CONFERENZA REGIONALE DI ORGANIZZAZIONE DELLA CGIL LOMBARDIA

17-18 febbriaio 1994

Relazione di Riccardo Terzi – Segretario generale CGIL Lombardia

1. La decisione di convocare la Conferenza Nazionale di organizzazione della CGIL, e successivamente le Conferenze territoriali e regionali, non è solo la risposta ad esigenze di ordine organizzativo. C’è, più in profondità, un problema di ridefinizione strategica del ruolo del sindacalismo confederale in questa fase di cambiamento tumultuoso, in questo passaggio, ancora problematico ed incerto, verso un nuovo ordinamento politico, verso una nuova forma della Repubblica, un passaggio che porta con sé speranze e apprensioni, nuove potenzialità democratiche e nuove, corpose, spinte di destra.

Man mano che si vanno delineando i contorni dell’attuale scenario politico, appare sempre più chiaro che non si tratta di una evoluzione rettilinea, di un movimento univoco di progresso che sostituisce alle prevaricazioni della partitocrazia le virtù sane della società civile come qualcuno ha ingenuamente pensato ma si apre, al contrario, uno scontro durissimo, nel quale tutto viene messo in questione. Nel vuoto che si è aperto nel collasso del sistema politico ciascuno gioca le sue carte, e il gioco si e già fatto pesante, senza nessun rispetto per le regole di civiltà e di tolleranza.

Sarebbe, credo, un grave errore di miopia e di ottusità burocratica se non affrontassimo, esplicitamente, il problema del sindacato e della CGIL in questo nuovo contesto, in questo rapporto con le grandi tendenze che sono oggi attive, sul piano politico, culturale e sociale.

Nel momento in cui tutti gli assetti di potere devono essere ridefiniti, e tutti i soggetti devono riqualificarsi e rimotivarsi alla luce della nuova situazione, sarebbe insensato pensare che il sindacato possa ritagliarsi un suo spazio di autosufficienza. Anche noi siamo nel mezzo della crisi e della transizione. Per questo i problemi organizzativi non possono essere isolati, ma sono immediatamente problemi politici.

Partendo da questo convincimento, scelgo di dare un taglio a questa relazione introduttiva più politico che organizzativo.

Se non abbiamo chiaro in quale direzione ci proponiamo di agire, quali sono le fondamentali coordinate strategiche, una discussione meramente organizzativa sarebbe del tutto cieca e improduttiva.

Ciò è particolarmente vero in Lombardia, che è l’epicentro della crisi e del cambiamento. Per questo, abbiamo una grande responsabilità nazionale, perché i problemi che ci troviamo qui ad affrontare non sono una particolarità locale, ma sono un segno ed una anticipazione di tendenze generali.

Fino ad ora questa consapevolezza non c’è stata, questo rilievo nazionale non è stato colto in tutta la sua pregnanza. Quando abbiamo cercato di analizzare il fenomeno della Lega e le sue implicazioni, questa ricerca e rimasta circoscritta, e non siamo riusciti a farne una questione di carattere nazionale, e questo ritardo pesa, perché la CGIL come tale non e riuscita a fare davvero i conti con il mutamento profondo che ha investito il clima generale del paese e l’orientamento dello spirito pubblico, e si e limitata ad enunciazioni generali, di principio, in difesa dell’unità nazionale, contro i separatismi e contro i nuovi sintomi di razzismo, che sono certo giuste e condivisibili, ma di-limitata efficacia perché restano alla superficie dei fenomeni in atto e non ne colgono l’interna dinamica.

In Lombardia ci troviamo di fronte alla contraddizione del processo di modernizzazione. Il modo in cui tale processo e avvenuto in Italia, nel corso degli anni ‘80, affidato solo alla spregiudicatezza imprenditoriale e alla dinamica di un mercato senza regole, ha determinato un vero e proprio vuoto di cultura, di identità collettiva, una lacerazione del tessuto sociale. Alla crisi delle grandi appartenenze ideologiche e delle grandi organizzazioni politiche di massa non si è sostituito nessun nuovo principio di regolazione e di mediazione, nessuna nuova forza di coesione. Viene così alla luce un intrico di interessi particolaristici, ciascuno dei quali sta chiuso nel suo orizzonte ristretto. C’è quindi in questo senso, una regressione, non il passaggio ad una politica più consapevole e più razionale, ma il rifiuto della politica e il ritorno a forme di coscienza di tipo corporativo.

La modernizzazione, lasciata a se stessa, rischia quindi di provocare un esito di catastrofe. Essa si realizza solo come perfezionamento tecnico, come tecnicizzazione della vita, come mera efficienza dei mezzi, e si perde completamente di vista il problema dei fini.

Insomma la macchina funziona, ma non si sa a che cosa serve. Tutto è in movimento ma non si sa verso dove.

E in questo ingranaggio rischiamo di trovarci schiacciati, di essere al servizio dei nuovi miti tecnologici. Così, accade di vedere persone che si credono importanti perché hanno un telefono cellulare anche se non hanno nulla da comunicare, o hanno una vettura che fa i duecento all’ora, ma che sta bloccata nel caos del traffico cittadino. Una sociologia della vita quotidiana ci può presentare mille esempi di questa natura, infiniti casi in cui i nostri gesti sono gesti casuali, senza ragione, guidati da una logica esterna.

Da qui viene un senso generale di smarrimento, di crisi di identità. La modernità non appare come una liberazione, come la conquista di una più forte autonomia individuale, ma come una sofferenza, come una più aspra competizione, come una corsa frenetica verso il nulla, nella quale ciascuno deve cercare di sopravvivere.

Si possono forse spiegare così il malessere, il disagio e il rancore che attraversano la società lombarda.

È su queste basi, che sono basi oggettive e materiali, che si sta organizzando un nuovo blocco sociale conservatore.

Se la modernità è questa competizione senza regole, senza principi, se si accetta questo orizzonte, allora anche la politica si trasforma, e diviene esercizio di forza, agglomerato di interessi, diviene anch’essa pura competitività. Questa è la destra. È l’idea di una società che è solo il luogo della competizione, dell’interesse, dell’affermazione individuale o di gruppo. Che questa nuova destra trovi in Berlusconi il suo rappresentante è del tutto logico, perché Berlusconi è un concentrato di tutto ciò, un’assenza totale di pensiero politico e una altrettanto totale arroganza nell’affermazione dei propri interessi di parte.

Un tale processo è già da tempo in atto e ha già provocato guasti profondi. La destra ha oggi possibili basi di massa, come non ha mai avuto nel passato: non solo ceti privilegiati, non solo chi ha tratto vantaggio da questa forma sregolata di modernizzazione, ma un’area sociale più vasta, dominata dalla paura, dal rancore, da uno spirito di protesta che non si traduce in obiettivi razionali, e che pertanto e facilmente manipolabile da una qualsiasi manovra demagogica.

Un tempo si parlava di “maggioranza silenziosa”. Ora purtroppo alla virtù del silenzio si sostituisce lo sproloquio televisivo dei nuovi buffoni di corte. E anche la politica viene gridata, viene piazzata sul mercato come una merce.

Dopo un periodo in cui il conflitto politico appariva come il conflitto tra il vecchio e il nuovo, in cui erano prevalenti gli elementi di rottura e di smantellamento del vecchio ordine politico, ora si rende esplicito il disegno di costruzione di un polo conservatore. La Lega ha compiuto, in questo senso, una scelta impegnativa e densa di conseguenze, perché ha decisamente spostato il tiro della sua azione e della sua propaganda, cessando di essere un movimento di protesta trasversale, non qualificato dal punto di vista dei programmi e dei referenti sociali, e proponendosi di essere il cemento della nuova destra conservatrice.

Il punto di attacco non è più la denuncia della corruzione politica, che ormai passa in secondo piano, ma è lo spettro dello statalismo. Di conseguenza, c’è una disinvolta manovra per cercare nuovi alleati, e vecchi arnesi del ceto politico vengono riciclati e rimessi a nuovo.

Evidentemente il gruppo dirigente della Lega ritiene di poter compiere questo passaggio senza dover pagare dei prezzi elevati, e mantenendo sostanzialmente intatto il consenso accumulato negli anni precedenti.

Ma qui c’è, potenzialmente, una contraddizione che possiamo proporci di far esplodere. C’è un’area sociale di lavoratori, di gente comune, di ceti deboli, che rischia di subire la più colossale manipolazione, divenendo la massa di manovra per una politica che colpirà al cuore ogni principio di socialità.

Nuove oligarchie, nuovi poteri forti, e un’area di consenso che e il frutto dello spaesamento e della perdita di identità: con questi ingredienti si costruisce il nuovo blocco conservatore.

Non credo che sia fuori dalle nostre responsabilità denunciare questa minaccia. Non si tratta certo di schierare il sindacato come forza di fiancheggiamento per determinate liste, o schieramenti. Ma c’è, in questa fase politica, una posta in gioco che ci riguarda direttamente, perché prendono corpo progetti politici che sono agli antipodi dei principi e dei valori del sindacato, progetti di società dove non c’è più spazio per le idee di eguaglianza, di solidarietà, di universalità dei diritti.

Per questo mi sembra indispensabile oggi un impegno culturale forte, una motivazione chiara del sistema dei valori che deve a nostro giudizio qualificare la società moderna, affrontando quindi esplicitamente i nodi e le contraddizioni della modernizzazione, i suoi possibili effetti di disumanizzazione e le sue potenzialità e risorse che possono essere messe al servizio di una politica di liberazione dell’uomo, nel lavoro e nella vita sociale.

Il sindacato, insomma, non sceglie un partito, ma sceglie questo si valori, programmi, discriminanti ideali, e la sua credibilità dipende dalla coerenza con questi valori.

Il nostro problema è rendere visibile un cammino di progresso nella modernità, rendere concreti e percepibili i traguardi di civiltà, di umanizzazione, di nuova solidarietà sociale che sono oggi possibili, che sono aperti alla nostra iniziativa.

E non è solo un discorso di parte, sia pur legittimo, che riguarda esclusivamente gli interessi del lavoro dipendente, ma è un’esigenza più complessiva di qualità dello sviluppo sociale ed economico. In tutte le grandi società moderne, a economia sviluppata, il salto di qualità che oggi si richiede è verso una più alta capacità di regolazione, di armonizzazione, di integrazione sistemica.

C’è quindi un bisogno di politica, come regolazione razionale delle dinamiche sociali, c’è un bisogno di equilibrio sociale e ambientale.

La destra, o almeno quel tipo di destra aggressiva ed incolta che appare oggi in Italia, che fa leva sugli spiriti animali di un capitalismo primitivo, non ci avvicina alle aree forti dell’Europa, ma ci incammina su un binario morto.

Non costruisce una politica, ma lascia che nel vuoto della politica si scatenino tutti i particolarismi.

Questa pseudo-cultura liberistica, che ignora totalmente la ricchezza e la complessità delle elaborazioni più avanzate del pensiero politico, sta già producendo i suoi effetti. La Lombardia sta già entrando in una fase allarmante di declino e non regge più il confronto con le aree forti dell’Europa. Se si farà nei prossimi anni, sotto la guida di Bossi e di Berlusconi, una politica da bottegai, da evasori fiscali, da piccoli affaristi rapaci, la Lombardia non avrà più titoli per stare in Europa, ma sarà solo una zona periferica, tagliata fuori dalle vere sedi di decisione e di programmazione strategica.

La Lombardia è stata forte fin quando ha avuto un’ambizione nazionale e internazionale, fin quando ha saputo svolgere una funzione dirigente che andava oltre la difesa di interessi immediati, di singoli gruppi, Se si passa da questa consapevolezza di un ruolo dirigente nazionale alla miopia dei localismi e degli egoismi corporativi, entriamo allora in un processo di marginalizzazione, ed è un rischio tutt’altro che teorico, perché già siamo avviati verso una prospettiva di questa natura.

Non vuole essere, questa, un’analisi pregiudiziale, ideologica, come quella che appariva nei documenti della III internazionale comunista, i quali immancabilmente annunciavano la crisi storica e il crollo imminente del capitalismo. No, non si tratta certo di ipotizzare astratte alternative di sistema, ma di vedere realisticamente nell’attuale dinamica sociale i fattori possibili di sviluppo e di regresso, e di scegliere quindi, sulla base di queste analisi concrete, le opzioni programmatiche che possono aprire un futuro per il nostro paese. Oggi il futuro appare denso di ombre e di minacce, e nella coscienza collettiva del paese, che è passata dalla fase aspra di questi ultimi anni, c’è oggi molta incertezza, e quasi uno sfinimento, una ricerca affannosa di nuovi punti di approdo e di certezza. E questa insicurezza può andare nelle più diverse direzioni, e può essere attratta da qualche moderno incantatore di serpenti.

Per questo, occorre stare saldamente in campo, e rendere visibile la presenza del sindacato, come elemento di coesione sociale, di solidarietà, di difesa della dignità e dei diritti della persona.

 

2. La transizione politica riflette questi processi, questi sommovimenti sociali e culturali, e quindi si presenta anch’essa come ambigua, aperta a diversi sviluppi.

Per questo non è più sufficiente schierarsi genericamente per le riforme istituzionali, per il passaggio alla Seconda repubblica, ma occorre chiarire il progetto politico, la sua qualità, i suoi obiettivi.

Qui c’è, sicuramente, un ritardo del sindacato e della sua capacità propositiva, per cui nel dibattito istituzionale gli aspetti sociali sono rimasti fin qui del tutto in ombra.

Ora, il problema non può ridursi a qualche nuovo meccanismo elettorale, ma riguarda più complessivamente una nuova definizione dell’intera architettura dello Stato, e allora bisogna saper scegliere quale modello di Stato sociale intendiamo realizzare, quale ruolo viene affidato alle forze sociali, ai soggetti della società civile, quali forme di partecipazione e di democrazia economica, quali strumenti di regolazione politica per indirizzare lo sviluppo economico.

Mi limito a segnalare questa necessità, senza approfondirla.

Ma è chiaro che dalle risposte a questi problemi dipende la natura del nuovo ordinamento, il suo significato sociale, e quindi la sua coerenza o meno con gli obiettivi di fondo e con i principi che sono propri del movimento sindacale.

La nuova architettura istituzionale dovrà aprire nuovi spazi di partecipazione democratica. E per questo è del tutto essenziale l’opzione autonomista e regionalista, per spezzare i vecchi meccanismi burocratici accentrati, per consentire un rapporto nuovo, più diretto e più trasparente, tra le istituzioni e le comunità locali. Una scelta chiara, netta e coerente in questa direzione, per cui lo Stato centrale è solo il garante dell’unità nazionale e il depositario di quelle poche funzioni che sono indivisibili, e tutte le altre competenze sono affidate all’autonoma responsabilità delle Regioni e degli enti locali, ciò può costituire una grande occasione di riforma dell’intera macchina dello Stato e della pubblica amministrazione, E sono evidenti le grandi implicazioni che ne derivano anche per il sindacato, per il suo modo di operare, per la sua forma organizzativa.

Il regionalismo non è solo decentramento di poteri, ma un nuovo modo di intendere lo Stato, rovesciando la logica attuale, in quanto le Regioni diventano le depositarie di poteri sovrani, e alcuni poteri possono essere trasferiti allo Stato centrale per via federativa per quelle materie e per quelle funzioni che richiedono una dimensione territoriale più vasta, e cosi analogamente si rende necessario anche un potere sovranazionale di carattere europeo. Il processo decisionale dal basso verso l’alto: non è lo Stato che delega determinate funzioni, ma all’inverso lo Stato centrale è il destinatario di alcuni limitati poteri delegati.

È chiaro come tutto ciò abbia delle straordinarie implicazioni. Ma, fino ad ora, nonostante molta retorica regionalista e federalista, i meccanismi non sono cambiati, né quelli dell’ordinamento statale, né quelli delle grandi organizzazioni politiche e sociali.

Il sindacato non fa eccezione, e anche la CGIL, con la Conferenza d’organizzazione ha perso l’occasione – questa è la mia personale convinzione – per compiere davvero una coraggiosa riforma organizzativa, e anzi per molti aspetti si vanno irrigidendo i vincoli centralisti e si vanno definendo modelli organizzativi uniformi che non lasciano spazio alla libera sperimentazione e all’autonomia di scelta e di responsabilità delle strutture decentrate.

In sostanza, il nuovo ordinamento che dovrebbe caratterizzare la seconda repubblica va pensato come un sistema di autonomie, rompendo e vecchie logiche consociative: autonomia dei diversi livelli istituzionali, autonomia dei poteri locali, e anche autonomia delle rappresentanze sociali, che hanno un loro proprio ambito di iniziativa del tutto distinto da quello politico e istituzionale.

Per il sindacato questa rivendicazione di autonomia è essenziale, e non può essere in alcun modo barattata. Non stiamo cercando nuovi apparentamenti, nuovi collateralismi. Sarebbe un errore tragico.

C’è bisogno di un forte tessuto autonomo della società civile, fatto di organizzazioni sociali, di associazionismo democratico, di una “società intermedia” che organizza interessi, culture, forme varie di impegno collettivo e volontario dei cittadini. Se il sistema politico potrà tendere, come è ragionevole pensare, verso una forma di bipolarismo, ciò non significa che l’intera società, a tutti i livelli, dovrà organizzarsi sul medesimo schema e divenire quindi il campo di battaglia dove i soggetti politici si giocano la loro egemonia.

Avremmo così una forma ancora più spinta e invasiva di partiticizzazione dell’intera vita sociale. E d’altra parte, stiamo attenti a non semplificare troppo la dinamica politica, che ancora non ha dato luogo a un bipolarismo perfetto ma presenta tuttora articolazioni, complessità, evoluzioni contraddittorie, che solo nel tempo potranno dar luogo ad un sistema più chiaro e meglio assestato.

In ogni caso, quale che sia l’evoluzione politica noi scegliamo di fondare l’azione del sindacato su proprie autonome ragioni, rifiutando il modello che esiste in altri paesi europei, di un sindacato che e cinghia di trasmissione di un determinato partito, con un regime di sovranità limitata.

In questa fase di transizione politico-istituzionale, quindi, va ben chiarita la nostra funzione: un grande impegno politico e progettuale autonomo, per realizzare un nuovo corso sociale e progressivo nella vita politica del paese, per contrastare con energia l’offensiva neo-conservatrice, ed una fermissima difesa dell’autonomia, in quanto soggetto sociale, parte significativa della società civile, non disponibile in nessun caso ad essere guidato da logiche esterne, da criteri partitici, da ragioni che non siano rigorosamente ragioni sindacali. E questo il più decisivo contributo che possiamo dare anche sotto il profilo politico, perché un sindacato forte, autorevole e autonomo può essere un elemento importante di forza e di tenuta democratica in una fase complessa e rischiosa come quella che stiamo attraversando.

 

3. Siamo posti di fronte ad una radicalizzazione delle scelte. L’offensiva di destra sta prendendo ormai una fisionomia chiara, esplicita: tutta una parte consistente del vecchio ceto politico si sta riciclando sotto le nuove bandiere e non manca l’ennesimo trasformismo di Marco Pannella, pronto coni suoi referendum ad aprire la strada ad una politica antisociale e antisindacale.

È una sfida che ci chiama direttamente in causa, e dobbiamo saper rispondere con chiarezza, non diplomatizzando i contrasti, ma rilanciando con forza un nuovo progetto di socialità. L’Italia ha bisogno, per essere davvero un paese moderno e civile, di costruire un proprio sistema efficiente di istituzioni sociali, di avere una politica efficace in grado di affrontare i problemi nuovi e drammatici dell’emarginazione sociale, della disoccupazione di massa, di un’area di povertà che tende ad espandersi, della protezione dei soggetti deboli. In questi anni la situazione sociale si e gravemente deteriorata, e il quadro che si presenta oggi, in modo sempre più visibile soprattutto nelle grandi citta, e un quadro di degrado, di disuguaglianza, di esclusione.

Si tratta dunque di decidere se la prospettiva è quella di un’ulteriore lacerazione del tessuto sociale lasciando agire senza contrappesi una competizione selvaggia, o se viceversa si tratta di ricostruire un patto di solidarietà.

Il compito del sindacato è quello di essere un elemento attivo di solidarietà e sotto questo profilo va esaminata criticamente la nostra azione. Non siamo riusciti, con sufficiente concretezza ed efficacia, a dare risposte, a dispiegare un’azione di sostegno, di solidarietà attiva, verso diversi gruppi sociali che si sentono minacciati nei loro diritti fondamentali.

La riforma organizzativa del sindacato deve servire a questo.

Non è un fatto tecnico. E la messa a punto di una strumentazione politica ed organizzativa che consenta di rendere visibile il sindacato come soggetto di solidarietà sociale.

Da questo punto di vista le scelte del Congresso non si sono ancora attuate nella pratica concreta dell’organizzazione.

Il tema dei diritti universali di cittadinanza, che è stato il filo conduttore del Congresso, è rimasto un’affermazione di principio che stenta a tradursi in una pratica conseguente.

E occorre una più netta battaglia politica e culturale per affermare l’idea di uno stato sociale rinnovato e moderno, garante dei diritti di cittadinanza, rifiutando la logica “assistenziale” con la quale si sancisce la divisione strutturale della società in un’area forte, che è in grado di autotutelarsi, e in un’area di emarginazione protetta.

Questa impostazione politica allarga l’iniziativa del sindacato a nuovi campi di intervento, perché ci occupiamo del lavoratore nella sua condizione sociale complessiva, come cittadino, come membro di una comunità, come portatore di bisogni sociali complessi. Prendiamo, ad esempio, il caso dei lavoratori immigrati, il cui problema non e solo il lavoro, ma la conquista di condizioni più complessive di civiltà, fino all’affermazione dei diritti politici oggi negati.

È un caso limite, ma proprio per questo dobbiamo farne un emblema significativo della nostra azione, perché se la nostra scelta e l’uguaglianza dei diritti allora i nostri primi interlocutori sono gli esclusi, i senza diritti, non avendo timore di andare apertamente contro corrente.

Ma questo spostamento di centralità dal luogo di lavoro alla condizione sociale complessiva è un dato generale che riguarda l’intero universo del lavoro dipendente, perché e cambiato il rapporto tra lavoro e società e l’identità sociale non si costruisce più esclusivamente nel luogo di lavoro, ma e il risultato di un insieme di relazioni, di appartenenze, di legami.

Il grande successo organizzativo dello SPI, ad esempio, trova qui la sua spiegazione, perché appunto cerca di rispondere ad una vasta gamma di bisogni, non solo di carattere strettamente economico, ma di valorizzazione e di riconoscimento sociale.

Il sindacato, quindi, ha necessariamente oggi compiti nuovi, più estesi e complessi, perché solo così può essere rappresentativo del mondo del lavoro, può organizzare la coscienza collettiva dei lavoratori, tenendo conto delle modificazioni che sono intervenute. Altrimenti si può produrre tra i lavoratori una divaricazione, con un sindacato che svolge una funzione sempre più limitata e residuale di mera assistenza contrattuale, e con altri soggetti ai quali viene affidata la rappresentanza sociale complessiva. Anche così si spiega l’affermazione della Lega, che ha colto l’importanza dell’appartenenza territoriale e che su questa base ha cercato di organizzare una nuova forma di rappresentanza degli interessi.

Ecco allora emergere la necessità di un nostro progetto sociale complessivo e autonomo, che delinei il modello di società e le istituzioni di un nuovo patto civile.

Se la sfida è politica, se siamo posti di fronte ad un’offensiva che investe gli aspetti di fondo dell’ordinamento sociale, anche la nostra risposta deve essere politica, alzando il tiro della nostra iniziativa e affrontando, nel loro insieme, i problemi sociali del paese, con una capacità politica di proposta e di progettazione.

Ciò evidentemente esula dai compiti di questa Conferenza, ma è importante, credo, anche ai fini di una definizione dei nostri obiettivi organizzativi, capire i compiti nuovi e le esigenze politiche che stanno di fronte al sindacato.

È essenziale l’analisi della situazione, e il confronto tra analisi diverse, per capire davvero a che punto siamo e quali sono le possibili alternative che ci stanno di fronte.

Io credo che siamo ad un punto molto critico, e che non abbiamo davanti a noi molto tempo, che, dunque, il rischio maggiore è il prevalere di una forza di inerzia che ci tiene inchiodati a vecchie prassi consolidate e che ci impedisce di compiere davvero una scelta di rinnovamento. E da questo punto di vista, è necessario che ciascuno faccia in prima persona, liberamente, il massimo sforzo di pensiero, indipendentemente dagli schieramenti che ci siamo trascinati stancamente dal Congresso, e che mi sembrano essere ormai solo un residuo burocratico di scarso rilievo o, peggio ancora, un riflesso di schieramenti politici esterni.

C’è quindi il rischio di una conclusione di routine, che lascia alla fine le cose come stanno, con una grande produzione di carta, ma senza la chiara individuazione di alcune scelte di fondo. Con questa Conferenza regionale, che conclude una fase lunga di discussione interna, dobbiamo perciò rendere visibili e chiare le decisioni, le scelte, i progetti.

Lo faremo, spero, con i documenti finali, ma già a partire dalla relazione e dal dibattito è bene cercare di focalizzare i punti di maggior rilievo.

 

4. Per affrontare questa nuova fase, con tutte le sue enormi difficolta, e per rafforzare le ragioni del sindacalismo confederale, l’obiettivo dell’unita rappresenta oggi un passaggio strategico e occorre, in proposito, una discussione esplicita, senza reticenze, senza furbizie, e una chiara assunzione di responsabilità.

Nella riunione dei tre direttivi regionali, abbiamo già indicato le ragioni politiche di questa scelta, ed abbiamo indicato un concreto percorso di lavoro. Credo che la nostra Conferenza d’organizzazione debba pienamente confermare questa impostazione. La relazione che ho svolto in quell’occasione a nome delle segreterie regionali di CGIL-CISL-UIL viene perciò assunta come parte integrante della piattaforma politica di questa Conferenza. Quella iniziativa ha avuto, mi pare, un grande rilievo, anche nazionale, ha suscitato interesse, e da varie parti siamo sollecitati ad andare avanti, a dare continuità all’iniziativa, a costruire quindi le condizioni politiche e operative perché il progetto unitario possa effettivamente realizzarsi in tempi brevi.

Il problema dei tempi è essenziale, come sempre nei processi politici rilevanti, e se non c’è da subito una grande determinazione dei gruppi dirigenti, a tutti i livelli, rischiamo uno sfilacciamento, il protrarsi di una situazione di stagnazione e di incertezza, il che avrebbe un pesantissimo effetto negativo e darebbe nuovo fiato ai settarismi di organizzazione.

Il tempo è ora. Lo diciamo per noi stessi e chiediamo alle Confederazioni nazionali l’apertura immediata di una fase costituente. In questo senso, mi sembra rilevante la proposta avanzata dalla Carnera del lavoro di Milano di indire una Costituente milanese, con i gruppi dirigenti delle tre Confederazioni e con i nuovi eletti delle RSU, e nella medesima direzione si muovono altre iniziative territoriali.

Con CISL e UIL della Lombardia abbiamo una intesa piena e una comune valutazione, il che ha dato luogo ad un clima positivo di fiducia, che è un patrimonio prezioso per il futuro.

Perché l’unità? Perché ora? Questa domanda affiora in modo esplicito o indiretto, ed esprime una riserva, una preoccupazione, una diffidenza. Ci sono, certo, problemi ancora aperti e differenze di impostazione non ancora ricondotte a sintesi. Ma, appunto, con il progetto unitario una sintesi può essere operata, mentre in caso contrario ogni organizzazione resterà chiusa in se stessa, nelle sue certezze, nelle sue parzialità.

L’unità è la conseguenza logica e coerente di un progetto di rilancio del sindacato, come soggetto autonomo, come forza rappresentativa del mondo del lavoro, come luogo e strumento di una nuova solidarietà sociale.

L’unità – come abbiamo detto nella riunione dei tre Direttivi – è il vero banco di prova dell’autonomia. Rischiamo altrimenti l’attivazione di nuovi collateralismi e di nuove dipendenze.

Per questo è importante assumere regole di autonomia molto precise, anche nell’imminenza di una campagna elettorale difficile e in presenza di un quadro politico in evoluzione.

Il sindacato è impegnato politicamente sulla base di proprie valutazioni, di proprie opinioni programmatiche, che intende confrontare, senza vincoli, con tutte le forze politiche in campo. Valgono per noi alcune decisive discriminanti programmatiche: la politica per l’occupazione e per il lavoro, la costruzione di un moderno stato sociale, i diritti di cittadinanza. Non siamo quindi per nulla neutrali o indifferenti, ma non siamo forza di complemento per nessuno, e questa autonomia la intendiamo esercitare pienamente nei confronti del prossimo Parlamento e del prossimo Governo, quale che sia la loro composizione.

E un campo d’azione sempre più rilevante e strategico è quello internazionale, e in particolare europeo, all’interno delle organizzazioni sindacali internazionali, e anche sviluppando in modo autonomo un sistema molteplice di relazioni con altre regioni della Comunità europea, con il nuovo sindacalismo dell’Est, e con un impegno forte di solidarietà con le popolazioni colpite dalle tragedie della guerra.

Il nuovo sindacato unitario sarà un soggetto nuovo, costruito democraticamente dal basso, con la partecipazione dei lavoratori, con il protagonismo dei nuovi eletti nelle RSU, e con nuove regole di democrazia che garantiscano un rapporto continuativo e trasparente con gli iscritti e con i lavoratori. Per questo il primo decisivo appuntamento è l’elezione delle RSU, e ormai è il momento di aprire una lotta politica decisa contro tutte le forme di inerzia e di resistenza passiva che continuano a determinare inammissibili rinvii.

È il momento di organizzare una grande campagna nazionale per il rinnovo delle rappresentanze aziendali, e nessun alibi è più consentito.

Di ciò dovranno rispondere i gruppi dirigenti, e con questo metro saranno misurati.

La CGIL Regionale propone, con questa Conferenza, di compiere una scelta chiara e impegnativa per l’unita sindacale, che deve vincolare l’intera organizzazione.

Ci sentiamo impegnati a continuare il lavoro che abbiamo impostato unitariamente. Un gruppo di lavoro unitario affronterà i problemi che restano aperti e che richiedono un approfondimento, e cercherà di avanzare proposte circa il modello organizzativo, le regole di democrazia, le norme statutarie del nuovo sindacato unitario, così da entrare nel merito e impostare tutta la nostra discussione sulla base di una elaborazione concreta. Entro l’anno può essere predisposto un progetto da sottoporre al confronto e al dibattito con i lavoratori, attraverso una discussione di massa.

 

5. Unità e riforma democratica del sindacato vanno di pari passo e sono due aspetti inscindibili.

La discussione che abbiamo aperto in CGIL e le prime decisioni che stiamo assumendo sulla via di una riforma organizzativa sono quindi un contributo al progetto unitario, e non un arroccamento o una scelta unilaterale.

Abbiamo messo al centro l’esigenza di una sburocratizzazione della struttura. Forse vale la pena di chiarire meglio questo concetto e di vederne le implicazioni.

La degenerazione burocratica non consiste tanto nel rigonfiamento abnorme degli apparati, anche se questo può essere un sintomo, quanto piuttosto in un processo più sostanziale, nel fatto cioè che una certa struttura, nata come strumento per realizzare determinati obiettivi, ad un certo punto perde di vista i propri fini e diventa fine a se stessa, e lavora quindi essenzialmente per la propria autoconservazione.

La storia politica è ricchissima di esempi di questa natura, del modello staliniano del partito-Stato fino alle nostre più provinciali e mediocri vicende partitiche. E la tendenza burocratica è insita in tutte le grandi strutture, che tendono ad essere completamente assorbite dai propri problemi interni di funzionamento e a perdere così di vista la propria originaria finalità.

È possibile e corretto applicare questo criterio interpretativo anche al sindacato e alla CGIL? Posta così brutalmente la questione, siamo tentati di rispondere negativamente, ma se compiamo più esattamente un esame di come funziona l’organizzazione, allora effettivamente possiamo riscontrare alcuni elementi di burocratizzazione, sulla base della definizione che abbiamo prima assunto.

Se ciascuno fa anche approssimativamente un calcolo di come viene ripartito il proprio tempo di lavoro, dovrà constatare che la gran parte di questo tempo è dedicata à compiti di sopravvivenza della struttura, a problemi interni, di equilibrio politico, di inquadramento, di assetto organizzativo, e che tali compiti finiscono spesso per soffocare le finalità che sono proprie dell’azione sindacale.

Non ho fatto in proposito nessuna ricerca, e quindi questa osservazione va presa per quello che e, ossia come un giudizio del tutto opinabile. In effetti, potrebbe essere utile impostare una ricerca sul nostro funzionamento organizzativo che ci aiuti a capire meglio, con dati oggettivi, come funzionano le cose e quali sono le strozzature burocratiche da rimuovere.

Posto così il problema, la riforma organizzativa va impostata come ridefinizione della struttura in funzione degli obiettivi. Occorre cioè partire dai fini, dai programmi di lavoro, e su questa base rimodellare la struttura.

Ciò evidentemente non è solo un problema organizzativo, ma e un problema di rimotivazione politica, di stile di lavoro, di impegno personale. La burocratizzazione si concretizza nei comportamenti soggettivi, e se non riusciamo ad agire anche a questo livello non c’è riforma organizzativa che tenga.

L’esigenza fondamentale è sicuramente quella di decentrare, di spostare risorse, materiali ed umane, verso il basso, verso quelle funzioni che sono più direttamente a contatto con i problemi concreti dei lavoratori, perché qui è più immediatamente visibile la funzione del sindacato e pesano sicuramente meno problemi di sopravvivenza burocratica della struttura.

In questo quadro è essenziale la costruzione dei Comitati degli iscritti nei luoghi di lavoro, con una propria disponibilità di risorse.

Va così riequilibrata quella sorta di piramide rovesciata, che vede nella CGIL più dirigenti che funzionari di base. Un esercito con troppi generali non vincerà mai nessuna battaglia.

I dati di questi ultimi anni mostrano un leggero miglioramento, ma la situazione resta complessivamente squilibrata. Sul totale dell’apparato della CGIL in Lombardia, il 5% sono segretari (erano il 40% nel ‘89) il 34% sono funzionari politici e il 30% e costituito dall’apparato tecnico.

Si riscontra una tendenza positiva anche per quanto riguarda la presenza nelle zone, che è passata dal 54 al 39%, ma è un dato ancora insufficiente, anche perché dovuto in massima parte al decentramento organizzativo operato dallo SPI.

C’è dunque ancora un eccesso di accentramento, che impedisce di dispiegare un’iniziativa diffusa sul territorio, impedisce quindi di svolgere efficacemente un’azione sociale continuativa e concreta, per rispondere ai nuovi, più complessi bisogni del mondo del lavoro. Abbiamo ancora una testa troppo pesante e articolazioni deboli, insufficienti.

In sostanza, la scelta organizzativa principale da realizzare è il rafforzamento della “prima linea”, ovvero di tutte quelle funzioni che sono immediatamente a contatto con i lavoratori sfoltendo tutte le strutture gerarchiche intermedie, che spesso sono solo un inutile appesantimento della struttura, dando luogo a sovrapposizioni e duplicazioni, e quindi a inevitabili conflitti inter-burocratici.

Ma il decentramento è solo un aspetto e occorre evitare posizioni unilaterali e demagogiche. Perché, infatti, occorre anche rafforzare alcune funzioni centrali, e in alcuni campi occorre passare dall’attuale dispersione di risorse ad un loro uso coordinato e centralizzato. Penso, ad esempio, all’informazione sindacale, che fino a quando viene affrontata in modo artigianale dalle singole strutture non raggiunge una soglia minima di efficacia, mentre concentrando le risorse potremmo proporci obiettivi più ambiziosi. Lo stesso discorso vale per l’attività di formazione, che può essere svolta seriamente solo da una struttura dotata di mezzi, di risorse e di competenze sufficienti.

Insomma, non si tratta solo di spostare verso il basso, ma di individuare per ciascuna funzione il livello ottimale, meglio rispondente agli obiettivi che ci vogliamo proporre. E in entrambe le direzioni ci sono resistenze da superare, ci sono vischiosità burocratiche e piccoli interessi di bottega.

Per questo è necessario un “centro regolatore”, che sia in grado di fissare obiettivi, criteri, regole, e questa funzione non può che essere affidata alla struttura regionale, mentre restano ovviamente intatte le normali competenze organizzative delle Camere del lavoro.

Il difetto della nostra struttura è quindi soprattutto un difetto di rigidità, in quanto non riesce ad adattarsi alle diverse esigenze, e non riesce ad adottare soluzioni flessibili, differenziate. Tutto il lavoro verso i nuovi settori, verso nuovi campi di sindacalizzazione, nelle piccole imprese, nei quadri, nei lavoratori immigrati, nei giovani, incontra tuttora difficoltà e rigidità organizzative, mentre sarebbe necessario proprio in queste direzioni concentrare un impegno di lavoro di carattere straordinario.

Nel settore dell’artigianato, dove questa scelta di impegno politico e organizzativo è stata compiuta, ormai da molti anni, con più decisione, cominciamo oggi ad avere risultati politici significativi.

Ma ciò, appunto, ha comportato una rottura degli schemi organizzativi e la sperimentazione di nuove soluzioni.

Credo che anche per il lavoro verso le donne ci sia bisogno di maggiore fantasia organizzativa.

Non basta fissare le quote, le norme antidiscriminatorie, che pure rappresentano un elemento indispensabile di garanzia.

Ma la qualità politica della presenza femminile nella CGIL non si misura con criteri solo quantitativi, e ci possono essere situazioni del tutto in regola dal punto di vista delle quote, ma dove una presenza politica femminile non e per nulla visibile. Ciò che occorre, dunque, è l’apertura di effettivi spazi di iniziativa politica e di sperimentazione organizzativa.

Insomma, c’è anche qui un pericolo di burocratizzazione, quando il problema delle donne si riduce ai problemi di inquadramento.

Mentre la cosa essenziale è l’elaborazione di una politica che sia capace di parlare alle lavoratrici, di farei i conti con la loro condizione sociale, di offrire strumenti capaci di esprimere la loro autonomia.

Anche nel sindacato c’è bisogno di un sistema di autonomie, per rappresentare le differenze, sociali, sessuali, professionali o territoriali, e per dare alle diverse strutture responsabilità di decisione e di sperimentazione. Se, appunto, assumiamo come criterio l’obiettivo, il fine, allora in funzione dell’obiettivo possono legittimarsi diversi modelli, diverse esperienze. E solo cosi, rischiando, sperimentando, che possiamo trovare soluzioni innovative, le quali possono nascere solo sul campo, nel lavoro concreto, e non con una predeterminazione a tavolino.

 

6. Questo criterio di autonomia e di flessibilizzazione della struttura vale, a nostro giudizio, anche e soprattutto per quanto riguarda le singole realtà regionali, che possono essere, in una riforma di tipo regionalista, le articolazioni essenziali di un sindacato rinnovato. Coerentemente con un disegno di riforma dello Stato, anche il sindacato deve ridefinire la dislocazione dei poteri e ribaltare la logica centralistica che è stata fin qui prevalente.

Questo problema ci pare non essere ancora risolto. E questa indeterminatezza pesa sulle nostre scelte e le rende problematiche, incerte, perché resta un’incognita non ancora chiarita.

C’eravamo proposti di presentare a questa Conferenza regionale una bozza di Statuto della CGIL della Lombardia, ma ci siamo resi conto che mancano alcune premesse, non essendo chiaro quale sia l’effettivo ambito di autonomia normativa che compete alle strutture regionali.

D’altra parte ha senso uno Statuto se c’è un principio forte di autonomia, altrimenti può bastare un regolamento attuativo.

Ora, una discussione chiara su questo punto non è stata ancora fatta in CGIL, e non e un caso che fino ad ora nessuna Regione abbia ancora elaborato propri Statuti, perché evidentemente c’è una incertezza che rende problematica una tale elaborazione.

Per questo proponiamo una sede di discussione tra i Comitati regionali della CGIL e la Confederazione Nazionale, per definire una linea e un’impostazione che sciolga i nodi che sono rimasti aperti.

Ad esempio, abbiamo la possibilità di definire in autonomia, tenendo conto delle caratteristiche della nostra Regione, la nostra architettura organizzativa, o sono del tutto rigidi e vincolanti i deliberati nazionali? Ciò riguarda aspetti importanti nella nostra Regione, come l’esistenza o meno di strutture regionali di categoria, o le forme che può assumere il decentramento organizzativo nelle zone, con livelli diversi di autonomia, con la possibilità o meno di salvaguardare alcune esperienze originali in aree che hanno una forte e motivata tradizione di autonomia politica e organizzativa.

Per quanto riguarda le categorie, a noi sembra necessario, in una Regione come la Lombardia, un modello di grande flessibilità che consenta soluzioni diverse e articolate, per le quali il riferimento non può essere solo all’esercizio delle competenze contrattuali, ma al peso politico della categoria nella Regione e ai compiti che ad essa spettano di elaborazione e di coordinamento dell’azione sindacale.

In generale, abbiamo qui un’esperienza viva, reale, non una mera sovrastruttura burocratica. Sicuramente vanno perseguiti obiettivi di snellimento e di decentramento, riducendo i membri delle segreterie e stabilendo, dove è opportuno, rapporti di integrazione con l’area metropolitana o con altre strutture importanti.

Ma, se guardiamo i dati, il peso delle strutture regionali non è esorbitante, e una limitata opera di razionalizzazione può essere sufficiente. Un’applicazione rigida e meccanica del criterio che prevede un unico livello congressuale territoriale o regionale rischia quindi di essere, nella nostra Regione una misura dannosa, che taglia nel vivo e che indebolisce un patrimonio importante di esperienza.

Noi crediamo necessario un modello organizzativo che sia imperniato su una forte funzione di direzione regionale: di direzione, di regolazione, mentre i compiti operativi vanno il più possibile decentrati.

Pensiamo quindi ad una struttura regionale investita di funzioni politiche di direzione, a cui sia riconosciuto un ruolo sovraordinato rispetto alle altre strutture, un ruolo di decisione che sia vincolante, il che non significa affatto una struttura pesante o un apparato sovraccarico.

Al contrario la segreteria regionale dovrebbe ridursi a 5-6 membri, e l’apparato essere qualificato con poche funzioni specialistiche che garantiscano un livello alto di elaborazione. Resta aperto il problema dei rapporti con l’area metropolitana milanese. Ci sono diversi modelli possibili, e non siamo ancora in grado di assumere una scelta definitiva, anche perché non si è ancora definito l’assetto istituzionale e sono incerti gli stessi confini dell’area metropolitana.

La Conferenza della Camera del Lavoro Metropolitana di Milano ha preso determinate decisioni organizzative, che noi assumiamo.

C’è un processo di decentramento che deve andare avanti, riorganizzando le zone ed estendendo le loro competenze e responsabilità.

Per il resto, credo che dovremo darci un appuntamento politico ravvicinato, prima del Congresso, per giungere a delle decisioni e per mettere meglio a fuoco il rapporto tra il Regionale e la struttura metropolitana, un rapporto che è evidentemente essenziale e che in ogni caso richiede delle sinergie, delle integrazioni, per evitare momenti di duplicazione e di conflitto.

Non mi dilungo oltre sui problemi organizzativi, rinviando al documento del Direttivo Regionale, che sarà al termine di questa Conferenza messo in votazione, con le integrazioni e con le modifiche che si rendono necessarie, così da tener conto delle numerose indicazioni che sono venute dalle Conferenze territoriali. E mi pare vi possano essere le condizioni per un accordo largo, e comunque per una discussione di merito che non riproduca meccanicamente la divisione tra la maggioranza e la minoranza congressuali.

Abbiamo bisogno di scongelare questi schieramenti, non per proporre un regime di unanimità o di disciplina forzata, ma al contrario per avere un confronto davvero aperto, libero, nel quale si possa esprimere in tutta la sua ricchezza il pluralismo interno di opinioni, di culture, senza chiuderlo in schieramenti bloccati, perennemente contrapposti e incomunicanti.

E abbiamo la necessita di ricercare tutti, con più impegno, un nuovo livello di unità e di solidarietà nella CGIL, nella convinzione che il confronto non è tra verità ed errore, ma tra verità parziali che richiedono di volta in volta momenti di ricomposizione e di sintesi.

 

7. La CGIL della Lombardia giunge all’appuntamento di questa Conferenza di Organizzazione dopo una fase che ha visto impegnato il gruppo dirigente in una discussione difficile e complessa.

Abbiamo lavorato seriamente, non per ricomporre le divisioni con qualche compromesso posticcio, ma per ridefinire una base politica comune, sulla base di un’analisi più approfondita della nostra esperienza, dei suoi limiti, dei compiti futuri che dobbiamo affrontare.

Il documento del Direttivo regionale che ha concluso quella discussione, e la preparazione della stessa Conferenza Regionale, ci hanno consentito, a me pare, di porre su una base più avanzata il nostro confronto interno, e di superare unilateralità di approccio e contrapposizioni politiche, evitando così il rischio di una degenerazione della nostra vita interna con il prevalere di una logica di scontro di gruppi o di persone.

Restano differenze, come e naturale che sia in una grande organizzazione di massa, e resta necessario, anche per il futuro, un metodo di direzione che tenga sempre aperto il pluralismo, che lo valorizzi come risorsa, il che comporta, per tutti, un impegno costante di confronto, di elaborazione al livello più alto, di ricerca unitaria.

Io ho fatto il possibile per svolgere così la mia funzione di segretario generale, non con una posizione di parte, ma cercando di trovare un punto di equilibrio e di offrire un terreno fecondo di ricerca al quale ciascuno possa contribuire nell’autonomia delle proprie convinzioni e in un rapporto reciproco di attenzione e di rispetto.

Il gruppo dirigente giunge così alla verifica di oggi non in condizioni di delegittimazione, ma avendo dimostrato una propria capacità di far fronte a momenti di difficoltà, senza lacerazioni, e con uno sforzo serio e impegnato intorno ai problemi di linea e di elaborazione politica.

Per questo, se posso tirare personalmente un bilancio di questa esperienza, credo che ci siamo mossi in una giusta direzione di marcia, con una linea di ricerca aperta a cogliere gli elementi di novità e di cambiamento, anche se restano, come questa stessa relazione ha cercato di mettere in luce, con un’analisi critica, senza nessun autocompiacimento, ritardi gravi e inadeguatezze pesanti, che richiedono un’azione decisa di rinnovamento.

Per costruire questa nuova fase, per imprimere davvero una spinta nuova a tutto il nostro lavoro, credo sia utile un ricambio del gruppo dirigente, e questo non può non riguardare in primo luogo il segretario generale.

Con questa Conferenza di Organizzazione considero quindi concluso il mio mandato. Dopo dieci anni di lavoro nella segreteria regionale della CGIL, credo che sia utile fare nuove esperienze, perché ciascuno di noi, oltre un certo limite, rischia di divenire un elemento di freno, di conservazione, e rischia di cadere nella routine.

La mia decisione è comunque quella di restare nella CGIL, e con la segreteria confederale si dovrà perfezionare nei prossimi giorni una proposta di lavoro.

Il Direttivo Regionale, subito dopo questa Conferenza, dovrà quindi affrontare il problema del rinnovamento del gruppo dirigente e decidere le procedure democratiche per giungere alle necessarie deliberazioni. Dovrà esserci innanzitutto una discussione di merito nel Direttivo, per valutare tutti gli aspetti politici del problema, per motivare le ipotesi di candidatura, per definire meglio il ruolo e la struttura della nuova segreteria regionale.

Dobbiamo essere in grado di discutere di questi problemi alla luce del sole, in un confronto collettivo, non affidandoci solo alla pratica delle consultazioni individuali, come se si trattasse di problemi indicibili in un luogo pubblico.

Pensiamo ad un percorso aperto, trasparente, non ad una decisione presa dall’alto intorno alla quale chiedere un consenso solo formale. Abbiamo, credo, la maturità democratica necessaria per affrontare in modo nuovo, più aperto, il problema della selezione del gruppo dirigente, con il contributo attivo di ogni membro del Direttivo Regionale.

Io ringrazio tutti i compagni con i quali ho lavorato, in un’esperienza di lavoro che è stata per me molto importante e molto intensa. E vi assicuro che prendo oggi questa decisione con assoluta convinzione e serenità. Evitiamo quindi qualsiasi inutile cerimonia, e mettiamoci al lavoro per attrezzare meglio la CGIL di fronte alle sfide impegnative che ci attendono.



Numero progressivo: A3
Busta: 1
Estremi cronologici: 1994, 17-18 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Note”, n. 3, 1994, pp. I-XI