LAVORO: RAPPRESENTANZA SOCIALE E RAPPRESENTANZA POLITICA

Seminario - Fondazione Sabattini, 10 dicembre 2013

Intervento di Riccardo Terzi – Segretario nazionale SPI CGIL

La registrazione di tutti gli interventi al seminario è disponibile nel canale della Fondazione Sabattini.

Innanzitutto volevo comunicarvi che su Claudio Sabattini stiamo preparando un volume di scritti e testimonianze, nel quale cercheremo di ricostruire anche il suo percorso politico.

Detto questo, vengo al tema della rappresentanza.

La rappresentanza, sia essa politica o sociale, si costituisce dentro una situazione di conflitto. Perché abbiamo bisogno di essere rappresentati da qualcuno?

Ne abbiamo bisogno quando dobbiamo reggere una situazione conflittuale. La crisi della rappresentanza diventa acuta e drammatica nel momento in cui viene meno il conflitto. Pensiamo intanto alla politica: se l’agenda politica è già scritta, se le cose da fare sono già definite in partenza e non ci sono alternative – come spesso si dice – se c’è il dominio della tecnica e tutti i governi sono tecnici, anche quelli apparentemente politici, si corre il rischio di sostituire al conflitto la rissa. Una rissa che avviene però dentro un quadro chiuso, che non genera un confronto e uno scontro tra alternative politiche visibili e chiare.

In questo quadro di dominio della tecnica, di accento esclusivo sulla governabilità, sulla stabilità, sulla manutenzione tecnica del sistema, le rappresentanze politiche si svuotano, evaporano e – com’è stato detto nell’ultimo intervento – siccome i vuoti vengono, prima o poi, coperti da qualcuno, intervengono allora forme di rifiuto della politica, forme spesso del tutto inaccettabili, antieuropee, populiste.

In Italia nel vuoto della politica si è affermato il Movimento 5 Stelle. Io comunque non abuserei delle categorie del populismo o dell’antipolitica, perché spesso vengono utilizzate per qualificare quello che non riusciamo a capire o quello che ci infastidisce, cioè quello su cui diamo un giudizio negativo. Non c’è un confine così chiaro tra ciò che è politico e ciò che è antipolitico: l’impolitico in fondo non è che una variante del politico. Siamo quindi di fronte a proposte politiche, a operazioni politiche, anche di successo, che coprono questo vuoto. Allora, non ci si difende da questa pericolosa ondata accentuando il tema della governabilità, ma riaprendo la dialettica dei progetti e delle proposte politiche, delle proposte di società.

Lo stesso avviene sul terreno sociale: la rappresentanza sociale è in funzione del conflitto. Qui si sono dette molte cose giuste su che cosa è oggi il lavoro, su che cosa è oggi la questione sociale ma noi abbiamo avuto e abbiamo tuttora una tendenza, in gran parte dell’opinione pubblica e anche della cultura, a rimuovere il dato del conflitto sociale. Assistiamo alla fine del sociale.

Anche uno studioso attento e serio come Alain Touraine, che si era formato studiando il conflitto sociale, è arrivato – con mia sorpresa – a tale conclusione, e adesso parla di fine del sociale.

La fine del sociale vuol dire che restano soltanto i conflitti di carattere individuale, resta soltanto il tema dei diritti civili; significa la fine del lavoro come luogo del conflitto, quindi la fine del sindacato o comunque il fatto che il sindacato si riduce ad essere poco più che una struttura di servizio.

La rappresentanza sociale deve riconquistare il campo del conflitto sociale, naturalmente non in astratto e non usando le vecchie categorie del passato, ma reinterpretando il cambiamento sociale con un lavoro di scavo per farne riemergere i dati di fondo, esercitando quell’autonomia della rappresentanza in un rapporto diretto con le persone, con le domande di libertà nel lavoro, di cui parlava Andrea Ranieri.

Seconda osservazione. Io credo che quello che è venuto meno è lo spirito di appartenenza.

La rappresentanza, in una certa stagione, era appartenenza: tutti appartenevamo a un campo – poi potevamo criticarlo o meno ma comunque eravamo in quel campo – e c’era quindi un vincolo ideologico forte. Può piacere o meno, ma quel vincolo di appartenenza oggi si è dissolto e la rappresentanza quindi non si può più reggere su un atteggiamento di fedeltà aprioristica.

La rappresentanza va riconquistata quotidianamente attraverso l’efficacia dell’azione sindacale e con un percorso di assoluta trasparenza democratica. Il tema della democrazia oggi diventa più forte, diventa la precondizione per un rilancio del sindacato, proprio perché non possiamo più contare su un bagaglio aprioristico di appartenenza e fedeltà all’organizzazione.

Il tema della democratizzazione quindi diventa un punto chiave. Vorrei che se ne discutesse.

I partiti, almeno alcuni di loro, hanno inventato le primarie, che sono comunque uno strumento efficace, perché si è vista – anche con una certa sorpresa – una partecipazione molto larga a questo meccanismo, che ha però, secondo me, il difetto fondamentale di chiamare le persone a rispondere alla domanda sul chi e non sul che cosa.

Le primarie stanno dentro una logica leaderistica, dentro il processo di personalizzazione della politica. Preferirei che ci fossero milioni di persone chiamate a esprimersi sul fare una certa politica o meno, su come affrontare un determinato tema piuttosto che un altro.

Io credo che la necessità di reinventare le forme della democrazia si ponga anche per il sindacato. Certo, le regole formali sono spesso rispettate ma non basta il rispetto formale delle regole se non troviamo delle forme nuove, che abbiano una capacità effettiva di mobilitazione. Il sindacato, altrimenti, rischia di essere appesantito dalla sua forza, dalla forza d’inerzia dell’organizzazione. Come tutte le grandi organizzazioni, anche il sindacato rischia di entrare in un percorso di burocratizzazione: questo avviene quando l’organizzazione finisce per agire per autoconservarsi, perdendo di vista le sue finalità.

Per superare la burocratizzazione occorre quindi rimettere a fuoco i processi reali di partecipazione democratica delle persone che vogliamo rappresentare. Su tale punto, secondo me, c’è da marcare con molta nettezza la totale distinzione tra la sfera politica e la sfera della rappresentanza sociale. Qui si è parlato di autonomia e indipendenza. Io, da qualche tempo, uso la parola alterità, per dire che appunto sono due percorsi che si muovono su binari totalmente distinti.

Anche su questo tema, condivido quello che diceva Andrea Ranieri: non tornerà una politica che ci risolve i problemi, non torneranno forme possibili di collateralismo, c’è una mutazione delle forme della politica di cui occorre prendere atto e questa mutazione chiama il sindacato a una visione nuova della propria funzione.

In merito a questa nuova funzione, credo che ci siano dei problemi evidenti, perché c’è stato e c’è tuttora uno slittamento nel politico, una vicinanza eccessiva tra la dimensione politica e quella sindacale. Basti pensare ai frequenti passaggi dall’uno all’altro campo, come se, in fondo, fosse lo stesso lavoro ma svolto in sedi diverse.

Questo aveva un senso nel passato, quando c’era un contenitore comune che era il movimento operaio, che dava al sindacato una funzione un po’ subalterna e al partito il primato della politica; tutti stavamo però dentro un unico contenitore e un unico orizzonte ideologico.

Questo schema è saltato e noi non possiamo correre il rischio di apparire, o anche di essere, un anello del sistema di potere. La rappresentanza sindacale e sociale è una rappresentanza che deve rispondere direttamente alle persone, in una vicinanza concreta con i processi sociali, per confrontarsi con i percorsi di vita, nel luogo di lavoro, nel territorio, nella società. Dobbiamo quindi ripensare al modello organizzativo: un sindacato centralizzato, verticale, gerarchico, riproduce solo le forme della politica.

Dobbiamo pensare a una diversa struttura organizzativa del sindacato, capace di mettere al centro la sperimentazione di nuove forme, spostando il baricentro dal vertice alla base e facendo in modo che vi sia una circolarità del processo, non soltanto la trasmissione dall’alto al basso ma un movimento nelle due direzioni, che tenga sempre aperto e sempre verificabile democraticamente il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.

Per chiudere, vengo al tema – accennato in precedenza – della burocratizzazione.

La burocratizzazione avviene quando il mezzo si mangia il fine e lo strumento finisce per essere fine a se stesso. La capacità di tenere insieme il mezzo e il fine è il punto chiave da cui dipende l’efficacia dell’azione politica, così come dell’azione sociale.

Noi siamo in una situazione in cui la tendenza è alla divaricazione di questi due elementi: là dove c’è la forza non ci sono le idee e là dove ci sono le idee non c’è la forza. Rimettere insieme il mezzo e il fine in un rapporto forte – in un rapporto che funzioni – e avere sia una chiarezza di prospettiva e di progettazione politica sia la forza necessaria per farla valere nella realtà dei rapporti sociali concreti, questo è il tema.

Credo che noi dovremmo ragionare – forse possiamo farlo con il Congresso della CGIL – su quello che a me pare il punto vero di difficoltà che abbiamo di fronte: il tema dell’efficacia, cioè lo scarto abbastanza drammatico tra gli obiettivi e i risultati. C’è una crisi di efficacia dell’azione sindacale e questo dipende da molti aspetti.

Ragionare di efficacia vuol dire interrogarsi sui rapporti di forza, vuol dire riflettere anche sulla nostra capacità di battaglia culturale per contrastare un’egemonia di pensiero, che è andata in tutt’altra direzione, vuol dire comunque stare dentro i processi. Se non vogliamo essere soltanto una forza di resistenza o di testimonianza, dobbiamo vedere come – dall’interno dei processi reali – riusciamo a trovare le energie e le risorse per imporre un’altra direzione.

Andrea Ranieri citava il tema delle tecnologie. Sì, le tecnologie potrebbero essere, possono essere, uno strumento di liberazione del lavoro, ma sono oggi usate in tutt’altra chiave, come un rafforzamento del potere autoritario del sistema delle imprese. Solo nella concretezza del lavoro, dei luoghi della produzione, possiamo trovare le risorse necessarie da mettere in campo per costruire una linea alternativa che non sia puramente teorica.

Detto così sembra un po’ banale ma questo mi pare sia il lavoro da fare: uno studio approfondito dei cambiamenti che avvengono nella società, nel mondo del lavoro, nel territorio, per vedere come, dall’interno, riusciamo a controllare e modificare il senso di tali processi e a riconquistare quell’efficacia dell’azione sindacale, che in gran parte abbiamo perduto.



Numero progressivo: L46
Busta: 9
Estremi cronologici: 2013, 10 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -