CONVEGNO IRES – OTTOBRE 1986

Intervento di Riccardo Terzi – Segretario CGIL Lombardia

La scelta della flessibilità come terreno strategico per l’iniziativa del movimento sindacale costituisce il filo conduttore del presente convegno.

La flessibilità, considerata normalmente come condizione di efficienza dell’impresa in una condizione di forte concorrenzialità e di incertezza degli andamenti del mercato, viene assunta in un’ottica più vasta e più complessa, in quanto non si tratta qui solo dell’efficienza e della competitività dell’impresa, ma della democratizzazione del suo regime interno, dell’esigenza per il sindacato di concorrere al governo dei processi, di entrare in gioco come un fattore dinamico, evitando di essere un elemento di rigidità da neutralizzare, ma ponendosi come una forza che agisce per accelerare l’innovazione dell’intero apparato produttivo.

Occorre però a questo punto andare oltre la dimensione dell’impresa, e inquadrare la stessa questione della flessibilità in un ambito più vasto. Va rifiutata con nettezza, io credo, la tesi confindustriale della “centralità” dell’impresa, la quale significa, se ha un senso, che il motore dello sviluppo è l’impresa e la sua capacità di produrre profitto, che pertanto l’unico obiettivo davvero fondamentale per la politica economica è quello di garantire al sistema delle imprese le condizioni istituzionali perché possano assolvere al loro ruolo, in un quadro di autonomia, senza altri vincoli oltre a quello della loro intrinseca efficienza. In sostanza, se l’impresa funziona, tutto funziona.

Questa tesi è oggi più che mai invecchiata, e lo è proprio alla luce dei processi di innovazione che si stanno producendo e che dovranno ulteriormente svilupparsi.

L’innovazione, infatti, procede se è un’innovazione di sistema, se l’insieme dell’organizzazione sociale fa da supporto ai processi innovativi. I ritardi dell’Italia rispetto ad altri paesi dipendono molto dall’arretratezza delle strutture civili e politiche, dalla mancanza cioè di una strategia complessiva proiettata verso l’innovazione.

Per questo, parlare oggi di centralità dell’impresa significa mettere in ombra quello che è il compito essenziale, e significa in ultima istanza non già dinamizzare l’impresa, ma soffocarla dentro un orizzonte angusto, ristretto, lasciando inalterate quelle condizioni generali di arretratezza del sistema che ci impediscono di realizzare traguardi di sviluppo che siano davvero significativi.

Basti ricordare i problemi del sistema educativo e quelli dell’efficienza della pubblica amministrazione: due nodi politici di primaria importanza, la cui risoluzione è una condizione indispensabile per riattivare una politica di sviluppo. Non funziona più, in sostanza, il vecchio compromesso di potere, di matrice democristiana, tra una borghesia imprenditoriale lasciata libera da troppo rigidi vincoli politici, e un ceto politico che ha costruito la sua fortuna e le sue basi di consenso su un assetto dello Stato di natura assistenziale e clientelare. Questo compromesso blocca le potenzialità di sviluppo, e per questo è necessaria oggi una rottura politica, per questo torna ad essere decisivo il ruolo della sinistra.

Per tutte queste ragioni, nel momento stesso in cui il movimento sindacale assume come tema proprio il tema della flessibilità, deve anche saper valutare con misura il suo ambito di efficacia, e non cadere in una logica tutta interna all’impresa e ai suoi parametri di efficienza.

Per questo, abbiamo voluto, nell’impostazione del convegno, aggiungere questa quarta sezione, che non tratta direttamente dei problemi della flessibilità, ma tratta della politica economica, ciò per sottolineare che l’intervento a livello micro-economico non può comunque essere sufficiente e che si deve inquadrare dentro una strategia più complessiva.

Qui occorre reintrodurre un’idea ormai quasi desueta, quella della programmazione. Il fatto curioso è che in Italia la reazione politico-culturale all’idea della programmazione si è sviluppata senza che mai si siano seriamente ed efficacemente tentate politiche di programmazione economica.

Abbiamo conosciuto il riflusso moderato, ma non l’ondata di una politica riformista dispiegata. Ma non per questo la reazione è meno forte. Dalla sua parte sta la convinzione diffusa, alimentata dalla nostra storia politica, che i propositi di programmazione siano del tutto velleitari, inefficaci. E sta, soprattutto, la profonda diffidenza verso ogni forma di intervento politico, date le prove di inefficienza e di inaffidabilità fornite in troppi campi dai poteri pubblici.

Per questo, la peculiarità del caso italiano sta nel fatto che le tendenze neo-liberistiche non hanno solo un marchio di destra ma sono presenti anche nella cultura democratica di sinistra proprio in quanto esse esprimono una critica delle forme fin qui conosciute di intervento politico. La lotta è su più fronti, e non la si vince senza una battaglia culturale e scientifica, che ridefinisca con chiarezza obiettivi e strumenti di una politica di programmazione.

Gli obiettivi sono quelli che il mercato spontaneamente non riesce a conseguire. In primo luogo, l’occupazione, essendo ormai chiaro come questo problema, di così rilevanti dimensioni sociali, sia del tutto irrisolvibile senza una politica economica chiaramente finalizzata.

Le politiche di flessibilità al livello dell’impresa possono contribuire ma non sono sufficienti. Né può funzionare, come l’esperienza ha ampiamente dimostrato, una logica di scambio per cui il movimento sindacale si rende disponibile ad ampie concessioni, in materia di politica salariale e di mercato del lavoro, per ottenere come contropartita impegni ed interventi a sostegno dell’occupazione. Il sindacato, indubbiamente, deve commisurare realisticamente le proprie rivendicazioni alle compatibilità economiche del sistema, e deve ricondurre coerentemente tutta la propria iniziativa all’obiettivo prioritario dell’occupazione, troppo spesso dichiarato solo verbalmente.

Ma chi tenta di scaricare il dramma della disoccupazione di massa sulle responsabilità del movimento sindacale, di individuarne le cause solo nelle rigidità delle politiche sindacali, compie un’operazione cosciente di disonestà politica, di mistificazione, di truffa. E sbaglieremmo noi se rispondessimo con una pura ritorsione polemica, denunciando le responsabilità delle imprese. Nessun adattamento spontaneo delle forze operanti sul mercato, e nessun modello di relazioni sindacali può di per sé risolvere il problema dell’occupazione, che richiede un intervento politico, una politica di programmazione.

Dovrebbe essere ormai chiaro che nessuno pensa a una pianificazione dirigistica e amministrativa, che soffoca il mercato.

Dato che siamo in tema di flessibilità, possiamo parlare di programmazione flessibile, che non si sostituisce al mercato ma cerca di indirizzare i comportamenti dei soggetti economici verso determinati obiettivi di interesse generale.

Non è sufficiente però un intervento dello Stato solo sussidiario, complementare; un intervento cioè che si limiti ad affrontare le conseguenze sociali che sono provocate dai processi di ristrutturazione delle imprese.

Non solo perché, in questo modo, ricadremmo in una concezione di tipo assistenziale, ma per una ragione più di fondo, perché la spontaneità del mercato non solo genera disoccupazione, non solo determina guasti sociali da affrontare con appositi interventi politici, ma non riesce ad imprimere allo sviluppo economico complessivo del paese un ritmo sufficiente, e non risponde con efficacia alla concorrenzialità di altri paesi, nei quali, in forme anche molto diverse, si attua un sostegno politico allo sviluppo.

Non si regge la sfida internazionale senza una strategia di sistema, senza una politica coordinata per l’innovazione tecnologica, per la ricerca, per concentrare gli investimenti nei settori strategici. E una strategia di sviluppo è, in ultima istanza, l’unica risposta strutturale allo stesso problema dell’occupazione.

La difficoltà politica del problema sta nell’assoluta carenza di strumenti, nella mancanza di una tecnostruttura di Stato che sia in grado di assolvere a questi compiti. In tutta la discussione sulla riforma dello Stato si è parlato d’altro: delle leggi elettorali, del bicameralismo e del monocameralismo, del voto segreto in Parlamento, del rapporto tra Parlamento e governo.

Ma la crisi di governabilità sta nel fatto che lo Stato non è in grado di governare i processi economici, e questo deficit di autorità si accentua con i processi di internazionalizzazione. Perché allora non cercare di ripensare a tutto il problema della riforma istituzionale in un’ottica diversa, mettendo in primo piano il problema degli strumenti della programmazione, a livello statale e a livello regionale?

In questo ritardo vi sono anche -è bene dirlo esplicitamente -responsabilità della cultura della sinistra. La sinistra si è trovata in seria difficoltà di fronte al problema dello Stato, oscillando tra posizioni di massimalismo anti-statale e posizioni culturalmente subalterne di accettazione dello Stato così come è stato forgiato dalla storia tutta particolare delle nostre classi dominanti. E tuttora è indicativo che si discuta sul terreno imposto da altri, che si discuta dello Stato solo nei suoi aspetti giuridico-formali, e non della sua costituzione materiale, del suo rapporto con la struttura economica della società.

Più in particolare, la sinistra è responsabile, a mio personale giudizio, di una tendenza democraticistico-demagogica, che ha determinato in molti campi, spesso in collusione con il popolarismo cattolico, forme spurie e impotenti di partecipazione popolare. Penso, ad esempio, alla scuola, agli effetti ritardanti che questo democraticismo ha avuto rispetto alle esigenze di modernità dell’istituzione scolastica. Non è un caso che si stia consolidando, in questo campo, un’egemonia cattolica integralista. La sinistra ha contribuito a dar vita ad un sistema in cui nessuno ha facoltà di decisione, ma si sovrappongono, in un intreccio confuso, diversi livelli istituzionali, che debbono essere tutti preventivamente consultati, e che finiscono per esercitare solo un diritto di veto. Più che di una democratizzazione del potere, si è trattato di una frammentazione del potere.

E, mentre ci si occupava dei comitati di quartiere o delle associazioni dei genitori, sfuggiva il fatto che la vera decisiva questione democratica in Italia sta nell’espropriazione dei poteri dello Stato, a vantaggio delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie, nazionali e multinazionali.

Il risultato è che la democrazia funziona solo nella dimensione micro. Una piccola licenza edilizia è sottoposta a mille controlli democratici, ma le grandi operazioni finanziarie nessuno è in grado di controllarle.

D’altra parte, non si è riconosciuto che una riforma della pubblica amministrazione, oggi inquinata da difetti vistosi di inefficienza e di servilismo politico, richiede la costituzione di uno strato dirigenziale professionalmente qualificato e autorevole, e politicamente autonomo da condizionamenti esterni.

Nella situazione politica italiana, che è diversa da quella di altri paesi e che è esposta a fattori molteplici di instabilità, il ruolo programmatorio dello Stato può esistere solo in quanto si costituisce una tecnostruttura non esposta ai giochi della lottizzazione, e dotata di alta professionalità. C’è bisogno di una forte burocrazia di Stato, e siamo purtroppo lontanissimi da questa condizione.

Nelle partecipazioni statali, vi sono tuttora risorse professionali rilevanti. Ma occorre chiarire quale sia il loro ruolo e il loro rapporto con l’autorità politica. Con la gestione Prodi, si è perseguita una linea di risanamento finanziario che ha dato alcuni frutti importanti. Ma si è anche accentuata l’autonomia delle imprese pubbliche rispetto agli obiettivi politici, affermando esplicitamente che ciò che è strategico per il paese non coincide con ciò che è strategico per l’Iri. L’Iri tende a configurarsi come un gruppo industriale che sta sul mercato, alla pari con i gruppi privati, privilegiando obiettivi di competitività e di efficienza.

Ciò può anche essere un fatto positivo, ma allora è evidente che la politica di programmazione non può passare solo dal sistema delle PP.SS. ma deve trovare altri strumenti.

Se l’Iri si ritira dal settore alimentare, o da quello dell’auto, ciò non significa che in questi settori lo stato debba essere passivo.

In sostanza, o le PP.SS. svolgono un ruolo essenziale di programmazione dell’intervento pubblico, oppure divengono un soggetto che agisce in una logica privatistica, e allora occorre che lo Stato sia dotato di un centro di programmazione che fissa per tutte le imprese, pubbliche o private, gli obiettivi, commisurando ad essi tutto il flusso dei finanziamenti pubblici.

Il rischio, oggi, è che si realizzi un processo per cui le PP.SS. agiscano sempre più in una logica privatistica, senza che si siano costruiti nuovi strumenti di programmazione.

Per questo la discussione sulle PP.SS. e sul loro futuro è un punto politico oggi decisivo. Per questo il sindacato, che ha conquistato un sistema nuovo di relazioni industriali con il protocollo Iri, deve farne uno strumento per aprire un confronto a vasto raggio sugli indirizzi di politica industriale e sulle scelte strategiche dell’Iri. In ogni caso, si pone un problema di programmazione, di definizione di una strategia, il che significa individuazione di obiettivi e di strumenti, ed è evidente che il settore pubblico è una delle leve fondamentali su cui agire.

Che cosa significa tutto questo per il sindacato?

Il sindacato è un soggetto parziale, che rappresenta e organizza interessi determinati. Occorre evitare una politicizzazione dei compiti del sindacato, uno slittamento nel politico che ci farebbe perdere il nostro ruolo, e ostacolerebbe quella necessaria rifondazione nel senso di un recupero di potere contrattuale e di forza rappresentativa, di cui abbiamo parlato al Congresso della Cgil.

Non pensiamo a politiche di concertazione centralizzata. Chiediamo al potere politico non di essere prigioniero dentro una logica di mediazioni e di scambio con le forze sociali, ma di affermare la sua autorità, di porsi cioè quegli obiettivi di programmazione economica che sono oggi indispensabili.

Se ciò avviene, ne terremo conto.

Ma ciò non potrà avvenire senza una spinta del movimento di massa, senza una pressione democratica.

Non ci può essere programmazione che non sia democratica, che non sia frutto di un movimento nella società, capace di smuovere le inerzie del ceto politico.

Vediamo qui un terreno di lotta, di iniziativa, anche – come ho cercato di dire – di correzione di errori e di ritardi nostri e della sinistra. Non c’è democrazia economica con un sindacato espropriato, sconfitto, pronto a qualsiasi mercanteggiamento. Le operazioni di “scambio” – su cui ci siamo impantanati negli ultimi anni – hanno il fiato corto, e non risolvono i problemi. C’è bisogno d’altro: di un sindacato che abbia tutta l’autorevolezza di una vasta rappresentanza sociale, e di un potere politico che non sia il luogo della mediazione corporativa, ma che affermi la propria capacità decisionale, ponendosi finalmente quei problemi di governo dell’economia che sono stati finora accantonati e rinviati.



Numero progressivo: A50
Busta: 1
Estremi cronologici: 1986, ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
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