LA CRISI DEL SISTEMA E I RAPPORTI EST-OVEST
Una critica radicale che superi l’antitesi tra riforma e rivoluzione
di Riccardo Terzi
Parlando della Polonia, ci possono essere due tendenze: analizzare il caso polacco nella sua specificità nazionale, oppure vedere in esso il punto di crisi di un’intera esperienza storica e del modello di socialismo che essa ha prodotto.
Le ragioni a sostegno del primo atteggiamento non sono irrilevanti. Sono del tutto evidenti, infatti, i tratti specifici, originali, nazionali, della crisi polacca, ed essi sembrano giustificare un’analisi circoscritta, e quindi una linea di prudenza nei giudizi conclusivi di ordine politico e teorico. La particolarità nazionale della situazione polacca sta anzitutto nel fatto che il partito di governo non organizza e non rappresenta le correnti fondamentali della nazione, non è il depositario dell’identità nazionale. Il ruolo di governo del Poup non trae la sua legittimità da un radicamento nella società, ma essenzialmente da ragioni di politica internazionale, in quanto garante di un determinato equilibrio. Vi è cosi, organicarmene, un dualismo, un conflitto, e in questo quadro la cultura cattolica ha funzionato largamente come tessuto connettivo della società. Può essere tentato un compromesso, e in effetti tutta la vita politica della Polonia si è retta in questi anni su difficili equilibri di compromesso. Ma la situazione non può che restare precaria fino a quando non è rimossa la contraddizione politica centrale, il che comporta cambiamenti strutturali nell’organizzazione del potere politico.
Il ricorso a una dittatura militare è la prova più evidente della profondità di questa contraddizione. Si determina così una situazione paradossale: un potere “socialista” che ha bisogno, per reggere, di esercitare una repressione di massa non già contro le sopravvivenze del capitalismo, ma contro la classe operaia e contro i suoi rappresentanti. La “dittatura del proletariato” si è rovesciata nel suo opposto. Per difendere il socialismo, lo si è completamente liquidato. Tutto questo può essere considerato come un’anomalia una situazione del tutto eccezionale, un esito disastroso che resta, tuttavia, nei confini della Polonia. E certamente è così per molti aspetti. Altri paesi socialisti si trovano in tutt’altra situazione; una crescita del livello economico e del tenore di vita, una reale base di consenso, l’effettiva capacità di direzione. Occorre dunque guardare ai fatti, alle situazioni concrete, non accettare liquidazioni sommarie, contrastare una campagna propagandistica che tende a rappresentare tutto l’insieme delle esperienze socialiste fin qui realizzate come un cumulo di errori, di violenze, di sopraffazioni. Credo però che l’atteggiamento politicamente più utile e produttivo sia quello di guardare alla Polonia come a un “caso” che non e chiuso in se stesso, ma è rivelatore di un limite organico che, in varie forme, è comune a quel determinato “modello” di socialismo che si è storicamente realizzato. La validità di un modello si misura anche dalla sua capacità di affrontare e risolvere le situazioni di crisi. Ora, abbiamo avuto nel corso storico ripetute dimostrazioni del fatto che questo modello non riesce a prevenire le crisi e ad affrontarle in termini politici. Esse si configurano come rotture, come esplosioni violente, e il sistema politico è incapace di quella flessibilità, che può consentire di trovare di volta in volta gli equilibri possibili, le mediazioni necessarie. Ciò che manca è l’articolazione di strumenti di democrazia politica, che funzionino come veicolo di organizzazione e di misurazione del consenso. Di conseguenza, non vi sono mezzi politici per vedere in tempo e per organizzare i cambiamenti necessari. Ogni cambiamento avviene in forme traumatiche, e avviene sull’orlo di una crisi di regime, quando le contraddizioni aperte nella Società non sono più contenibili. La scelta di soluzioni repressive non fa che preparare le condizioni per futuri sommovimenti e future crisi di dimensioni ancora più ampie.
Diviene urgente, quindi, avviare un processo di cambiamento. Le istituzioni politiche non si sono evolute, e sono rimaste, sostanzialmente, allo stadio della “fase rivoluzionaria”, quando il massimo di centralizzazione del potere è una leva necessaria per avviare e dirigere la trasformazione socialista della società. Il “modello staliniano”, sorto nelle condizioni determinate di un tumultuoso processo rivoluzionario, sopravvive quando quelle condizioni non esistono più, e appare ormai come un prolungamento arbitrario di metodi di direzione e di centralizzazione del potere che non hanno più alcuna motivazione, e si risolvono pertanto nella formazione di un’area di privilegio per una burocrazia politica chiusa in se stessa e separata dalla società civile.
Una tale questione va vista storicamente, nel vivo delle situazioni concrete. In molti paesi di nuova indipendenza, impegnati a costruire le condizioni del proprio sviluppo e a darsi una struttura statale unitaria, il modello centralizzato si presenta come una necessità storica, e sarebbe assurdo misurare le forme di organizzazione politica di questi paesi sul metro della democrazia occidentale. Ma è altrettanto chiaro che ai livelli alti dello sviluppo, in tutto il continente europeo, all’est non meno che in occidente, il socialismo non può svilupparsi e non può avere forza di mobilitazione delle masse se non assume, nel modo più conseguente possibile, una forma democratica. Nei paesi dell’est europeo questa contraddizione si fa sempre più profonda e assume ormai un carattere dirompente. Le esigenze di democrazia politica, di pluralismo ideale e culturale, di autonomia dei diversi soggetti sociali, costituiscono in questa fase il terreno fondamentale di una lotta politica che è aperta in quei paesi, e dal cui esito dipendono le prospettive del socialismo.
La nostra critica deve essere radicale, deve andare cioè alle radici del problema, per evitare che l’idea stessa del socialismo sia compromessa per un’intera epoca storica. Intorno a questo nodo di questioni, appare oggi possibile tra le forze della sinistra europea una convergenza sempre più ampia, un superamento dell’antica separazione “ideologica” tra via riformista e via rivoluzionaria. Una discussione aperta, sgombra da diffidenze e da settarismi, può consentire di raggiungere un livello nuovo e più alto di unità politica e teorica nella sinistra. Il nostro partito può avere, in tutto questo processo, un ruolo di punta: può gettare le basi di una ricerca nuova e coraggiosa sui problemi attuali del socialismo, può dare corpo ad una nuova pratica dell’internazionalismo, nella quale si inseriscano organicamente i problemi della democratizzazione e del rinnovamento delle società socialiste esistenti. E può, infine, portare avanti con sempre maggiore decisione al proprio interno quel necessario processo di sviluppo democratico e di aperto confronto delle idee che lo portino, definitivamente, fuori dalla logica e dai modelli del socialismo centralizzato e burocratico.
Busta: 7
Estremi cronologici: 1982, 8 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 1, 8 gennaio 1982, p. 15