CONCERTARE PARTENDO DAL TERRITORIO

Ricostruire una partecipazione dal basso per evitare il centralismo o i conflitti corporativi. Questa la sfida per il prossimo congresso della CGIL

di Riccardo Terzi – Direttivo nazionale

Il prossimo congresso della CGIL può essere un appuntamento politico di straordinaria importanza, dato il passaggio cruciale che la società italiana sta attraversando. È quindi utilissima l’iniziativa del Manifesto, con la quale si apre già da ora una discussione pubblica, aperta, non riservata agli addetti ai lavori, così da evitare un congresso di routine che si occupi solo della riclassificazione delle gerarchie interne.

La portata delle questioni da affrontare è tale da impedire una scelta di continuità e di aggiustamento. Basti ricordare i grandi titoli dell’attuale fase politica: spostamento a destra dell’asse politico del paese, rottura dell’unità sindacale, avanzata di un processo di frammentazione e di precarizzazione del lavoro, egemonia culturale del pensiero neo-liberista, protagonismo politico diretto della classe imprenditoriale, offuscamento e crisi delle grandi identità collettive, senso di impotenza e di smarrimento di fronte a una generale omologazione che rende indistinguibili e intercambiabili i linguaggi politici.

Il sindacato sta dentro questo contesto, e ne subisce inevitabilmente il condizionamento. Non c’è solo un problema di politica sindacale, di strategia rivendicativa. Il problema è il contesto politico culturale nel quale ci troviamo ad agire. Ecco allora il primo problema: il sindacato ha in sé la forza e la legittimazione per intervenire su questi dati di contesto, per forzarli, per tentare di mettere in moto una diversa dinamica?

Ciò significa discutere del concetto di autonomia. L’autonomia può essere la delimitazione delle diverse sfere di influenza, la separazione formalizzata del politico e del sociale, e in questo caso il sindacato agisce dentro un ambito ristretto, in quegli spazi circoscritti che sono lasciati liberi dal “primato della politica”. È questo modello di autonomia quello che si è cercato di imporre in questi anni, anche nell’ambito della sinistra. È la politica che deve guidare la modernizzazione del paese, senza intralci. Di qui la polemica contro il sindacato invadente, conservatore, corporativo. Il sindacato può essere autonomo solo nel quadro predeterminato delle compatibilità decise in sede politica. Partito e sindacato, quindi, agiscono su due diverse lunghezze d’onda: al primo spettano le scelte strategiche, al secondo la gestione degli effetti sociali. Se si accetta questo quadro, il contesto politico esterno diviene un dato immodificabile, senza nessuna possibilità di forzarlo in una direzione diversa.

Ma l’autonomia può essere pensata anche in un altro significato, come una sfida alla politica, come l’affermazione piena della soggettività del lavoro, senza sfere di competenza prefissate, senza primati, senza la codificazione di un “mestiere” sindacale. L’autonomia del mondo del lavoro si esprime come azione critica, per l’affermazione di una politica che sia socialmente decifrabile, facendo così valere le ragioni della rappresentanza contro quelle apparentemente neutre della governabilità. Non è autonomia dalla politica, ma nella politica. La definizione del sindacato come “soggetto politico” o ha questo significato, e se ne traggono tutte le conseguenze, o è solo una frase retorica che non produce nessun effetto concreto.

È chiaro che ciò determina un campo conflittuale, anche con la sinistra politica, soprattutto nel momento in cui essa sembra orientata a rimuovere il suo fondamento sociale.

Il sindacato, così, si propone di ridiscutere l’agenda politica, di cambiarne le priorità, di disegnare un nuovo quadro di compatibilità economiche e sociali.

Questo tipo di approccio può anche chiarire il controverso problema della concertazione. La concertazione è messa in discussione su due versanti: da chi pensa che il primato della politica non ammette patteggiamenti consociativi con gli interessi sociali organizzati, e da chi pensa che fazione sociale possa essere più efficace se è lasciata libera nella sua dinamica spontanea. Il risultato di questa convergenza, se essa dovesse prevalere, è una combinazione di dominio politico e di corporativizzazione del corpo sociale: un governo forte e qualche violenta fiammata di contestazione sociale, come spesso è accaduto di vedere nei paesi a debole insediamento sindacale. Non è una prospettiva accettabile. Se pensiamo che il lavoro non è solo una dimensione sociologica, ma deve aspirare ad essere il fondamento della politica, allora non si sfugge al nodo della concertazione, che è, nel suo significato generale, il punto necessario di incrocio tra politica e società. Se questo legame viene spezzato, è tutta la prospettiva politica che viene ributtata indietro.

È però verissimo che occorre una verifica critica puntuale dei modelli concertativi realizzati in questi anni e del loro esito sociale. Il punto centrale a me pare essere il seguente: la concertazione centralizzata, se non è sostenuta da un sistema diffuso di partecipazione dei lavoratori nell’insieme della vita economica, non fa altro che registrare e sanzionare i rapporti di forza esistenti. La concertazione “di vertice” non ha la forza di cambiare i dati profondi della realtà, e se nei rapporti sociali effettivi c’è un arretramento del lavoro, un indebolimento dei diritti e del potere contrattuale, tutto ciò non può non riflettersi sulla concertazione nazionale.

È quello che è accaduto in questi anni. I risultati sono limitati e spesso deludenti, non per un difetto in sé della concertazione, ma perché essa è rimasta confinata in una regolazione tutta di vertice, senza il sostegno di un movimento dal basso. La concertazione, dunque, fallisce se non c’è un contesto di democrazia economica nel paese, se non si sono costruiti modelli efficaci di partecipazione, nell’impresa e nel territorio.

La CGIL aveva tentato di elaborare una linea di “codeterminazione” nei luoghi di lavoro, ma poi questo tema è stato lasciato cadere e si sono realizzate ben poche esperienze significative. Io credo che si debba ripartire da qui, ripartire dal grande nodo della democrazia economica, evitando le illusorie fughe in avanti di una strategia sindacale tutta e solo conflittuale. Debbono essere esplorati tutti gli strumenti possibili di una concertazione dal basso, nell’impresa, nel territorio, nei diversi contesti economici, vanno individuati i primi obiettivi, i primi traguardi realizzabili, per un controllo sociale sull’organizzazione del lavoro e per una partecipazione dei lavoratori alle decisioni.

Se dunque dovessi indicare una priorità per il congresso della CGIL, metterei in primo piano questa esigenza di ricostruire una strategia sindacale dal basso, sperimentando nuovi modelli, nuove relazioni, nuove forme di partecipazione sociale. Questo spostamento del baricentro verso la regolazione sociale nel territorio implica certamente dei rischi, perché è un terreno complicato e scivoloso, ed è facile finire in qualche vicolo cieco. Ma è questo, io credo, il terreno obbligato del nostro lavoro nei prossimi anni, perché è la stessa struttura economica dei paese che non si lascia più racchiudere dentro un sistema uniforme e centralizzato di regole, e anche sotto il profilo istituzionale è ormai in marcia un processo di tipo federalista, che crea una pluralità di sedi decisionali, di modelli di governo, di possibili strumenti di concertazione. Di fronte a questi processi reali, il sindacato deve necessariamente rinnovare la propria strumentazione.

Si apre qui, su questo terreno, un confronto e anche una competizione con gli orientamenti attuali della CISL. La scelta della CISL, se è dato rintracciarne una ispirazione di fondo, è quella di insediare il sindacato nel cuore dei processi di innovazione, nel nuovo contesto della produzione flessibile; cercando di guadagnare in questo ambito uno spazio per l’azione sindacale, una sua legittimazione, pagando anche dei prezzi, accettando anche il terreno dell’estrema flessibilità e della precarizzazione del lavoro. Una linea, quindi, di estremo realismo e di grande spregiudicatezza, la qual però si traduce, anche perché condotta in un clima di contrapposizione strategica con la CGIL, in una pratica di sostanziale subalternità. Il sindacalismo confederale rischia così di dividersi tra due opzioni entrambe unilaterali ed inadeguate: la difesa di un modello di regolazione centralizzata, o l’accettazione subalterna di un criterio di flessibilità che travolge anche i diritti del lavoro e li consegna agli esiti incerti della competizione.

Ma questa alternativa non esaurisce il campo delle possibilità. È possibile aggredire i problemi dell’economia post-fordista con un diverso taglio politico, con un esercizio dell’autonomia, aziendale e territoriale che sappia contrastare la tendenza ad un comando unilaterale sull’organizzazione del lavoro. In questo senso, la vicenda della Zanussi è un segnale molto importante, perché dimostra che ci sono le risorse soggettive per un’azione di contrasto, che la partita può essere riaperta su nuove basi.

L’unità sindacale può essere ripensata e rilanciata a partire da questo terreno, da questo nodo di questioni. I gruppi dirigenti hanno mancato l’appuntamento dell’unità, e non sembrano oggi in grado di ritrovare le ragioni di una comune prospettiva, oltre le vecchie appartenenze. Ma nell’esperienza concreta dei lavoratori e delle loro rappresentanze il tema dell’unità ritorna e le divisioni si svelano per ciò che esse sono, incrostazioni politiche che sono esterne alla condizione reale del lavoro. Un’azione sindacale che riparte dal basso, dalle condizioni di lavoro, dai contenuti concreti del conflitto sociale, può essere in grado di riaprire anche il capitolo dell’unità. In ogni caso, noi non ci possiamo rassegnare, lasciando che si consumi, senza una reazione, la rottura dei rapporti unitari. Non può essere questa la scelta della CGIL, se non al prezzo di sconfessare tutta la sua storia.

Per tutte queste ragioni, il problema del congresso della CGIL non è il cambiamento della linea strategica generale, non è un atto traumatico di rottura e di ricambio dei gruppi dirigenti. Non ce la caviamo con facili e illusorie semplificazioni, come se si trattasse semplicemente di liberare il campo da un gruppo dirigente compromesso e di far ripartire il conflitto sociale. Se la discussione congressuale si svolge in questi termini, essa non sarà in grado di produrre nulla di nuovo e di vitale.

Il problema del congresso è quello di imprimere un nuovo senso di marcia all’azione sindacale, con una chiara scelta nella direzione dell’azione dal basso, perché stanno qui le ragioni profonde delle nostre difficoltà. Ciò comporta anche una revisione radicale dei modelli organizzativi, per valorizzare le strutture di base che agiscono nel contatto quotidiano con i lavoratori, e per ridimensionare l’infinita trafila burocratica degli “stati maggiori”, spesso interessati solo a difendere la loro legittimità e il loro status. Per dirla con una formula, il congresso della CGIL non ha il compito di fissare “la linea”, ma piuttosto di aprire un campo di sperimentazione e di ricerca. La definizione di una linea politica efficace sarà il risultato di un processo sociale, del quale ancora non possiamo valutare tutte le complesse implicazioni.

Ciò che oggi è decisivo non è l’ortodossia della linea politica, ma il processo reale. Altrimenti rischiamo, senza aver attivato le risorse per un nuovo movimento, di trasformare il congresso in un Concilio ecclesiastico che fissa il confine tra il fedele e l’eretico. E la situazione resta bloccata. Per scompaginare le carte di un sistema politico bloccato, dobbiamo anche scompaginare il nostro regime interno. E fare un congresso di verità, di confronto aperto, di ricerca, non di appartenenze e di fedeltà precostituite.



Numero progressivo: C31
Busta: 3
Estremi cronologici: 2000, 29 luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Il Manifesto”, 29 luglio 2000