di convincere questa società che è giusto togliere risorse alle famiglie, ai singoli, per costruire un sistema di assistenza pubblico. Proprio perché la società, come si diceva, è profondamente atomizzata, profondamente cambiata, dobbiamo anche immaginare un sistema di welfare molto flessibile, molto modulato, a misura di persona, e dare a ognuno la capacità di poter scegliere, dare la possibilità di poter scegliere anche forme di assistenza, forme di protezione sociale, che non siano per forza derivanti dal progetto complessivo di welfare che noi proponiamo, ma che vengono costruire su misura perché al singolo o alla famiglia sono state date le risorse finanziarie con cui sceglie sul mercato qual è quel percorso di assistenza e tutela di formazione che ritiene utile e più importante per lui.

E poi attenzione, quando sento parlare di riforma complessiva del welfare, di ridiscutere della società, di nuovi stili di vita, il rapporto spazio/tempo, mi spavento un po’ perché, venendo da una cultura di sinistra liberale, credo che noi dobbiamo offrire delle opportunità alle persone, delle possibilità di scelta, mentre non dobbiamo preoccuparci di rimodulare o di fare ingegneria sociale. Dobbiamo semplicemente dire che siamo stati in grado di fare delle scelte economiche, finanziarie, drenando alcune risorse da settori ad altri, e venire incontro a quelle che sono le richieste che la società in qualche modo formula. Io non mi porrei il problema, che è classico della sinistra, di rimodulare la società in qualche modo. Mi porrei molto più il problema di fare concretamente alcune cose e fare alcune proposte. Allora se vogliamo porre il problema degli ammortizzatori sociali, per esempio: porre il problema, lì sì, della formazione. Porre, lì sì, il problema della mobilità. In cambio di quella tutela sociale che sembra non essere più al passo coi tempi, o sembra non essere più adeguata a favorire l’occupazione in certi settori, cosa si può mettere in piedi? Ad esempio formazione: formazione professionale; investimenti per la formazione professionale; investimento in un salario minimo garantito; investimenti in ammortizzatori sociali che siano in qualche modo pari e automatici per tutti coloro che si trovano in certe condizioni.

Due piccole osservazioni sul federalismo e sulla società atomizzata. Sul federalismo stiamo attenti a che non diventi localismo, in questo senso: è vero che ogni realtà è diversa dall’altra, e che ogni realtà ha bisogno di assistenza e di formazione differenziate. Però io non vorrei che si facesse come quando ero giovane io, che vengo da una zona di campagna per cui lì ci dovevano essere gli istituti agrari e se qualcuno voleva fare qualcosa di diverso non c’erano alternative. Stiamo attenti che poi non ci sia l’immobilità sociale.

La famiglia come ammortizzatore sociale. Io dico solo questo: attenzione, forse siamo già in ritardo perché la famiglia di cui stiamo parlando adesso non esiste più. Fra vent’anni avremo situazioni per cui non ci sarà più il papà operaio che ha pagato l’università al figliolo. Perché ci sarà un papà che avrà due famiglie. Avete visto quali sono i tassi di separazioni o di moltiplicazioni familiari che ci sono in Italia. Quindi stiamo attenti anche a, in questo momento, immaginarci un ammortizzatore sociale all’interno della famiglia in una famiglia che non esiste più. Quindi, se ci deve essere un aiuto ai giovani, diamoglielo direttamente, perché la famiglia fra dieci anni sarà una famiglia diversificata, frantumata, che non potrà più farsi carico di questo ruolo di ammortizzatore sociale. Cerchiamo di anticipare i tempi per non trovarci fra dieci anni di fronte a una realtà sociale che non avevamo considerato con attenzione.»

 

Rampi «Mi sembra che si possa mettere qualche punto in più in cantiere per vedere di affrontare questa questione del riordino del welfare. Io credo che bisogna affrontarlo, come si è fatto qui, senza stereotipi e senza tabù.

Bisognerebbe discutere molto della relazione tra il momento della protezione (cioè la programmazione degli strumenti di protezione) e il momento della produzione di interventi di protezione. Mi interessa una discussione sull’idea di programmazione dei servizi e di qual è l’idea che l’istituzione pubblica ha di protezione sociale. Qui, mi sembra, che ne abbiamo messe di cose in cantiere, siamo andati ben oltre la sanità, siamo andati ben oltre la previdenza e abbiamo visto – e qui io credo sia estremamente utile questa discussione, ad esempio, per affrontare il Libro Bianco di Maroni – che bisogna declinare un’idea di welfare allargando i soggetti destinatari della protezione; allargando, di questo sono molto convinto, la questione delle risorse disponibili. Qui c’è un elemento di delicatezza di rapporto tra fiscalità, contribuzione e questione. Quello delle risorse è un punto di criticità in ogni paese. Anche laddove vi sono più risorse disponibili i mutamenti nella società esigono, esigono – se la funzione del welfare è una funzione anche di tutela e redistributiva,- quote di risorse pubbliche crescenti. C’è, poi, la questione del superamento della genesi giuslavoristica dello stato sociale, questione che crea dolore nella CGIL, ma è a mio avviso indispensabile. Questo non vuoi dire disattenzione del sindacato ai diritti nel lavoro e del lavoro, vuoi dire avere un’idea dello stato sociale che ha una genesi di carattere diverso, una genesi che deriva dalla condizione di cittadinanza. Sono felicissimo di questa valorizzazione del territorio. Il territorio deve innestarsi su una struttura universalistica attraverso la definizione di livelli essenziali – che non sono né livelli omogenei né livelli minimali, ma sono una concezione di essenzialità – deve innestarsi su questa per declinare qual è la questione di welfare di protezione.

Quindi il territorio – sul quale in questi anni ci siamo dovuti confrontare come elemento di promozione e di sviluppo economico sociale – si integra anche come idea di promotore di qual è il livello di protezione sociale indispensabile alla comunità che lì opera.

A me sembra molto importante – quando si parla della questione dei giovani – l’accento posto sul fatto che il sindacato dovrebbe ripensare e rilanciare una stagione di negoziazione sociale sulla formazione permanente.

Intendendo proprio quella continua e permanente, nel senso che riguarda le varie età della vita, e non solamente i pezzi dell’età di carattere produttivo. Non un cambio di etichetta dell’idea di formazione professionale, ma una riprogettazione della formazione.



Numero progressivo: E49
Busta: 5
Estremi cronologici: 2003
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Nuovi Argomenti SPI Lombardia”, gennaio marzo 2003, pp. VI-XII