COMITATO DIRETTIVO CGIL LOMBARDIA 19 MAGGIO E 1 GIUGNO 1993

Relazione di Riccardo Terzi

1. La Segreteria regionale ha deciso di aprire, con questa riunione del Direttivo, una discussione politica a vasto raggio, che affronti in modo impegnato e trasparente i nodi di carattere strategico che stanno davanti a noi. Chiediamo per questo a tutto il gruppo dirigente il massimo di impegno è responsabilità.

Nei mesi passati, segnati da una vicenda politica e sociale straordinariamente ricca di novità, di accelerazioni, di cambiamenti profondi, e caratterizzati da un’inedita esperienza di lotta, con una mobilitazione di massa di eccezionale ampiezza e con le difficoltà che il movimento sindacale ha incontrato, anche in ragione delle sue divisioni, ad offrire uno sbocco adeguato a questo movimento, non siamo riusciti ad impostare una discussione sufficientemente approfondita. Abbiamo di volta in volta discusso e deciso i singoli passaggi, ma senza chiarire a sufficienza il quadro d’insieme e le sue implicazioni strategiche. È un limite che dobbiamo correggere, e che indica un funzionamento non del tutto adeguato dei nostri organismi dirigenti. Sono così rimasti sullo sfondo, non chiariti, problemi politici che, in assenza di un lavoro collettivo di approfondimento e di sintesi, rischiano oggi di essere affrontati in modo unilaterale con scelte individuali o di gruppo che scavalcano la responsabilità collettiva dell’organismo dirigente.

Non pongo un problema di legittimità, che e fuori discussione, ma un problema politico sostanziale che riguarda la capacità di questo gruppo dirigente di realizzare un confronto aperto e schietto e di trarre da questo confronto conclusioni politiche vincolanti e impegnative per tutti.

La presentazione di un documento, sottoscritto da 20 dirigenti della CGIL Lombarda, vale come un richiamo così io lo intendo a superare, con l’impegno di tutti, un clima di insufficiente chiarezza e trasparenza e a riportare nell’organismo dirigente tutto l’insieme dei problemi, delle difficoltà, delle valutazioni diverse o contrastanti, ripristinando così, nella chiarezza, la nostra responsabilità politica.

Essendoci tra i firmatari due membri della segreteria, avrei trovato più naturale che la segreteria fosse per tempo investita di questi problemi, sollecitando i chiarimenti necessari, anziché essere posta di fronte alla formalizzazione di una presa di posizione collettiva.

Tuttavia, hanno scarsa rilevanza questioni di metodo, che pure potrebbero essere sollevate, perché per questa via non approderemmo a nessun risultato, e soprattutto dobbiamo evitare di impostare la nostra discussione sulla base di posizioni pregiudiziali, di schieramento, che hanno sempre l’effetto di inceppare la ricerca e di immiserire la discussione politica in una contrapposizione aprioristica, dove nessuno più ascolta le ragioni dell’altro e nessuno fa uno sforzo autentico di pensiero, perché ormai si tratta solo di misurare i rapporti di forza.

Io non mi colloco in questa discussione con uno spirito di parte, e sento che la mia responsabilità, come segretario generale, è quella di offrire il terreno per una discussione costruttiva e per una possibile ricomposizione unitaria, che valorizzi e porti a sintesi tutto il ricco e complesso pluralismo presente nella nostra organizzazione.

È questo l’intento che guida questa relazione, la quale non può che essere una relazione personale, che non impegna la segreteria, proprio per consentire una discussione libera e aperta.

Così abbiamo convenuto nella segreteria regionale, non per sancire una divisione, ma per affidare la conclusione politica di un dibattito difficile e impegnativo alla responsabilità dell’intero organismo dirigente regionale, senza mediazioni preventive che potrebbero apparire burocratiche o precarie.

Per questa ragione, la segreteria ritiene che il dibattito, per essere proficuo, non debba immediatamente precipitare con il voto su un documento, o su documenti contrapposti. Valuteremo alla fine di questo direttivo i possibili sviluppi, e se è necessario ci riconvochiamo a breve per tirare le somme del dibattito e per assumere decisioni e orientamenti impegnativi, tenendo anche conto delle prossime scadenze della Conferenza nazionale di organizzazione e di quella regionale, che dovranno sicuramente sciogliere alcuni nodi politici rilevanti.

 

2. Penso che dobbiamo concentrare la discussione più sulle prospettive, sulle scelte da fare, sulle opzioni strategiche, che non sulla valutazione retrospettiva di quanto e accaduto nei mesi passati, tuttavia, questa valutazione è una premessa indispensabile, proprio perché abbiamo alle spalle una fase quanto mai ricca di avvenimenti e di mutamenti, che ha posto il movimento sindacale di fronte a scelte estremamente difficili.

Dopo l’accordo del 31 luglio, ci siamo trovati di fronte al rischio una rottura drammatica del rapporto di fiducia tra la CGIL e la sua base sociale.

Questo rischio assumeva in Lombardia uno spessore molto corposo, proprio per l’esistenza di un tessuto di rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro ancora vitale e per la ricchezza delle esperienze di contrattazione. Nei punti alti dell’esperienza sindacale, quell’accordo è stato vissuto come un cedimento, come un disarmo unilaterale, e particolarmente inaccettabile è apparso il blocco salariale della contrattazione articolata. Senza la possibilità di controllare anche le dinamiche retributive, diveniva infatti assai arduo intervenire, con l’autonomia di una nostra piattaforma rivendicativa, sui processi di riorganizzazione che investivano in modo diffuso il sistema delle imprese, soprattutto nei settori industriali.

A tutto questo abbiamo reagito, con determinazione e con una certa efficacia. Il contributo della Lombardia è stato rilevante nella discussione che si è aperta dentro la CGIL, ed ha consentito di realizzare nei fatti una correzione di rotta, riaffermando in linea di principio l’instabilità dei diritti contrattuali, e quindi l’inefficacia, sotto questo profilo, dell’intesa del 31 luglio. E soprattutto ci siamo impegnati con grande serietà ad organizzare una effettiva consultazione di massa, per ristabilire il rapporto democratico con gli iscritti e con i lavoratori, pur in una situazione deteriorata, segnata da forti tensioni e da polemiche aspre.

Nel frattempo il quadro veniva mutando radicalmente, con la precipitazione della crisi monetaria, con la svalutazione della lira, e con i provvedimenti economici decisi dal governo, il che vanificava tutte le premesse del protocollo di fine luglio, il quale impegnava il governo alla stabilita del cambio e alla difesa delle retribuzioni reali, escludendo esplicitamente un aumento della pressione fiscale sul lavoro dipendente.

A quel punto, non si trattava più dell’accordo del 31 luglio, nei fatti già svuotato e vanificato, ma di rispondere ad una manovra economica che colpiva’ in modo brutale ed iniquo le condizioni dei lavoratori, su diversi versanti, dal fisco alla sanità, alla previdenza, ai diritti contrattuali.

Abbiamo tutti lavorato per una risposta di lotta, per una mobilitazione di massa, con la convinzione che fossero necessari cambiamenti sostanziali della manovra economica del governo, e non solo correttivi parziali. Questa è stata la scelta compiuta alla Conferenza regionale dei delegati, che concludeva la fase di consultazione, con un pronunciamento unitario molto netto e convinto. Abbiamo così contribuito allo svilupparsi di uno straordinario movimento di lotta, che ha assunto un’ampiezza e una combattività davvero eccezionali.

I risultati conseguiti non sono stati all’altezza di questa mobilitazione. Questo va detto con chiarezza, se vogliamo parlare un linguaggio di verità comprensibile dai lavoratori, va quindi riconosciuto il fatto che c’è stato un insuccesso dell’azione sindacale, e sulle ragioni di tale insuccesso dobbiamo attentamente interrogarci. Anche la nostra discussione interna ha qui il suo punto di travaglio e di sofferenza.

Nel confronto col governo si sono ottenuti alcuni risultati parziali che sarebbe sbagliato ignorare, e che tuttavia non rappresentano un mutamento significativo negli indirizzi di politica economica.

Su questo punto c’è stata una valutazione politica marcatamente dissonante tra la CGIL e le altre due confederazioni, e per questo siamo entrati in una fase difficilissima nei rapporti unitari.

Mentre il movimento era ancora nel pieno delle sue potenzialità, e attraverso l’esperienza di lotta cominciava a ristabilirsi un rapporto nuovo e positivo tra sindacato e lavoratori, ci siamo trovati di fronte ad una grave impasse, con un rischio di vera e propria rottura tra le Confederazioni, e di conseguente paralisi dell’iniziativa sindacale.

Chiariamo anzitutto mi pare importante ricordarlo che l’origine di questa difficolta stava essenzialmente nel rapporto con CISL e UIL, nella diversa valutazione dei risultati conseguiti nel confronto col governo, e che l’insieme della CGIL, a tutti i livelli, ha cercato di reagire a questo stato di cose e di riannodare il filo del movimento di lotta, di dare ad esso continuità e respiro. Sulla valutazione di fondo non ci sono stati tra di noi dissensi significativi. Piuttosto, abbiamo dovuto affrontare complessi e intricati problemi per trovare una via d’uscita da questo stato di difficoltà, e nella valutazione dei passaggi tattici ci sono stati sicuramente diversi atteggiamenti e diverse sensibilità.

Ma credo che sia del tutto errata e non rispondente alla realtà dei fatti una rappresentazione del nostro dibattito interno come se ci fosse una parte della CGIL tutta “movimentista”, attenta solo all’esigenza di sostenere il movimento in atto, e un’altra arte attenta solo al rapporto unitario. Si tratterebbe, se così fosse, di due posizioni altrettanto errate e unilaterali.

Faremmo torto a noi stessi se dovessimo assumere questo troppo facile schema interpretativo. In realtà, nel vivo di una situazione di estrema difficoltà, abbiamo cercato di tenere collegate le due esigenze la continuità della lotta e il rapporto unitario e quel problema ce lo siamo posto tutti, come era dovere di un gruppo dirigente responsabile, ce 1o siamo posto in un quadro di incertezza, di travaglio, in presenza di contraddizioni di difficile ricomposizione. In situazioni di questa natura non ci sono verità semplici, non ci sono linee di condotta rettilinee, perché nella valutazione entrano numerosi e contraddittori elementi.

Se ricordo bene le discussioni che abbiamo avuto nel nostro organismo dirigente, in questo comitato direttivo, anche nei momenti più difficili, si e sempre trattato di una discussione complessa, nella quale ciascuno di noi cercava, magari con indicazioni diverse, di tener conto dell’insieme del quadro, senza accettare troppo facili e superficiali semplificazioni.

Per questo trovo fuorviante la polemica su un presunto atteggiamento solo verticistico e diplomatico nei rapporti con CISL e UIL, che avrebbe caratterizzato la direzione regionale della CGIL. Mi sembra francamente una polemica strumentale, non basata sulla verità dei fatti, non suffragata dall’esperienza reale che insieme abbiamo costruito, dalle lotte dell’autunno, all’iniziativa autonoma dei Consigli, allo sciopero regionale, fino allo sciopero generale del 2 aprile.

Questa esperienza è fatta di momenti di lotta, e di una costante ricerca unitaria per mettere a punto proposte e piattaforme, interagendo con il confronto nazionale.

In tutta questa fase, la Lombardia e stata, nel panorama nazionale, un elemento di forza, di stimolo, e anche il confronto unitario con CISL e UIL e sempre stato teso a forzare i limiti delle posizioni nazionali, a ottenere impegni di mobilitazione, a tenere aperto il confronto su questioni per noi irrinunciabili, come il fisco e la sanità, il che almeno parzialmente è avvenuto nelle prese di posizione unitarie.

L’esperienza originale del movimento dei Consigli, che ha consentito di dare continuità alla lotta nel momento in cui si rischiava la paralisi e il vuoto di iniziativa, è sicuramente un momento assai importante della nostra storia sindacale di questi mesi.

Ricordo che fin dall’inizio abbiamo assunto una posizione non solo di riconoscimento della legittimità dell’iniziativa autonoma dei Consigli il che era nettamente rifiutato dalla CISL, di attenzione e disponibilità al confronto, ma anche di valutazione positiva per una iniziativa che rimetteva in moto una situazione bloccata, come è avvenuto con lo sciopero di Milano, in concomitanza con la manifestazione dei chimici.

Nello stesso tempo, occorreva anche tener presente il rischio che si producesse una sorta di struttura separata, una specie di quarto sindacato, e che venisse così compromesso il carattere unitario del movimento in quanto espressione delle strutture sindacali di base. Era necessario quindi agire su diversi piani, e dare uno sbocco positivo al movimento rimettendo in moto l’iniziativa unitaria delle Confederazioni. A questo abbiamo lavorato tenacemente, per giungere ad uno sciopero generale in Lombardia, il che ha richiesto un confronto complesso con CISL e UIL per concordare una comune piattaforma lotta che non fosse centrata solo sui temi dell’occupazione, ma rappresentasse anche una continuità con le lotte dell’autunno per una svolta nella politica economica del governo.

La mia opinione personale sul movimento dei consigli sento il bisogno di esprimerla con chiarezza che esso può essere una grande risorsa se davvero riesce ad essere l’espressione di una rappresentanza unitaria di base, e se, di conseguenza, rifiuta le strumentalizzazioni, rifiuta di essere usato, o da forze politiche esterne o anche ai fini della lotta politica all’interno del sindacato.

Se dovessero perdersi le caratteristiche di un’autentica esperienza democratica e unitaria, per dare luogo a una corrente politica, a un gruppo chiuso in se stesso, allora inevitabilmente si produrrebbe una fase involutiva. Io dico allora ai compagni dei Consigli che non devono farsi usare, che non hanno bisogno di adesioni strumentali, che possono contare e avere un peso solo in quanto salvaguardano la loro autonomia.

A partire dalla manifestazione a Roma, che ha rappresentato un momento alto di questa esperienza, mi sembra che siano scattati meccanismi di appropriazione e di strumentalizzazione che rischiano di isterilire il movimento. E la CGIL, per prima, non deve fare questo errore di strumentalizzazione, ma deve mantenere una posizione di autonomia, di confronto, senza delegare ad altri le proprie responsabilità.

Su questa linea avevamo trovato, nelle nostre discussioni precedenti, una base di intesa, che io penso debba oggi essere sostanzialmente riconfermata.

Certo, le divisioni nel sindacato hanno pesato, e sta qui una delle ragioni del bilancio politico insoddisfacente di questa fase, dello scarto tra mobilitazione e risultati, uno scarto che resta drammaticamente aperto e che determina tra i lavoratori fenomeni preoccupanti, di protesta disperata o di sfiducia e abbandono.

Ma le divisioni e le incertezze del sindacato non spiegano tutto. Divisioni e incertezze sono l’espressione di una più generale difficoltà politica del movimento sindacale a misurarsi con i dati della crisi economica e finanziaria del paese, con le necessità di risanamento, a prospettare su questi temi una propria autonoma strategia.

E questo è un problema tuttora aperto. Una linea solo difensiva non regge, e viene inevitabilmente travolta. C’è un salto di qualità nella situazione economica del paese, e le tattiche di aggiustamento morbido, di tamponamento e di rinvio, con le quali ha galleggiato la vecchia classe dirigente, di tipo andreottiano, oggi non sono più perseguibili. Anche il sindacato quindi è posto di fronte a scelte nuove e impegnative, e deve selezionare in modo rigoroso e realistico i propri obiettivi. Questo non siamo riusciti a farlo, ed è mancata quindi una vera capacita di guida del movimento, con la scelta degli obiettivi fondamentali, strategici, e con la forza di una proposta alternativa capace di aggregare consensi politici e sociali nel paese.

Caduto Amato, restano ancora tutti sul tappeto questi problemi, problemi che non si risolvono né con un movimentismo fine a sé stesso né con l’ennesimo aggiustamento di una piattaforma unitaria che finisce poi per essere sfilacciata nei vari confronti “tecnici” con il Governo.

In sostanza, io penso che dobbiamo mettere al primo posto i problemi di strategia generale, e che di ciò oggi dobbiamo discutere, lavorando per un progetto più chiaro e definito, e valutando in questa chiave le esperienze di questi mesi, nella loro complessità e nel loro carattere contraddittorio, per metterci in grado ora di superare insieme, con un grande sforzo collettivo, i limiti, le oscillazioni e gli errori della nostra azione.

 

3. Nella valutazione delle prospettive del movimento sindacale non possiamo prescindere dai cambiamenti profondi che sono intervenuti sulla scena politica. Si è prodotta una vera e propria rottura dei vecchi equilibri e si è aperta una fase nuova, di transizione verso uno nuovo ordine, ancora estremamente fluido ed incerto quanto ai suoi possibili sbocchi.

Il sindacato non può essere uno spettatore passivo e neutrale, ma deve partecipare, con la sua autonomia, alla costruzione del nuovo, alla definizione del nuovo assetto costituzionale, anche per contrastare possibili soluzioni di stampo conservatore, che si limitano a cambiare il personale politico senza cambiare più in profondità gli assetti sociali e di potere.

È in atto una rivoluzione democratica, che mette in crisi, in modo ormai irreversibile, il sistema politico, le forme della politica, le appartenenze ideologiche e le strutture organizzative collaudate, e che reclama un radicale ricambio della classe dirigente, e insieme a questo l’affermazione di nuove regole democratiche, che diano più potere ai cittadini e meno potere ai partiti.

In una fase come questa, di movimento, di trasformazione, di accelerazione di tutti i processi, il sindacato non può stare fermo e deve essere consapevole che la domanda di cambiamento lo coinvolge, che lo stesso sindacato, pur non essendo assimilabile ai fenomeni di degenerazione che hanno colpito il sistema dei partiti, ha subito anch’esso una sclerosi burocratica e si trova, in molte situazioni, in una posizione ambigua, in rapporti consociativi non trasparenti, che lo fanno apparire come un anello del sistema di potere. Il problema, dunque, per noi è la piena affermazione di un ruolo autonomo, la rottura dei collateralismi di ogni sorta, la costruzione del sindacato come soggetto sociale, che risponde ai propri rappresentanti e che da loro gli strumenti per auto organizzarsi, per decidere, con procedure democratiche, senza altri vincoli che non siano quelli della solidarietà tra i lavoratori.

Si tratta di un passaggio non facile perché il sindacalismo in Italia e non solo in Italia ha sempre avuto una forte connotazione politica, e la CGIL in particolare ha una storia di rapporti, di relazioni, di affinità con le forze storiche della sinistra italiana.

La rivoluzione democratica in atto consiste essenzialmente in una rivendicazione di autonomia della società civile, fino ad assumere, in alcuni casi, posizioni estreme e non accettabili, di pura negazione del ruolo dei partiti, o di regressione verso forme chiuse di localismo.

Il sindacato può essere, e a mio giudizio deve essere, un protagonista di questo processo di rinnovamento, non certo per stabilire nuovi collateralismi, ma al contrario per affermare senza nessuna ambiguità il proprio ruolo autonomo dentro un nuovo assetto politico e istituzionale.

In questo senso non siamo estranei al processo riformatore perché l’esigenza di autonomia della società civile è un’esigenza per una profonda riforma istituzionale, la quale trova oggi nel paese la straordinaria risorsa di una pressione di massa, di un movimento di opinione pubblica che ha dato sostegno all’azione moralizzatrice della magistratura, che ha costretto tutti i partiti a ripensare al proprio ruolo e ad avviare processi di autoriforma, e che si è manifestata con forza nei risultati referendari.

Al di là delle diverse, legittime opinioni che possono esserci tra di noi, credo che dobbiamo cogliere la sostanza di questo processo, la sua domanda di rinnovamento, di pulizia, di affermazione di un modello politico che sia compatibile con l’eticità dei comportamenti collettivi e con il valore dei diritti individuali.

Dopo il referendum del 18 aprile, tutti questi temi sono all’ordine del giorno e nello scontro che è aperto tra le istanze di rinnovamento e i tentativi di conservazione del vecchio assetto, non può essere incerta la nostra collocazione.

Di fronte all’arroganza dei vecchi centri di potere oggi minacciati, che si è espressa, ad esempio, nel voto parlamentare sull’autorizzazione a procedere nei confronti dell’on. Craxi – e prima, con troppo scarsa risonanza, nei confronti di Citaristi – non siamo diplomaticamente tacere. Dobbiamo chiedere, con forza, che tutte le richieste di autorizzazione vengano concesse e che finisca un regime di omertà e di impunità, quali che siano gli interessi partitici in gioco.

Se è chiaro questo spartiacque, questa scelta di campo, possiamo poi discutere delle diverse ipotesi di riforma istituzionale, e certamente c’è in questo campo una pluralità di possibili orientamenti. Nell’incontro di Genova organizzato insieme alla CGIL della Liguria e del Piemonte, abbiamo cercato di fissare alcuni primi orientamenti di massima, dando rilievo soprattutto ad un tema che è rimasto finora troppo in ombra, ovvero allo spostamento dei poteri dallo Stato centrale alle istituzioni locali, secondo una impostazione regionalistica coerente, che ricostruisce su basi regionali una nuova capacita di governo dei sistemi territoriali.

Non si tratta, qui, di una elaborazione astratta, ma di una precisa indicazione di lavoro, per costruire nelle realtà regionali nuove esperienze, nuovi spazi di partecipazione e di democrazia, contrastando su tutti i terreni le vecchie logiche centralizzatrici e statalistiche. Ciò riguarda anche noi, riguarda una prassi sindacale che ha spesso assecondato la centralizzazione delle relazioni, “la ministerializzazione” del confronto esautorando le strutture locali e di fabbrica.

Noi pensiamo necessario un rovesciamento di prospettiva, ovvero un nuovo edificio costituzionale nel quale tutte le decisioni e tutta l’amministrazione sono di norma affidate ai poteri regionali, salvo alcune materie “indivisibili”, a garanzia dell’unità nazionale.

Anche il sindacato, perciò, si deve organizzare su nuove basi, dandosi una struttura con un forte impianto regionalista, in sintonia con i cambiamenti istituzionali.

Questo aspetto è essenziale, perché nel passaggio alla Seconda Repubblica non è affatto scontato l’equilibrio dei poteri democratici, non è scontata la possibilità di una democrazia più ricca, che allarghi gli spazi di controllo sociale, di autodeterminazione, di partecipazione. Mi pare evidente che la rottura del modello centralistico è la condizione necessaria perché questi nuovi spazi possano essere effettivamente aperti.

I temi istituzionali, quindi, così intesi, non sono “altra cosa” rispetto ai problemi di carattere sociale, sono l’involucro necessario entro il quale la nostra azione sociale può essere più o meno efficace. Non è una fuga in avanti. In questi mesi si deciderà un nuovo ordinamento, un nuovo assetto dei poteri, una nuova Costituzione materiale del paese. Quale sarà il segno di questa operazione, la sua qualità dal punto di vista sociale e democratico? Può trattarsi di una soluzione tecnocratica e neo autoritaria o di un processo nuovo che rafforza i poteri democratici. Come potremmo essere indifferenti e lasciare ad altri la soluzione di un tale problema che è cruciale per l’avvenire della società italiana? Noi dobbiamo stare in campo, con una nostra proposta, con una nostra autonomia, affrontando i terni istituzionali non solo nell’ottica ristretta del sistema elettorale, ma nella loro dimensione più di fondo e strutturale, che riguarda l’assetto dei poteri, politici ed economici e la possibilità di un effettivo controllo democratico. C’è in questa direzione, ancora molto lavoro da fare per mettere a fuoco una proposta complessiva, organica.

È un campo nuovo, di ricerca e di elaborazione, nel quale credo che possiamo impegnarci in un confronto aperto dentro il sindacato e con tutte le forze che sono impegnate in una prospettiva di cambiamento e di riforma.

 

4. Il sindacato è esso stesso un anello indispensabile di questa riforma. Nel momento in cui chiediamo nuove regole politiche e nuovi spazi di partecipazione, la riforma democratica del sindacato diviene una priorità evidente. L’attuale situazione di arbitrio e di irresponsabilità dei gruppi dirigenti non è più sostenibile. Non può più funzionare un mandato fiduciario di tipo ideologico o una pratica di direzione affidata ad avanguardie illuminate. Proprio perché il mondo del lavoro è sempre più complesso e variegato, non più riducibile entro gli schemi tradizionali dell’unità di classe, ed è percorso da nuovi bisogni individuali di auto affermazione e da nuove identità collettive, solo una pratica democratica conseguente e rigorosa nelle sue procedure può consentire di esprimere tutta la ricchezza delle sue articolazioni e di definire, alla luce del sole, un percorso di solidarietà, di sintesi e di mediazione tra i diversi interessi.

Il sindacato è stato finora restio a darsi regole, procedure democratiche, si è anzi teorizzata l’impraticabilità dei principi della democrazia politica per una organizzazione sociale di massa. Oggi mi sembra indispensabile una rottura con questo tipo di tradizione, la quale si realizza con l’adozione limpida delle regole democratiche: la regola della misurazione del consenso e della rappresentanza, e il principio di maggioranza come criterio di legittimazione delle decisioni.

Ciò significa anche, necessariamente, dar vita a organismi di democrazia delegata con l’elezione libera dei rappresentanti e con l’attribuzione ad essi di precise funzioni contrattuali e di poteri decisionali, Per questo, la democrazia sindacale va regolata per legge, perché qualsiasi forma di autoregolazione finisce per essere precaria, esposta alle contingenze, ai cambiamenti di valutazione soggettiva, come ha dimostrato ormai abbondantemente tutta l’esperienza di questi anni.

La decisione della CGIL di presentare una propria proposta di legge e di organizzare, intorno ad essa, una campagna di massa, rappresenta quindi una svolta di grande importanza.

Tale svolta è resa indispensabile anche dai ritardi, dalle incertezze, dalle resistenze, che hanno finora impedito la realizzazione dell’intesa sulle RSU, il che appunto conferma quanto sia difficile risolvere il problema della democrazia sindacale con un processo tutto interno, endogeno, di autoriforma.

Deve realizzarsi nei prossimi giorni il massimo impegno organizzativo per la raccolta delle firme a sostegno delle due proposte di legge, sulla rappresentanza e sulla sanità, essendo in gioco il prestigio della CGIL, la sua capacità di iniziativa, i suoi rapporti di massa.

È un compito di lavoro preciso, al quale non si può sottrarre nessuna struttura e nessun dirigente della CGIL.

La nostra proposta, ovviamente, è un primo contributo, aperto al confronto e anche alla critica. Non è un atto di rottura, o una sfida a CISL e UIL con le quali intendiamo seriamente e serenamente discutere, ma è la scelta, che consideriamo non più rinviabile, di porre il problema della democrazia sindacale come problema politico, in quanto non si tratta solo delle nostre regole interne di funzionamento, ma dei diritti fondamentali dei lavoratori, iscritti o no al sindacato.

La democrazia sindacale non può essere solo un fatto interno delle singole organizzazioni, perché le decisioni del sindacato producono effetti di carattere universale e per questo appunto c’è bisogno di una regolazione legislativa.

Si deve costruire un modello democratico complesso, distinguendo i diritti degli iscritti, che devono poter partecipare alla costruzione della proposta sindacale e i diritti dei lavoratori, che affidano alle organizzazioni sindacali un mandato a contrattare e che devono avere gli strumenti per valutare l’andamento e gli esiti del negoziato, il che può avvenire non tanto con il referendum, che interviene solo a decisioni già avvenute, che possono essere convalidate o respinte, ma con procedure di partecipazione e di controllo nel corso del negoziato. La nostra proposta di legge cerca appunto di rispondere a queste diverse esigenze, con soluzioni certo discutibili e perfettibili, ma con un indirizzo di fondo chiaro, che resta per noi un orientamento di principio della CGIL.

Altro e diverso segno ha invece l’iniziativa del referendum per l’abrogazione dell’articolo 19 dello statuto, un segno solo negativo e non propositivo, che può aprire un varco pericoloso nell’attuale impianto giuridico legislativo e che può alimentare un attacco indiscriminato al ruolo delle Confederazioni.

In ogni caso la CGIL come tale non è impegnata in questa iniziativa.

La scelta legislativa non è un’alternativa alle possibili intese tra le parti per attivare da subito nuovi meccanismi di elezione delle rappresentanze. Non possiamo affidarci solo alla legge e aspettare i tempi, che possono essere ancora lunghi, della decisione parlamentare. Resta per noi valida l’intesa sulle RSU, e tale intesa va subito concretizzata anche attraverso accordi attuativi con le controparti, come si sta facendo a Milano con Assolombarda.

A questo processo di democratizzazione affidiamo anche le prospettive dell’unità sindacale, vedendo questi due aspetti democrazia e unita nel loro nesso inscindibile, come elementi di un unico processo.

La nostra scommessa è per la costruzione di un nuovo sindacato unitario, democratico e pluralista, che realizzi un livello alto di partecipazione consapevole, di consenso, di mobilitazione attiva dei lavoratori.

Dobbiamo per questo, senza remore e senza sospetti, avviare un confronto serrato con CISL e UIL per discutere le condizioni possibili dell’unità, le regole di democrazia, i principi costitutivi di un nuovo sindacato confederale unitario.

Ciò che è preliminarmente necessario è l’accordo sui principi di fondo, mentre sulle singole scelte di politica sindacale deciderà la normale dialettica democratica, dalla quale dipende, sulle diverse questioni, la verifica della maggioranza e della minoranza, e quindi la legittimazione democratica delle decisioni.

La CGIL sceglie l’unita come suo obiettivo strategico, per l’oggi e non per un futuro indeterminato, a questa scelta con determinazione ma senza semplicismi, sapendo che si tratta di un processo difficile, non scontato, e che esso può divenire reale se le tre Confederazioni saranno in grado di costruire un progetto comune, nella chiarezza e nella trasparenza circa le scelte di fondo.

La discussione nel Direttivo nazionale della CGIL ha fissato, sotto questo profilo, una linea di condotta molto chiara, che credo dobbiamo assumere integralmente, senza riserve.

Sgombriamo il campo dagli equivoci e dalle polemiche pretestuose, capziose, con le quali si ripropone un’opposizione delle ragioni dell’unità e delle ragioni della democrazia, le quali non sono separate e sono entrambe un elemento costitutivo dell’identità della CGIL.

So bene, naturalmente, che nella pratica possono determinarsi conflitti, come spesso è avvenuto nel corso di questi anni, e che in questi casi si presentano scelte difficili e delicate, che mettono a rischio la coerenza della nostra ispirazione generale.

Per superare questi elementi di conflitto, è necessario costruire un movimento per l’unita, per la rifondazione democratica del sindacato unitario, con la partecipazione dei lavoratori, dei delegati, delle strutture di base.

Senza questa pressione democratica e di massa, l’unita non si potrà realizzare, e sarebbe in ogni caso un risultato fragile, precario. Non pensiamo quindi ad una operazione di mera sommatoria delle attuali Confederazioni, ma ad un processo nuovo, di costruzione delle basi democratiche del sindacalismo confederale.

Per questo dobbiamo, sulla base delle conclusioni del nostro direttivo nazionale, aprire subito una discussione larga in tutto il corpo dell’organizzazione, con la massa dei nostri iscritti, per imprimere al processo unitario, all’azione per l’unita sindacale, i caratteri forti di un processo che mette radici nella realtà sociale, superando i limiti di una discussione tutta interna ai gruppi dirigenti, la quale finisce, proprio per questo suo carattere di vertice, per girare attorno a se stessa, senza produrre risultati.

Nello stesso tempo, dobbiamo proporre a Cisl e Uil sedi di confronto, di approfondimento, di elaborazione, sia per affrontare le questioni di carattere generale, ovvero gli elementi fondativi del processo unitario, sia per esplorare tutte le possibilità di intese anche parziali in alcuni settori di lavoro, e nelle attività di servizio, per cominciare a costruire nei fatti le prime tappe, le prime scelte concrete e operative sulla via dell’unità sindacale.

 

5. Si pone oggi un problema di ricostruzione del movimento. Dopo il 31 luglio, e dopo gli esiti insoddisfacenti delle lotte d’autunno, non siamo ancora riusciti a reimpostare una nostra iniziativa efficace, credibile, con il consenso dei lavoratori, nonostante gli sforzi fatti e nonostante il valore politico che ha assunto la giornata di lotta del 2 aprile.

Oggi, con la formazione del nuovo governo, che pure ha davanti a sé tempi brevi, alcune condizioni sono probabilmente cambiate, e ci può essere lo spazio per portare a conclusione almeno alcuni aspetti del negoziato.

Sul piano della politica economica generale, dobbiamo attenderci una linea di rigore e di severità. Il confronto, anche per la più alta qualità tecnica dell’attuale compagine, diventa più impegnativo, meno soggetto alle improvvisazioni e al soggettivismo di qualche ministro. Il punto d’attacco sul quale credo dobbiamo concentrare la nostra iniziativa riconoscendo la necessità di una effettiva azione di risanamento è la priorità di una politica per lo sviluppo, per il rafforzamento e la qualificazione del nostro tessuto produttivo, per una linea che sia in prima istanza finalizzata alla ripresa degli investimenti e al rilancio di una effettiva politica industriale.

Dopo anni di inerzia, occorre ora un’azione pubblica efficace sui fronti strategici dell’innovazione tecnologica, della ricerca, della formazione, delle collaborazioni internazionali, usando in questa chiave anche lo strumento delle privatizzazioni, che e stato finora concepito solo in termini finanziari, per una riduzione del disavanzo pubblico, senza il supporto di nuovi progetti.

A ciò va rapportata l’esigenza di una nuova politica fiscale che ristabilisca condizioni minime di equilibrio e di equità.

Una politica di rigore, infatti, può avere il consenso sociale necessario, solo se essa viene indirizzata secondo criteri di giustizia, in assenza dei quali c’è l’esplosione incontrollata delle proteste e dei particolarismi.

Con il nuovo governo, dunque, che è sicuramente un interlocutore autorevole dal unto di vista della politica economica, dobbiamo cercare di dare finalmente attuazione ad un’intesa seria, non generica e non propagandistica, sulla politica dei redditi, per un governo concertato delle grandi variabili economiche, il che significa per noi correzione delle iniquità fiscali, recupero del drenaggio, garanzie di tutela del salario reale, controllo efficace di prezzi e tariffe.

Senza sbandierare inutilmente ipotesi di “patto sociale”, si tratta di entrare seriamente nel merito di questi temi, che sono materia di un confronto negoziale complesso.

Occorre comunque un segno visibile di correzione e di cambiamento rispetto alle decisioni assunte dal precedente governo, e c’è bisogno, per questo, di risultati sociali concreti, comprensibili e misurabili nei loro effetti dalle grandi masse. Io proporrei di concentrare sul capitolo della sanità questa nostra azione sociale, sia perché qui si sono prodotti i guasti più profondi, creando condizioni insopportabili di disagio per i settori più deboli della società, sia perché, con un nuovo titolare del ministero, si può riaprire uno spazio negoziale. La CGIL ha predisposto una propria proposta di legge, che è uno strumento importante di mobilitazione. Ma occorre da subito riaprire il confronto col governo, per ottenere cambiamenti significativi, concreti, prima che sia possibile mettere mano ad un disegno più complessivo di riforma.

E su questo tema, date le competenze che sono attribuite alle Regioni, c’è spazio anche per una vertenza regionale che impegni la Giunta su una linea di riforma, riorganizzazione del servizio sanitario, e di tutela delle forze sociali meno protette.

Non riprendo gli altri aspetti del negoziato (sistema contrattuale, indicizzazioni salariali, rappresentanza), perché sono note le nostre posizioni. Dico solo che c’è bisogno di superare un clima di sospetto, con il quale veniva accreditata la tesi della subalternità della CGIL di un suo cedimento orami annunciato, di un esito della trattativa che avrebbe dunque ripercorso la vicenda del 31 luglio. Questo clima di diffidenza pregiudiziale, del tutto smentito dai fatti reali, impedisce al sindacato di mettere in campo tutta la sua forza, e di avere il sostegno di una forte pressione di massa. Non ci siamo mai nascoste le difficoltà e i rischi della trattativa, ma occorre ricordare che il rischio maggiore, per il sindacato e per i lavoratori, è il fallimento definitivo della trattativa, perché ciò lascerebbe un vuoto estremamente pericoloso, senza regole contrattuali concordate, senza nessuna forma di tutela del salario rispetto all’inflazione, senza il riconoscimento delle nuove strutture di rappresentanza, e senza nessun risultato sul fronte del fisco e dello stato sociale.

Dobbiamo assolutamente ripristinare le condizioni necessarie di consenso e di fiducia, sia attraverso momenti unitari di informazione e di confronto, sia utilizzando – per quanto riguarda la CGIL – le riunioni degli iscritti che sono programmate in vista della Conferenza di organizzazione, ed occorre per questo un impegno di tutto il gruppo dirigente, facendo sì che le diverse valutazioni non portino ad un esito distruttivo, ma a una più forte partecipazione e vigilanza su l’andamento del negoziato.

Al livello regionale, abbiamo bisogno di rilanciare e di dare concretezza alla nostra piattaforma sulla quale abbiamo chiamato i lavoratori alla lotta. Ai lavoratori dobbiamo rendere conto dei risultati e dobbiamo evitare che i nostri obiettivi si disperdano in confronti inconcludenti. Abbiamo finora conquistato uno strumento, il tavolo triangolare regionale con l’istituzione Regione e con le associazioni industriali, ma è appunto solo uno strumento, che stenta a funzionare e a produrre decisioni.

Vi sono qui ritardi ed insufficienze della Giunta regionale, che non è andata finora oltre l’enunciazione di buoni propositi, e vi sono anche sicuramente ritardi nostri, di elaborazione, di proposta.

Il problema è dunque quello di gestire la piattaforma regionale, e di farla vivere con l’iniziativa sindacale e nel rapporto con i lavoratori.

I problemi che poniamo riguardano la qualità complessiva del sistema territoriale e i suoi processi di innovazione, di modernizzazione, e in questo quadro poniamo il tema dell’occupazione, non in termini assistenziali, ma nel suo rapporto con il processo necessario di rafforzamento delle basi produttive dell’economia regionale.

È quindi una vertenza complessa, che ha anche il senso di stimolare un nuovo ruolo politico e un’autentica autonomia dei poteri regionali.

Per questo, mi sembra necessaria un’articolazione di iniziative, per settori e per aree territoriali, su obiettivi più circoscritti e concreti (progetti di reindustrializzazione investimenti pubblici interventi di governo del mercato del lavoro progetti di formazione e riqualificazione, investendo di questi temi le diverse controparti, pubbliche e imprenditoriali, e organizzando anche, là dove esistono le condizioni, momenti di mobilitazione e di lotta.

Per questo è necessario un più stretto rapporto tra il Regionale e le strutture di categoria e territoriali, per decidere insieme gli obiettivi e le iniziative. In ogni caso resta per noi un vincolo, per qualsiasi conclusione ai diversi tavoli negoziali, la verifica del consenso dei lavoratori, o quanto meno degli iscritti, come abbiamo più volte ribadito.

 

6. Cito soltanto, velocemente, per non appesantire troppo una relazione già assai ponderosa, due temi, che mi sembrano essere dei passaggi strategici essenziali, suscettibili di nuovi sviluppi, aperti a nuovi possibili orizzonti dell’azione sindacale.

Il primo tema è il nostro intervento sull’impresa, sui processi di riorganizzazione, sulle condizioni e sulla qualità del lavoro, dando attuazione all’intuizione politica del nostro Congresso, che ha indicato la via della codeterminazione, ovvero di un nuovo sistema di regole, di diritti, di partecipazione, per un governo non solo conflittuale dell’impresa, ma tale da costruire i primi elementi, le prime basi, di una democrazia economica, di una riforma democratica dell’impresa.

L’esperienza pratica ci offre già alcuni primi materiali, alcune esperienze contrattuali innovative, che vanno attentamente studiate.

Dovrebbero essere ormai superate così spero le discussioni di tipo ideologico su partecipazione e conflitto, e quindi le diffidenze verso le prospettive di codeterminazione, diffidenze che sono radicate anche nella nostra realtà lombarda. Con la codeterminazione, infatti, non facciamo una scelta astratta, ideologica, ma cerchiamo di sperimentare nuovi modelli di contrattazione, di aprire nuovi spazi, di utilizzare a questo fine le nuove esigenze della stessa impresa, che ha bisogno di consenso, di responsabilizzazione, di valorizzazione del fattore umano, essendo queste condizioni necessarie per dare forza ai processi di innovazione e per rompere la rigidità delle strutture di tipo burocratico e gerarchico.

Non è una evoluzione spontanea, scontata, ma un nuovo, più avanzato terreno di iniziativa e di lotta.

Occorre ora fare il punto, e prospettare concrete ipotesi di lavoro. Con la CGIL dell’Emilia Romagna, pure da tempo impegnata su questa frontiera, anche con un prezioso lavoro di ricerca, intendiamo organizzare un momento di riflessione e di analisi, entro il prossimo mese di giugno.

Più in generale, mi pare che in Lombardia abbiamo una ricca e diffusa esperienza di contrattazione, non solo nei settori tradizionali, ma anche in settori nuovi e nell’area delle piccole imprese e dell’artigianato, la quale però non è sufficientemente conosciuta, analizzata, discussa, e non vi è pertanto una socializzazione di questa esperienza; e d’altra parte c’è una trasformazione del lavoro, nei suoi aspetti tecnologici, organizzativi, culturali, che però non ha avuto la sufficiente attenzione da parte del sindacato.

Su questi intrecci tra impresa, lavoro, contrattazione, codeterminazione dobbiamo lavorare, scavare più a fondo. È questo tra |’altro il modo per ridare ruolo e autonomia alle strutture sindacali nei luoghi di lavoro, per conquistare nuovi spazi contrattuali, per dare quindi forza anche a un progetto di riforma dei modelli contrattuali che sia orientato al riconoscimento esplicito e al potenziamento dei momenti decentrati.

Il secondo tema è la dimensione internazionale dell’azione sindacale oggi, resa sempre più indispensabile per i processi di integrazione e di interdipendenze su scala mondiale, e in particolare su scala europea. Anche in questo caso si tratta di passare dalle affermazioni di principio alla costruzione di esperienze, di forme di contrattazione sovrannazionale, di settore o di gruppo. In questo campo, non c’è ancora un patrimonio di esperienza, c’è anzi un grave ritardo, che spesso è anche un ritardo culturale, di consapevolezza, di conoscenza.

Quando parliamo di relazioni sindacali nella realtà europea, nell’ambito della CES, non si tratta più di politica estera, ma di politica interna, si tratta cioè di una dimensione che è intrinseca alla natura dei problemi che dobbiamo affrontare, e che deve perciò divenire la dimensione normale, quotidiana, della nostra azione.

Altrimenti rischiamo di fare solo retoriche proclamazioni sui nuovi “poteri forti”, sulla nuova oligarchia finanziaria internazionale, senza saper organizzare, di fronte a tutto ciò, una risposta di carattere Sindacale.

Ho voluto indicare questi aspetti, che possono sembrare marginali rispetto al nostro dibattito, per sottolineare l’esistenza di un campo vasto, per molti aspetti inesplorato, di possibili esperienze innovative, rispetto al quale l’impegno dei gruppi dirigenti della CGIL a tutti i livelli è sicuramente inadeguato.

C’è, in questo senso, nel nostro lavoro una certa ristrettezza e una forza di inerzia, che ci impedisce di sfruttare tutte le potenzialità, e ciò si riflette anche nel nostro dibattito, che rischia di essere tutto giocato su grandi discriminanti ideali e simboliche più che su una valutazione di merito, riferita al l’esperienza reale e all’esplorazione di nuovi possibili campi di attività.

 

7. Queste considerazioni critiche richiedono una valutazione attenta circa il funzionamento della nostra struttura regionale. C’è sicuramente un problema di rapporto tra la segreteria regionale e le strutture, territoriali e di categoria.

È questo un motivo ricorrente di disagio, di critica. Io non credo che questa carenza sia dovuta ad uno scarso impegno soggettivo, dei singoli compagni, o ad un atteggiamento di autosufficienza. Credo piuttosto che si debbano mettere allo studio soluzioni di tipo strutturale, di riforma organizzativa.

La Lombardia è una realtà assai complessa e policentrica, che richiede pertanto metodi di direzione capaci di valorizzare tutta la ricchezza delle diverse esperienze. C’è un’esigenza di raccordo con l’area metropolitana milanese, che pero non può essere risolta con soluzioni troppo semplificate, con operazioni di mero intreccio organizzativo, le quali finirebbero per marginalizzare altre realtà territoriali che hanno storie, peculiarità, esperienze sindacali assai differenziate.

C’è bisogno quindi di un livello di direzione regionale che affronti nel loro insieme, nella loro unità organica, i problemi dell’assetto territoriale, affrontando quindi tutto il nodo dell’area metropolitana nei suoi aspetti politici, istituzionali, sociali come nodo politico, e non solo come esigenza di coordinamento organizzativo.

Così, nell’esperienza lombarda, le categorie regionali non sono, in generale, una mera sovrastruttura burocratica, ma sono centri significativi di direzione, di elaborazione.

Sarei perciò contrario ad una soluzione organizzativa che annulli il momento regionale di categoria, anche se sicuramente si pongono problemi di ridefinizione dei compiti, di snellimento della struttura, valutando caso per caso le diverse situazioni e le diverse soluzioni possibili.

La Lombardia ha bisogno di una struttura che valorizzi le differenze, le articolazioni, che sono un motivo di forza. Oggi i rapporti con le strutture sono spesso episodici, scoordinati, lasciati all’iniziativa individuale. Non c’è una vera e propria associazione delle strutture alle responsabilità di direzione.

La soluzione, allora, può essere nella definizione di sedi istituzionali di coordinamento, di associazione ai compiti di direzione, di partecipazione a pieno titolo alle sedi negoziali che la CGIL ha con le sue controparti il che può essere fatto sulla base di alcuni grandi comparti: l’industria, il terziario e i servizi, il territorio, le politiche sociali. Questi coordinamenti, diretti dalla segreteria regionale, potrebbero divenire non solo momenti di carattere operativo, ma anche sedi di decisione.

Occorrerà, se questa proposta, per ora solo abbozzata, viene condivisa, precisarla e concretizzarla, e fissare in proposito una precisa normativa.

La struttura regionale deve inoltre qualificare la sua funzione di supporto, fornendo alle altre strutture un insieme di servizi, di dati conoscitivi, e dandosi una struttura di apparato nella quale siano preminenti le funzioni specialistiche.

L’attenzione ai problemi interni di funzionamento non deve allentare l’impegno sul fronte delle relazioni esterne, che resta un fronte ancora debole, nonostante alcuni sforzi compiuti. Sarebbe del tutto errato contrapporre le due esigenze, e spingere così la nostra organizzazione a chiudersi in se stessa.

Abbiamo bisogno di un sindacato che comunica con la società, che costruisce una sua rete multiforme di rapporti, che non pretende l’autosufficienza ma si avvale di contributi esterni, entrando in una comunicazione aperta e costruttiva con la cultura scientifica.

Gli sforzi fatti in questa direzione non vanno abbandonati, ma al contrario intensificati. È importante, in questo senso, valorizzare la Consulta Scientifica, attraverso la quale intellettuali e specialisti di valore si rendono disponibili ad un rapporto di collaborazione con il sindacato. Stiamo inoltre lavorando per realizzare un patto di collaborazione con le varie organizzazioni sociali, dalle ACLI, all’ARCI, alle Associazioni di volontariato, per segnare una presenza e un ruolo della società civile in questa fase di trasformazione degli assetti politico istituzionali, E resta irrisolta l’esigenza di una politica della comunicazione, che abbiamo cercato di affrontare con il progetto televisivo, e che ora dobbiamo ripensare e ridefinire, con nuovi strumenti e con una migliore intesa e collaborazione tra tutte le strutture.

La cooperazione tra le strutture, quale che sia il problema che vogliamo affrontare, è una condizione di base indispensabile.

In una riforma della CGIL in senso regionalista, le strutture regionali possono assumere un nuovo ruolo, e una autorità politica più marcata, assumendo compiti effettivi di direzione.

Ma ciò non può significare l’adozione di un modello gerarchico, che è criticabile in se, e che sicuramente non riuscirebbe a funzionare in una organizzazione complessa quale è la CGIL. Dobbiamo quindi migliorare e potenziare le forme di cooperazione, di integrazione. Questo a me sembra essere il problema principale, e per questo è necessario sia un clima politico interno che consenta la collaborazione, sia l’adozione di misure organizzative e strutturali, circa le quali ho fornito una prima ipotesi di lavoro, pronto a considerare qualsiasi altro suggerimento, qualsiasi altra proposta che possa essere avanzata.

 

8. La Conferenza d’organizzazione è l’occasione per affrontare tutti questi temi e per decidere su un progetto complessivo di riforma delia CGIL. In un prossimo direttivo, che sarà convocato ai primi di giugno, valuteremo i documenti nazionali e decideremo su eventuali proposte di modifica o di integrazione. A settembre si dovrà tenere la Conferenza d’organizzazione della CGIL regionale che dobbiamo preparare con il massimo impegno, giungendo a questo appuntamento con un progetto, con un’idea forte di riforma e di rinnovamento della nostra struttura.

Io mi auguro che sia possibile un lavoro unitario, superando le divisioni cristallizzate tra maggioranza e minoranza, un patto unitario per la riforma e per il rinnovamento della CGIL.

Ne discuteremo nelle prossime occasioni. Ma intendo già da ora formulare qualche indicazione, qualche ipotesi.

A mio giudizio, i due temi centrali, tra loro strettamente correlati, sono la democrazia d’organizzazione, il sistema di regole democratiche e i diritti degli iscritti, e la sburocratizzazione della struttura.

La riforma democratica, infatti, non è separabile da una riforma organizzativa che sposti il baricentro dell’organizzazione là dove si realizza un rapporto diretto con i lavoratori e con i luoghi di lavoro. È questo il fronte principale, è questa la funzione primaria del sindacato l’azione di contrattazione decentrata e la costruzione di un rapporto democratico permanente con gli iscritti e con i lavoratori e tutta la struttura quindi deve essere rimodellata sulla base di questa priorità, il che comporta un’opera radicale e complessa di sburocratizzazione, di sfoltimento di tutti i ruoli intermedi, di tutte quelle funzioni che sono solo di mediazione interna.

Per realizzare un tale progetto, è indispensabile che tutte le funzioni dirigenti, a tutti i livelli, siano esclusivamente fondate sulle esigenze di lavoro dell’organizzazione senza interferenze di altra natura, senza la sovrapposizione di logiche politiche, di componente, di rappresentanza. Insomma, la riforma della CGIL è possibile se cambia il suo regime interno, il quale resta, nonostante tutto, un regime di garanzie e di contrappesi politici, Oggi più complicato perché il pluralismo politico è più complesso, perché c’è una minoranza organizzata, perché anche ci sono sotto appartenenze, non ufficiali ma non per questo meno operanti, e il risultato e un ‘processo di selezione dei gruppi dirigenti del tutto viziato da queste logiche.

È possibile intervenire per spezzare questa spirale?

Potremmo, in questo senso, assumere alcune decisioni di forte innovazione: il superamento della funzione di segretario generale aggiunto la quale ha senso solo nel quadro del tradizionale patto politico tra componenti di partito, e il passaggio a una funzione di vice segretario, non come regola, ma solo in quelle strutture particolarmente complesse che ne abbiano una effettiva esigenza funzionale e il regionale lombardo rientra sicuramente in questa categoria; l’adozione del voto nominativo e segreto come regola per tutti i casi di elezione degli esecutivi, così da privilegiare il giudizio sulle persone rispetto a qualsiasi altra considerazione; il principio di una netta distinzione tra le funzioni di rappresentanza, che hanno la loro sede negli organismi direttivi, e le funzioni di governo proprie delle segreterie, che richiedono non l’omogeneità, ma l’intesa su un progetto di lavoro, non la costituzione di maggioranze chiuse, ma una selezione funzionale ai compiti della struttura. Insomma, abbiamo anche noi la nostra partitocrazia da smantellare, i nostri manuali Cencelli da abrogare.

Alcune di queste misure potrebbero essere autonomamente assunte nello Statuto regionale, che ci proponiamo di elaborare per la Conferenza d’organizzazione. Con lo Statuto regionale possiamo anche sancire nuove forme istituzionali di coordinamento tra la segreteria regionale e le strutture territoriali e di categoria, così come dobbiamo regolare il ruolo di nuove strutture, di nuove funzioni, già operanti o in via di formazione, dal coordinamento dei lavoratori artigiani, all’associazione dei quadri, alle nuove forme organizzative che fanno riferimento ad identità specifiche (immigrati, handicap, lavoratori Stranieri ecc.).

Non partiamo da zero. In un bilancio oggettivo, di verità, della nostra esperienza, ci sono sicuramente elementi di dinamismo, di sviluppo positivo, accanto a limiti e ritardi anche seri e pesanti. Possiamo dire che la struttura regionale ha bisogno, anche per dare effettiva attuazione alle intuizioni che ha saputo produrre, di un livello complessivo di efficienza decisamente superiore, e ha bisogno nello stesso tempo di un alleggerimento, di una maggiore snellezza, di un apparato meno pesante.

La discussione su questi aspetti è solo agli inizi e non possiamo certo concluderla con questa riunione, Possiamo però verificare se c’è la volontà di uno sforzo comune, innovativo e unitario, Sarebbe questo un fatto rilevante, un segno positivo. Non penso, naturalmente, che possono essere azzerate le diverse posizioni politiche, sia nel rapporto tra maggioranza e minoranza, sia dentro la stessa maggioranza, che ha evidenti articolazioni interne. Penso, piuttosto, a un nuovo fatto di gestione che consenta alla CGIL della Lombardia di superare le attuali difficoltà e di ristabilire una solidarietà nei suoi gruppi dirigenti, non per la difesa dello status quo, ma su un progetto di cambiamento e di riforma che porti ad un livello più alto le condizioni di democrazia, di trasparenza, di partecipazione.

Trattandosi di una ricerca tesa a ridefinire il sistema di regole, le forme del nostro regime interno, che dovranno essere sanzionate dallo Stato regionale, è indispensabile che una tale ricerca sia fatta con il concorso di tutti, poiché tali questioni non si risolvono a colpi di maggioranza.

Naturalmente, la Conferenza d’organizzazione è anche l’occasione per rilanciare la nostra iniziativa unitaria, sulle basi politiche prima chiarite. Non discutiamo, insomma, solo di noi stessi, ma dell’avvenire del sindacalismo italiano, e il progetto di riforma democratica che proponiamo per la CGIL lo pensiamo come un contributo alla causa dell’unità.

 

9. Alla Conferenza d’organizzazione vengono necessariamente a maturazione anche problemi di assetto, di rinnovamento del gruppo dirigente.

Il parere della segreteria è che si debba ora evitare una discussione nella quale problemi politici e problemi di assetto finiscano per condizionarsi a vicenda, con l’effetto di rendere la nostra discussione più confusa e più intricata.

Affrontiamo ora i problemi politici sia nei loro aspetti generali, sia per quanto attiene al lavoro e al funzionamento della struttura regionale.

Non è un espediente per eludere i problemi interni al gruppo dirigente, i quali devono rapidamente essere affrontati, anche con il concorso della segreteria confederale della CGIL.

Per quanto mi riguarda sono disponibile alla discussione più aperta, e credo che la medesima disponibilità ci sia da parte di tutti i compagni della segreteria.

D’altra parte, era già fissato un orientamento e un impegno per un rinnovamento e per la riduzione numerica della segreteria regionale. Ora questi impegni si fanno stringenti e attuali.

Non penso, francamente, che siano necessarie crisi politiche traumatiche che sarebbero solo di danno per la CGIL; penso, più semplicemente, che, dopo un periodo di tempo in cui si e protratta una situazione bloccata, sia necessario oggi preparare il terreno per nuove scelte, per la formazione di un nuovo gruppo dirigente, per il quale esistono sicuramente e potenzialità nella realtà della nostra regione.

Il mio compito è quello di favorire e preparare questi sbocchi in tempi brevi, e ricercando la più larga intesa unitaria. Questa discussione sul gruppo dirigente, che presenta, come sempre accade in questi casi, problemi complessi, ha bisogno di essere affrontata in un rinnovato clima di serenità, di chiarezza e con uno sforzo unitario. Il problema non e l’esistenza di differenze politiche che sono naturali, fisiologiche, e con le quali dobbiamo saper convivere, considerandole una risorsa dell’organizzazione; il rischio è piuttosto che le differenze si trasformino in schieramenti preconcetti, cristallizzati, i quali finiscono per rendere vana qualsiasi discussione e qualsiasi ricerca. I mio invito è a scongiurare questo esito, questa degenerazione del confronto politico, perché so bene gli effetti che ciò può produrre li ho già visti all’opera in altre situazioni – effetti che si trascinano nel tempo e che finiscono per indebolire la lucidità e la razionalità di ciascuno,- perché ciascuno finisce prigioniero del suo ruolo, del suo gruppo di appartenenza, della parte che deve recitare.

In un confronto libero, non preconcetto, dobbiamo cercare insieme una nuova e più forte unità, con spirito critico e autocritico, affrontando in modo esplicito, senza remore, senza chiusure difensive, i limiti del nostro lavoro, gli errori, i problemi irrisolti, le contraddizioni.

Io ho cercato di indicare, per questa ricerca, una base di discussione, non una linea già compiutamente definita, ma un primo approccio per una discussione che spero possiamo fare unitariamente, per giungere insieme a conclusioni chiare e condivise tali da rafforzare il ruolo e la consapevolezza di questo gruppo dirigente.



Numero progressivo: A8
Busta: 1
Estremi cronologici: 1993, 1 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota quindicinale della CGIL Lombardia”, n.10, 1993, pp. 1-13