COME RICOSTRUIRE L’UNITÀ DEI LAVORATORI

Convegno dello SPI CGIL, Bologna 4 settembre 2008

Intervento di Riccardo Terzi, segretario nazionale SPI, responsabile dipartimento ricerca.

Il lavoro di ricerca, in una situazione segnata da rapidissime e intense trasformazioni, è divenuto, in tutti i campi, un momento necessario, per qualsiasi tipo di azione. Anche il sindacato, se non vuole restare attardato, deve sempre più praticare la fatica della conoscenza, che non è un modo per eludere i dilemmi dell’agire quotidiano, ma al contrario è la condizione per una pratica consapevole ed efficace.

Nella tradizione culturale del movimento operaio e socialista, molti hanno dato una lettura troppo sommaria e disinvolta della famosa undicesima tesi su Feuerbach, la quale dichiara che non basta interpretare il mondo, ma occorre cambiarlo, una lettura proiettata a privilegiare esclusivamente il momento dell’azione. Da questa lettura è venuta tutta una tendenza anti-intellettualistica e pragmatica, come se fosse sufficiente l’attivismo della volontà per venire a capo dei nodi teorici che la storia ci pone di fronte. Oggi, questo tipo di pragmatismo si rivela particolarmente rischioso, proprio perché, in una situazione di cambiamento, esso finisce per agire alla cieca, senza conoscere il contesto nel quale si trova a operare. Occorre dunque avere molto chiaro il rapporto che lega azione e conoscenza, pratica e teoria. Non c’è l’una senza l’altra.

Prenderò in esame solo alcuni temi, oggetto di ricerche recenti, che mi sembrano essere particolarmente significativi nella situazione attuale. Il primo tema è l’identità. Una ricerca promossa dallo SPI dell’Emilia Romagna, Identità in transito, si riferisce al transito dal lavoro alla pensione. Ma questa rappresentazione del «transito» può essere estesa a tutta la nostra condizione contemporanea, nel senso che tutti ci troviamo in una situazione di indeterminatezza, in cammino non si sa verso dove, con le antiche certezze che non funzionano più, e con la difficoltà a individuare nuovi criteri di interpretazione della realtà. Ecco che allora l’identità viene resa incerta, problematica, e in questa ricerca di una identità perduta prendono forza anche le spinte irrazionali, i miti, l’illusione di un ‘ritorno’ alle antiche radici. Vediamo in tutto l’Occidente questo riemergere del fondamentalismo religioso o etnico, questa idea di risalire alle radici e di ripristinare così i legami della comunità tradizionale. L’errore, in tutti questi casi, è di non capire che la nostra identità è in movimento, è il ponte che viene gettato tra il passato e il futuro, è il progetto che noi facciamo della nostra vita. Dovremmo perciò rovesciare l’impostazione: l’identità non è il deposito del passato, ma è ciò che si apre verso il futuro.

Questa tematica si presenta in forme particolarmente sensibili nei processi di invecchiamento, perché questa è in ogni caso una fase critica della vita, nella quale si pone con forza una domanda di senso, una interrogazione radicale sul significato della propria vita. Nell’invecchiamento ci troviamo di fronte al bivio: se ripiegarci in noi stessi, con uno sguardo ormai rivolto solo al passato, essendo solo i testimoni di una storia tramontata, o se aprire un nuovo cammino e rimettersi in discussione con un nuovo progetto di vita. È in questo passaggio critico che molti soccombono, lasciando prevalere le forze di inerzia della passività, del rimpianto e del rancore. È per questa ragione che un sindacato che vuole rappresentare le persone anziane deve necessariamente occuparsi non solo degli aspetti economici, ma della più complessiva condizione esistenziale, proprio perché ciò che si chiede al sindacato non è solo la tutela, ma è la risposta a una domanda di senso. Per uscire dalla passività e dalla solitudine è necessario potersi riconoscere in un universo comune di significati, in un progetto collettivo, in una rete di relazioni sociali. Il sindacato può essere, quindi, il luogo e lo strumento per una socializzazione attiva, che aiuta le persone a rimettersi in cammino. Lo SPI ha questa grande potenzialità, ma può coglierla solo se alza il livello dei suoi obiettivi e delle sue ambizioni, non adattandosi a essere solo una struttura di servizio. Nel nostro lavoro entra la persona nella sua totalità, con i suoi risvolti psicologici, antropologici, esistenziali. In un certo senso, noi siamo un sindacato “filosofico”, in quanto ci occupiamo di ciò che è essenziale nella vita e nel destino delle persone. Lo SPI si trova perciò a esplorare una nuova dimensione dell’agire sindacale, e assume una funzione di apripista e di avanguardia, in quanto lavora su tutto l’intreccio tra dati economici e dati sociali, vedendo la persona nell’insieme delle sue relazioni. Credo che anche per i lavoratori attivi ci sia bisogno di uno sguardo allargato, vedendo non solo la loro condizione di lavoro, ma la loro dimensione sociale, come persone e come cittadini.

 

Il secondo tema è il territorio. Tutti ormai parlano della centralità del territorio, e rischiamo perciò, per questa apparente univocità di vedute, di scivolare in un uso solo retorico di questo tema, con il territorio che diviene una sorta di parola magica, risolutrice di tutti i conflitti. Il territorio va analizzato, declinato nelle sue contraddizioni, nelle sue interne dinamiche. Non è la soluzione, ma è il campo di nuovi conflitti che attendono una risposta. Qui deve essere chiara una netta linea di demarcazione rispetto alla posizione della Lega. Prendiamo ad esempio l’intervista al ministro Maroni all’interno della ricerca sugli anziani e la politica: l’identità territoriale, per Maroni, è la risposta al problema, è il luogo in cui l’anziano si riconosce come membro di una comunità. Qui il territorio viene ideologizzato, come il depositario di una primordiale identità etnica, e si tratta allora solo di tenerlo al riparo dai fattori esterni che ne minano l’equilibrio, a partire, ovviamente, dall’immigrazione. Territorio e identità qui si ricongiungono, e la persona è pensata non nella sua autonomia, ma solo come parte di una comunità, e la sua identità è tutta consegnata alla sua appartenenza a questa comunità. Ma quando la comunità è la dimensione esclusiva, che non lascia spazio alla pluralità dei progetti individuali, si determina allora una condizione di oppressione. È questa la tendenza storica di tutte le forme di comunitarismo.

Il territorio, per noi, è importante non perché rappresenta il mito della comunità, ma perché è il luogo concreto dei conflitti che attraversano il nostro mondo globalizzato. Aldo Bonomi interpreta la nostra situazione attuale come un conflitto tra i flussi e i luoghi, tra la forza dirompente dei processi globali e i movimenti di resistenza e di tutela della comunità attraversata da questi processi. L’immigrazione è un caso esemplare di questo conflitto, come lo sono i tanti episodi di contrasto tra locale e globale, dalla Val di Susa alla base militare di Vicenza, dal problema dei rifiuti a quello della produzione di energia. In questi conflitti non si può stare acriticamente né da una parte né dall’altra, ma occorre trovare le vie praticabili di una mediazione. Non si può essere localisti per principio, sponsorizzando ogni sorta di protesta, e non si può neppure sposare una visione tutta positiva e progressiva dei processi di globalizzazione. Il territorio, quindi, diviene il campo in cui si deve esercitare una difficile azione di governo, di mediazione, mettendo tra loro in comunicazione i diversi interessi e cercando delle soluzioni equilibrate e condivise. È il compito della politica, e anche del sindacato come soggetto politico. Stare nel territorio vuol dire quindi stare nel mezzo della realtà e delle sue contraddizioni, e prendere posizione nei conflitti, e costruire soluzioni e proposte. E vuol dire capire che non ci sono ricette valide per tutte le situazioni, che ogni territorio ha la sua dinamica, la sua storia, con una diversa configurazione delle forze in campo. Per questo falliscono tutti i progetti di centralizzazione. Ma qui c’è un antico nodo non ancora pienamente risolto, perché tutta la storia politica italiana è stata una storia di centralizzazione, e anche il sindacato è cresciuto dentro questa storia. La centralità del territorio può acquistare un senso concreto solo se c’è, con chiarezza, un rovesciamento di prospettiva, pensando l’unità nazionale non a partire dall’alto, ma dal movimento plurale delle diverse realtà territoriali.

 

Il terzo tema è la partecipazione. Ha ancora senso questo tema in una società individualizzata, nella quale le grandi identità collettive sembrano essersi dissolte? Io credo che dobbiamo vedere come la domanda di socialità si presenta, in forme nuove, non come un possibile ritorno al passato, ma come il sentimento di un vuoto che deve essere colmato, perché infine l’individuo si realizza solo nella relazione con l’altro, e se c’è spazio solo per la competizione è la qualità della nostra vita che ne viene sacrificata. Per questo vediamo all’opera diversi tentativi di fare socialità, come dimostra tutta la vasta rete dell’associazionismo. Ma spesso tutti questi tentativi restano confinati in una dimensione limitata, ristretta, e non incidono nella vita politica del Paese. Il fatto è che la partecipazione richiede non solo una iniziativa dal basso, ma anche dall’alto, richiede cioè una iniziativa politica che affronti di petto tutto il tema della partecipazione democratica, della sua costruzione, dentro un chiaro progetto di riforma del nostro ordinamento politico. Finora questo tema nessuno l’ha seriamente affrontato, e la politica, per questo, perde colpi nel suo rapporto con i cittadini e appare sempre più come l’affare di una ristretta oligarchia. Non è solo il fenomeno dall’antipolitica, è la condizione di frustrazione di chi non trova gli strumenti e le sedi per realizzare una partecipazione efficace. Dalla nostra indagine sugli anziani e la politica, è questo il dato che emerge: il risentimento per una politica che si è andata svuotando e che si gioca ormai solo come intrattenimento televisivo. Ci dobbiamo quindi misurare con un problema estremamente impegnativo, perché si tratta di ripensare alle forme della democrazia, oggi evidentemente in crisi. E anche l’azione del sindacato va vista in questa prospettiva, come un modo per riorganizzare le risorse democratiche del Paese.

 

Tutto questo discorso ci rinvia a un quarto tema, che è quello del progetto politico. O forse è meglio parlare non del progetto, come se ci potesse essere una formula unificante, ma dei progetti, delle diverse possibili traiettorie di un’azione riformatrice, nei diversi settori e nelle diverse realtà territoriali. Dobbiamo abituarci, credo, a un’idea plurale della società, e dobbiamo saper convivere con le differenze, senza pretendere di ricondurre tutto a un unico schema, a un unico modello. La differenza non si oppone all’eguaglianza, ma alla uniformità, e l’eguaglianza va intesa come il fondo comune sul quale si innestano le diverse esperienze, come l’uguale diritto a essere diversi.

L’unità può essere solo il risultato di approssimazioni successive, lasciando largo spazio alla sperimentazione, ai tentativi, all’invenzione progettuale. Tutta la storia del movimento operaio è stata una storia tutt’altro che rettilinea, che si è articolata in una pluralità di ipotesi, di teorie, di comportamenti pratici, di forme organizzative, dando luogo a un continuo movimento di incontri e di scontri, di risultati e di sconfitte. L’unità di classe non è mai stata il punto di partenza, ma solo, in determinate fasi, il punto di arrivo di un lungo faticoso percorso. Oggi, in qualche modo, torniamo alle origini, perché occorre un lavoro lento e capillare di ricostruzione, lavorando sulla nuova composizione sociale, sul lavoro che cambia, sui nuovi soggetti, e ricominciando a organizzare ciò che non è organizzato, a dare voce a chi è messo fuori gioco, a declinare, per i diversi soggetti, le rivendicazioni possibili, gli obiettivi di breve e medio periodo, con la pazienza di un lavoro che non si può esaurire in una fiammata, in una manifestazione, in uno slogan, ma deve mettere gradualmente radici nella realtà.

Ora, la realtà presenta alcune nuove emergenze sociali, che sono il terreno su cui si gioca tutto il conflitto politico per il prossimo futuro. Sono tre i grandi fattori di cambiamento della struttura sociale: l’invecchiamento della società, l’ondata migratoria, il passaggio dal lavoro garantito al lavoro flessibile. Sono tre grandi temi a cui la politica deve rispondere con un nuovo progetto di welfare, e sono temi non contingenti, ma strutturali, destinati cioè a produrre nel tempo effetti duraturi di lungo periodo. E tutti questi processi rischiano di mettere in crisi l’idea di cittadinanza, l’universalismo dei diritti, perché danno luogo a una spinta verso una società diseguale, divisa tra garantiti e non, tra competitivi e marginali, tra figure di successo e figure affidate, quando va bene, alla pubblica assistenza. La società sta tornando a essere una società di caste, di corporazioni, dove il diritto esiste solo là dove c’è la forza di farlo valere. E, in questa situazione, tutti i discorsi ricorrenti sulla meritocrazia, in apparenza ineccepibili, servono solo a sancire la rottura tra chi ha e chi non ha la forza di far valere il proprio merito. Il tema dell’eguaglianza, che è la ragion d’essere della sinistra, torna a essere di una attualità estrema, anche se la sinistra, quel tanto di sinistra che c’è, non sembra averlo colto in tutta la sua portata, e non riesce perciò a segnare in modo chiaro e comprensibile la linea divisoria, programmatica e progettuale, con le politiche oggi dominanti.

Della crisi della politica ci dobbiamo necessariamente occupare, perché il sindacato agisce nella dimensione politica e ha bisogno di interlocutori, ha bisogno di confrontarsi sui progetti, sui modelli sociali, esercitando in modo dialettico la sua autonomia nei confronti delle diverse forze politiche. Ma se lo spazio della politica, ovvero lo spazio del dibattito pubblico, viene a mancare, allora diviene inevitabile una spinta verso la corporativizzazione di tutto il corpo sociale. Per questo, nonostante tutte le difficoltà del momento, dobbiamo insistere in una forte iniziativa di pressione verso le forze politiche, perché assumano la loro funzione e tornino a essere i soggetti fondamentali della vita democratica del Paese.

 

L’ultimo tema è l’organizzazione. Qualunque ipotesi di lavoro, qualunque intuizione strategica, deve poi tradursi in una pratica organizzativa coerente. L’organizzazione non sta a sé, ma sta in rapporto agli obiettivi che vengono perseguiti, e deve quindi essere sempre adattata ogni volta che c’è un cambiamento di scenario. Ma la tendenza intrinseca di tutte le grandi organizzazioni è la tendenza a perpetuare le proprie forme, a stabilizzare le proprie procedure, e per questo, in tutti i passaggi critici, si apre un conflitto tra la dimensione politica e la dimensione organizzativa. Da questo punto di vista, credo che dobbiamo compiere una attenta verifica critica sulle nostre modalità e pratiche organizzative, che sono ancora troppo improntate a una logica verticale, gerarchica, burocratica, dove il processo è solo dall’alto verso il basso, senza riuscire a organizzare nuovi spazi di sperimentazione, senza dare responsabilità decisionali ai diversi livelli dell’organizzazione, con una tendenza, quindi, solo a riprodurre ciò che c’è e non a esplorare i nuovi possibili campi di iniziativa. Anche l’organizzazione ha bisogno di un rovesciamento, di una diversa logica, che metta in primo piano il lavoro sul campo, il contatto diretto con i bisogni sociali, il lavoro di accompagnamento e di accoglienza (l’ospitalità di cui ci ha parlato Marchisio), il che richiede una struttura di tipo orizzontale, con meno gerarchie, con meno vincoli. Insomma, meno generali e più esercito, meno capi e più operatori sociali, meno centralismo e più democrazia, più autonomia, più sperimentazione. Se non è così, tutta l’enfasi sul territorio finisce per essere priva di senso e priva di efficacia. Dopo la conferenza d’organizzazione, che alcune scelte di fondo le ha individuate, si tratta di portare tutto il discorso organizzativo alle sue coerenti conclusioni, in modo che ci sia davvero uno spostamento di poteri e di risorse dal centro alla periferia, rimodulando in questo quadro anche le politiche contrattuali e rivendicative. È un lavoro ancora tutto da fare, e forse lo SPI, per il suo già esteso radicamento territoriale, è nelle condizioni migliori per imboccare la strada del rinnovamento e per stimolare in questa direzione l’intero corpo della CGIL.



Numero progressivo: E24
Busta: 5
Estremi cronologici: 2008, 4 settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, novembre 2008, pp. 87-95. Pubblicato in “Conoscenza e territorio. Scoprire insieme”, dicembre 2008, pp. 77-87.