CONGRESSO DELLA FEDERAZIONE MILANESE DEL PCI

Intervento di Riccardo Terzi

La costruzione di un “nuovo corso” politico richiede sempre un processo esplicito di rottura e di cambiamento, nel quale si rendano visibili i termini dello scontro politico, in modo che risulti chiaro quali siano i punti di resistenza e di conservazione che occorre battere.

Senza questo travaglio, assai difficilmente si può produrre una svolta che sia significativa.

Questo Congresso, dunque, se vuole davvero segnare una discontinuità, deve andare fino alle radici della nostra discussione politica, deve toccare anche i nervi più delicati, e mettere in chiaro le diversità, di analisi, di cultura e di proposta politica, che stanno dentro la realtà multiforme del partito.

Senza questa operazione di verità, il nuovo corso rischia di risolversi in un fatto esteriore, di immagine, e diviene a sua volta un nuovo rituale burocratico, un insieme di formule che sona preventivamente svuotate della loro efficacia.

Non possiamo certo inventarci un’opposizione politica, quando si tratta piuttosto di una sorda forza d’inerzia, che non sa, o non vuole, tradursi in una esplicata linea alternativa.

Ma possiamo, con estremo rigore, tirare tutte le conseguenze di un’analisi critica, e autocritica, di questo terribile decennio, nel quale processi politici, sociali, e culturali, di grande ampiezza, hanno sconvolto tutti gli equilibri precedenti, e hanno messo in questione le ragioni della sinistra, i suoi valori costitutivi, la sua forza di aggregazione sociale, mettendo in campo un progetto di egemonia che ha nella grande impresa capitalistica la sua forza motrice.

La linea di demarcazione del nostro dibattito interno sta forse qui, nella diversa valutazione che diamo circa la profondità di questo processo, circa la necessità o meno, quindi, di una drammatizzazione, di un aperto riconoscimento dell’esistenza di una crisi e dell’esaurimento di un ciclo politico.

Siamo davvero, a me pare, ad un passaggio critico che rende necessaria una generale innovazione di cultura politica e di strategia.

 

Il nostro problema non è di tattica politica, non è risolvibile nell’ambito della politica “pura”, dei rapporti tra i partiti e delle loro mutevoli alleanze, perché è in discussione l’intero rapporto tra politica a società, perché è ormai saltato il punto di compromesso tra democrazia e capitalismo che aveva caratterizzato tutto un lungo periodo storico, ed è il sistema politico in quanto tale che viene svuotato dall’insorgere dei nuovi poteri.

A Milano è più che mai visibile e trasparente questo mutamento, questa nuova dislocazione e gerarchia dei poteri.

Se ci riduciamo ad una lettura politica angusta, in cui si tratta solo dell’annosa questione dell’unità e della diversità rispetto al PSI, se insomma ci limitiamo a ripetere all’infinito l’antico insegnamento politico circa il valore delle alleanze, si sfugge il problema essenziale, ci sfugge il processo sociale complessivo che ha determinato le nostre sconfitte.

Rischiamo di fantasticare sulla “casa comune”, quando nella realtà va avanti un processo che ci colpisce nelle nostre radici, che sconvolge tutti i nostri tradizionali punti di forza.

Con l’indicazione strategica dell’alternativa, che per la prima volta viene assunta in modo chiaro, senza subordinate, senza l’affannosa e improduttiva ricerca di una qualche tappa intermedia, è chiaro l’orizzonte politico nel quale ci muoviamo.

È chiaro che il PCI non pensa di affidarsi ad un gioco politico equivoco e manovriero, ma concepisce la sua funzione come antagonista rispetto al sistema di potere democristiano.

Chi chiede più chiarezza su questo punto, che cosa chiede allora? Dove sta il dissenso?

Il fatto è che la strategia dell’alternativa, così come è configurata nei documenti congressuali, non ha solo una dimensione politica.

L’orizzonte è più vasto, in quanto si tratta non solo degli equilibri politici, ma dell’assetto sociale complessivo, e quindi l’alternativa è la ridefinizione di valori, di idee-forza, di progetti, in nome dei quali la sinistra non chiede di essere legittimata come forza di governo, ma pone la sua candidatura per un nuovo tipo di ordinamento politico.

In una società che tende a un processo generale di omologazione, di assorbimento delle diversità, di neutralizzazione del conflitto nell’ambito dalla politica come sistema di mediazione, è importante chiarire se la nostra funzione “di governo” sta inscritta in questo ordine, o se è altra cosa.

Non si tratta qui di ideologia, di astratte “fuoruscite”, di dogmatismi manichei.

Si tratta piuttosto del rapporto della politica con la società concreta, con i bisogni reali, con il vissuto quotidiano, con le contraddizioni sociali che agiscono nella moderna società capitalistica.

Si tratta di decidere se sta qui la nostra forza, la nostra legittimazione, se l’alternativa consista essenzialmente in questo processo sociale che tende a destabilizzare gli equilibri politici.

Non è un fatto scontato, se è vero che periodicamente vengono evocati i fantasmi del movimentismo e del radicalismo, se è vero che la stessa “criticità” verso il processo di modernizzazione è apparsa ad alcuni compagni come un cedimento ad antiche nostalgie.

Di tutto questo dobbiamo discutere, soprattutto qui, a Milano, dove i processi di modernizzazione sono più avanzati, e dove si misura, più apertamente cha altrove, il senso e la qualità della nostra politica.

Se il nuovo corso si presenta oggi come una necessità politica per tutto il partito, è Milano il luogo dove una svolta di cultura politica appare più chiaramente motivata, non solo per le responsabilità soggettive che ciascuno di noi può avere, e che pure dovranno essere criticamente valutate, ma soprattutto perché siamo nel mezzo di quello sconvolgimento sociale che ci costringe ad interrogarci sui nostri fini, guardando oltre la quotidianità di un’azione amministrativa ripiegata su se stessa.

Il problema è analogo, per il partito e per il sindacato, pur nella distinzione dei rispettivi ruoli. È un problema di progetto politico, di strategia, di cultura. La crisi del sindacato, che ha numerose ragioni di carattere interno, è anche crisi di un quadro di riferimento politico e ideale capace di dare un senso, una prospettiva, al conflitto sociale diffuso, che tende altrimenti a deviare verso esiti di tipo corporativo.

Nella società attuale, i processi di modernizzazione e di innovazione, che la logica capitalistica tende a inquadrare dentro un rigido modello di tipo autoritario, hanno anche l’effetto di liberare e stimolare nuove energie, nuovi bisogni di libertà e di realizzazione di sé, nuove occasioni quindi per un’azione politica organizzata, per un conflitto che non è solo economico, ma riguarda la distribuzione del potere, i processi decisionali, la possibilità di una democrazia più avanzata.

La democrazia, che è il filo conduttore di tutta l’analisi politica delle tesi, è il banco di prova su cui misuriamo la nostra coerenza.

Andando oltre ogni concezione liberal-democratica, poniamo la necessità che ogni struttura di potere possa essere ripensata e rimodellata alla luce delle istanze di una democrazia reale, che sia quindi spezzata la logica dei poteri separati, riconducendoli dentro un processo di controllo sociale.

Ma la credibilità di questa linea dipende dalla capacità del movimento operaio di assumere come proprio elemento costitutivo, con grande coerenza, gli obiettivi e le forme della democrazia.

Non possiamo proporci di democratizzare l’economia e il sistema delle imprese, se non cominciamo da noi stessi.

Questo è l’elemento essenziale di una possibile rifondazione del sindacato: la ricostruzione di un effettivo circuito democratico nel rapporto tra sindacato e lavoratori, il recupero di una reale rappresentatività sociale, la definizione di regole certe per l’esercizio della democrazia sindacale.

Non è una questione di metodo, ma è la condizione necessaria per attuare una strategia di articolazione e di intervento concreto sulle condizioni di lavoro.

Su questi temi stiamo lavorando, con risultati ancora incerti, ma comunque in un clima di maggiore fiducia.

Ma qui, in una sede politica quale è questa, non intendo soffermarmi nell’analisi dei problemi del sindacato.

 

Mi interessa piuttosto la relazione tra sindacato e politica. Mi interessa capire se il processo di innovazione che si è aperto nel PCI lo intendiamo anche come un processo di ricostruzione del nostro rapporto politico con i lavoratori, se ha ancora un senso pensare ad una politica “di classe”, ad una centralità del lavoro, ad un modello di partito che ha qui, nel mondo dal lavoro, le sue radici.

Questo segno di classe c’è stato, con molta forza, nella vicenda dei diritti alla Fiat, e nell’azione per la riforma fiscale. Noi recuperiamo prestigio politico nella stessa misura in cui sappiamo scegliere una chiara collocazione di campo, superando incertezze e tatticismi che troppo spesso hanno frenato e offuscato la nostra iniziativa, superando la politica come mediazione neutra, come governabilità fine a se stessa.

 

Torno a Milano, perché, ancora una volta, tutti questi nodi politici sono qui più evidenti, più visibili.

C’è stato, nella nostra organizzazione di partito, un travaglio, un confronto anche aspro, che dura ormai da molti anni.

Noi dobbiamo parlarne, o dobbiamo chiarire davanti al partito, davanti alla società milanese, i termini reali di questa discussione?

Con la stessa chiarezza che ho usato altre volte, assumendo posizioni critiche, spesso in solitudine, posso ora dichiarare il mio consenso convinto, e attivo, alla sforzo di rinnovamento che ha intrapreso il nuovo gruppo dirigente della Federazione, e che nella relazione al Congresso ha assunto chiare motivazioni politiche. Nella recente vicenda della Federazione, e del suo gruppo dirigente, non si è trattato di un normale avvicendamento, di un ricambio fisiologico, ma di un difficile processo di chiarificazione politica, nel quale erano in questione sia problemi di linea politica, di concezione strategica, sia anche, in una misura non meno rilevante, problemi di concezione del partito, della sua democrazia interna, del suo stile di direzione.

A un certo punto la nostra democrazia si è inceppata, creando un clima pesante di sospetto, e riducendo le funzioni di direzione a funzioni di comando.

Ora, in un quadro che è mutato, sia a livello milanese sia a livello nazionale, avvertiamo nel partito, nel suo corpo vivo, una ripresa di fiducia, di volontà. È un fatto indubbiamente positivo.

Ma se vogliamo che questa crescita non sia effimera, che dia risultati, una riflessione più approfondita va fatta sul partito, sulla sua organizzazione, sul suo regime interno. Una riforma è indispensabile.

Non accontentiamoci di questi primi segni di miglioramento. Dobbiamo procedere con grande coraggio e spirito innovativo ad un progetto di rinnovamento democratico del partito. Guardiamoci, compagni, dal “buon senso”, dalla spirito di prudenza, che collima con lo spirito di conservazione.

Facciamo sì che si tratti davvero di un nuovo corso, di una nuova stagione, di un’impresa politica nuova a cui ciascuno di noi possa dare liberamente il contributo di una passione politica che non ha più bisogno di calcoli, di opportunismi, di autocensure.

Se sarà così, avremo un futuro.



Numero progressivo: F27
Busta: 6
Estremi cronologici: [1989?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -