DI ALDO TORTORELLA
Presidente Associazione per il Rinnovamento della Sinistra.
Intervento in occasione del convegno “Riccardo Terzi. Sindacalista e politico tra teoria e prassi” svoltosi nella Camera del Lavoro di Milano il 15 ottobre 2019, promossa dalla C.d.L.M., dalla Fondazione Di Vittorio e dal Gruppo di Lavoro Riccardo Terzi.
Pubblicato su Inchiesta.
Gli acciacchi di un’età oltremodo avanzata mi impediscono di essere con voi, come avrei voluto, per ricordare Terzi, che non ho mai chiamato col suo nome di battesimo anche se l’ho conosciuto che era ancora un adolescente, alle sue prime armi nella FGCI, la Federazione giovanile comunista italiana. Allora, nel partito qui nel nord in cui insieme militammo si usava abitualmente solo il cognome, perché si temeva tra dirigenti il familismo, e cioè il rapporto di complicità amicale, il che, si pensava, avrebbe offuscato il giudizio sulle capacità o sui demeriti di ciascuno. Cose d’altri tempi, d’un partito in cui i più anziani venivano dalle esperienze dure ma anche dalle aspre lotte intestine della emigrazione, della clandestinità, del carcere, e, i più giovani, della guerra partigiana. Nessuna delle convenzioni formali non scritte, come quella dell’uso del cognome, o scritte nello statuto che severamente proibiva la costituzione delle frazioni poteva impedire, però, che ogni dirigente di partito avesse le proprie inclinazioni e le proprie simpatie.
Posso dunque confessare che da quando lo conobbi ragazzo Terzi mi ispirò un particolare e quasi paterno sentimento di affetto. Negli anni della sua formazione giovanile ero dapprima direttore dell’Unità di Milano, poi segretario della federazione milanese e poi del regionale lombardo. E in queste funzioni, non solo per adempiere il mio dovere, pensavo necessario un particolare legame con l’organizzazione giovanile allora ancora assai forte. Tra quelle riunioni interminabili e continue in cui, bisogna dirlo, non tutti gli interventi erano particolarmente interessanti, spiccavano gli incontri con la FGCI i cui giovani erano portatori di mentalità nuove e di posizioni originali, quale che sarà poi il loro destino. Segretario a Milano era Occhetto, la cui carriera è nota, e poi Lia Cigarini, che sarà protagonista del nuovo femminismo della differenza, e dopo ancora Michelangelo Notarianni, di raro acume e intelligenza, e c’erano altri molti che saranno quadri importanti, quando da Bergamo spuntò Terzi.
Qualcuno mi disse che i suoi compagni della direzione nazionale della FGCI, cui rapidamente era arrivato, lo chiamavano scherzosamente Pisolo, perché nelle riunioni pareva, appunto, appisolato, ma si stupivano poi che i suoi interventi fossero, oltre che sempre intelligenti anche perfettamente al corrente della discussione. Anch’io fui colpito la prima volta che lo ascoltai, in una riunione regionale, per una maturità e una saggezza assai superiore all’età, oltre che per la pacatezza del tono e la implicita e non esibita cultura. Terzi veniva dalla stessa facoltà di filosofia dove mi ero laureato con Banfi, una facoltà forte allora, e spero ancor oggi, di illustri docenti. Ma oltre a tutto questo, Terzi mi fu subito caro perché appariva come indifeso e vulnerabile tra quei giovani dalle forti e un po’ aggressive personalità.
Nella sostanza, non era affatto indifeso e vulnerabile, come egli dimostrerà in una vita politica e sindacale in cui dovrà affrontare prove difficili e rilevanti contrasti. Ma è vero che la sua concezione della lotta politica era scevra di quel linguaggio e di quella mentalità militare che derivava e deriva da una civiltà fondata sulla competizione e sulla guerra reciproca. Io stesso all’inizio ho detto che l’ho conosciuto quando era alle “prime armi”. Ma, dicendolo, ho contravvenuto al suo modo di essere per cui aveva scherzosamente creato per se stesso l’acronimo RAM, che voleva dire Ridotte Attitudini Militari. «Che non vuol dire – cito da un suo testo – tenere basso il livello del confronto o incoraggiare atteggiamenti di conformismo, ma significa portare il nostro dibattito sul terreno delle idee nella consapevolezza del carattere sempre aperto, mai conclusivo, delle nostre elaborazioni». E continua: «La direzione politica non è il comando, la trasmissione gerarchica dall’alto verso il basso, ma è la costruzione di un processo collettivo e democratico, di una sintesi che tenga conto della complessità della situazione e della pluralità dei punti di vista.» Ho citato da un testo del 2003, pubblicato nel bel volume sul suo “pensiero innovatore”, ma questo era la sua opinione sin da giovane. Una opinione che mise in atto negli incarichi politici e sindacali di grande rilievo poi ricoperti. Sarebbe stato molto meglio se qualcuno dei suoi coetanei della FGCI avesse seguito un tale insegnamento prima di precipitare il proprio partito, anche contro il parere espressogli riservatamente da Terzi, in una avventura finita male come era prevedibile e previsto.
Spesso Terzi viene ricordato per la sua polemica contro il compromesso storico come se egli fosse stato un avversario di Berlinguer e un sostenitore delle posizioni di quella parte del PCI che la stampa definiva, con fondati motivi, la destra del Partito, una tendenza che alla fine, come si sa, ha prevalso con la metamorfosi del PCI e con il suo scioglimento arrivando ai risultati che si conoscono. Ma si ignora che la polemica di Terzi era nel solco di una tradizione di sinistra come quella di Luigi Longo, già segretario e poi presidente del Partito, mai favorevole al compromesso con la DC. E si dimentica che Berlinguer riconobbe le ragioni di Terzi quando vide quel compromesso – che avrebbe voluto essere “storico” e destinato a cambiare l’Italia – trasformarsi, pur con i comunisti in maggioranza, in un governo che replicava le politiche moderate e conservatrici di sempre e, come si sa, interruppe lui stesso quella esperienza. Si dimostrava esatta la previsione della impossibilità di cambiare la DC e anche di superare la convenzione internazionale per escludere i comunisti dal governo come aveva dimostrato tragicamente l’assassinio di Aldo Moro, che aveva voluto quella esperienza contro il parere americano. Un assassinio che fu un capolavoro di destra eseguito da persone che si credevano rivoluzionarie.
Terzi non ha mai accettato la dottrina della “governabilità” in contrapposto alla rappresentanza, dottrina che si è fatta strada in tutto l’occidente con la conseguenza di tendere ad annullare la funzione dei parlamenti. Al contrario, come disse: «Si teorizza la crisi della rappresentanza. A me sembra più corretto parlare di una trasformazione, di un rapporto che si fa più esigente. Ciò che non funziona più è l’automatismo della delega fiduciaria, l’automatismo dell’appartenenza». E ancora: «il vero tessuto connettivo di una grande organizzazione è la soggettività delle persone, il loro modo di intendere se stessi e la loro vita, e quindi le motivazioni per stare in una struttura organizzata». Parlava del sindacato, ma è ovvio il riferimento anche ai partiti, compreso il suo ch’egli vedeva deperire lontano dalle persone del suo stesso popolo. Come dirà distaccandosi dal PD nel 2013, vedeva il suo partito privo «di progetto in nome della governabilità». Il progetto significava per lui l’incontro tra i bisogni e le aspettative della società e delle persone e la capacità di corrispondervi.
Ad un certo punto della sua storia politica tra partito e sindacato, la sua scelta per l’esperienza nel Centro per la riforma dello stato diretto da Pietro Ingrao e la sua vicinanza a Bruno Trentin spiegano bene la sua vicinanza a quella parte del PCI che era la più impegnata in una ricerca innovatrice e nello studio delle nuove realtà produttive, economiche e sociali. Ed era anche la parte più inquieta e polemica per forme della politica utili e avanzate nel tempo loro, ma ormai divenute logore e talora dannose.
Tuttavia, se è fuori discussione la tendenza di Terzi contraria ad ogni conformismo destrorso e ad ogni pigrizia mentale e allo stesso tempo munita di un vivo senso della realtà, il suo pensiero e il suo modo di essere non vanno ingabbiati in una appartenenza correntizia di questa o quella natura. È vero che c’era in lui il segno di una originalità di riflessione che emergeva anche dalla sua affezione per le dottrine del lontano oriente, donde il suo convegno su filosofia occidentale e pensiero orientale e le sue frequenti citazioni di pensatori cinesi. La sua origine culturale nella tradizione dell’illuminismo lombardo tradotta in razionalismo critico da Antonio Banfi, si era venuta unendo con la saggezza morale della antica civiltà confuciana. E così egli era, forse senza ancora averlo teorizzato, fin da quando era ragazzo, acuto e saggio come lo ricordo da quel tempo lontano.