FARE LE RIFORME

Una nuova fase dell’iniziativa per la realizzazione del federalismo a costituzione invariata
Convegno CGIL - 27 marzo 2000

Intervento di Riccardo Terzi – Responsabile Ufficio riforme istituzionali CGIL

La riforma amministrativa, avviata con le leggi Bassanini, ha bisogno di essere rilanciata, di essere perseguita con grande determinazione e coerenza, per piegare le innumerevoli resistenze che la intralciano. La posizione della CGIL è sempre stata, su questo punto, assolutamente chiara, e ha costituito un elemento di grande importanza il fatto che all’interno del lavoro pubblico un’organizzazione sindacale si sia mobilitata a sostegno degli obiettivi della riforma e che, su questa linea, abbia saputo allargare i propri consensi.

Di fronte al tentativo della Commissione bicamerale di ridisegnare la cornice costituzionale abbiamo espresso non poche riserve circa l’impianto che stava prendendo forma, teso essenzialmente a un rafforzamento dei poteri centrali di regolazione politica, secondo un’ispirazione presidenzialista e decisionista basata sull’ipotesi che la crisi dello Stato nasce da un deficit di autorità.

La crisi, a nostro giudizio, ha il suo fondamento nel rapporto tra società e istituzioni, nel fatto cioè che le istituzioni rispondono sempre più debolmente e faticosamente alla domanda sociale, chiuse in una loro logica burocratica e autoreferenziale che non entra in comunicazione con la dinamica reale del paese. Ciò che manca non è l’autorità, ma la sua legittimazione fondata sul consenso; non è il potere decisionale, ma la sua efficacia in rapporto ai processi sociali. Per questo è cruciale la riforma amministrativa, ed è prioritario intervenire sui punti concreti di intersezione tra Stato e società civile, laddove è messo in gioco l’intero rapporto di fiducia tra sistema politico e cittadini.

L’operazione da realizzare è assai complessa, e si può sintetizzare indicando tre movimenti fondamentali. Il primo consiste nel trasferimento di competenze e di risorse dal centro alla periferia, realizzando un complessivo decentramento dello Stato che valorizzi tutta la rete delle autonomie locali. Il secondo movimento è la semplificazione amministrativa: delegificazione, riduzione al minimo necessario delle procedure burocratiche e delle autorizzazioni, alleggerimento dell’intervento pubblico nei molti campi in cui non si giustifica una sua preminenza rispetto all’iniziativa dei privati. Infine occorre un movimento concertativo, attraverso il quale le organizzazioni rappresentative della società possono essere associate alla definizione degli obiettivi, dei progetti, delle politiche, lungo una linea di dialogo tra istituzioni e società.

Il federalismo è la risultante di questi tre processi: decentramento, semplificazione, concertazione sociale. Solo l’azione congiunta e convergente in queste tre direzioni può ottenere il risultato di cambiare davvero, in profondità, l’amministrazione dello Stato. Nel dibattito politico l’attenzione è concentrata essenzialmente sul primo punto, e spesso accade che il sistema delle autonomie, anziché agire unitariamente come una forza di cambiamento, si divida in una disputa corporativa per l’assegnazione delle competenze e delle risorse. Così non si forma un «sistema» delle autonomie, integrato e guidato da una comune visione degli obiettivi della riforma ma, al contrario, la burocratizzazione dello Stato centrale si trasferisce ai livelli periferici, con la medesima logica, dando luogo a una guerra tra burocrazie dalla quale lo Stato non può uscire riformato, ma ancor più sclerotizzato e distante dalla società civile. È questo il rischio incombente al quale siamo pericolosamente esposti.

Il federalismo, se è concepito solo come un movimento di trasferimenti dal centro alla periferia, senza cambiare la logica, la ratio, dell’amministrazione, sarà un fallimento drammatico. Sarebbe bene che di ciò si discutesse nell’imminenza delle elezioni regionali, per disegnare il nuovo ruolo delle Regioni nel processo di riforma dello Stato. Ma forse si pensa che con l’elezione diretta del presidente e con l’individuazione azzeccata di un candidato vincente il problema sia risolto. Si riproduce cioè, a livello regionale, la medesima logica decisionista, la verticalizzazione del potere, la politica concepita solo come legittimazione di una leadership e non come la rete democratica che istituisce una comunità autoregolata.

Contro questo possibile esito della riforma federalista, che darebbe luogo a un sistema di feudi politici, con le loro relative burocrazie di supporto, occorre attivare tutti i necessari contrappesi. Tra questi ha un ruolo sicuramente rilevante il tema della concertazione sociale nel territorio, tema non ancora sufficientemente esplorato. Se concepiamo il federalismo come un processo che si costruisce dal basso, come lo sforzo di autoregolazione della comunità territoriale, è evidente allora che esso non riguarda solo le istituzioni politiche ma riguarda altrettanto i comportamenti dei soggetti collettivi, degli attori sociali di quella comunità. È tutto un tessuto di relazioni sociali che deve essere organizzato, in una logica diversa da quella della centralizzazione e della dipendenza gerarchica da un unico centro regolatore.

È proprio questo che finora è mancato e che ha reso asfittica e burocratica l’esperienza del regionalismo in Italia: perché si è costituita l’istituzione Regione, ma non si è costituito parallelamente un sistema regionale. I partiti regionali sono solo i terminali organizzativi dei partiti nazionali, senza cultura autonoma e senza classe dirigente, con un personale politico che è solo «di passaggio», in attesa di fare il salto verso la capitale della politica. Anche le organizzazioni sociali si sono modellate secondo uno schema centralistico, lasciando solo degli spazi del tutto marginali alla sperimentazione locale.

Il centralismo si regge sulla diffidenza aprioristica verso l’autonomia locale. Le organizzazioni centrali sono i garanti dell’interesse generale e della coesione nazionale e perciò, sulla base di questo assunto ideologico, è necessario realizzare un modello uniforme, centralmente disciplinato e garantito, con un’autonomia solo di gestione e di applicazione. Anche la concertazione, quindi, è stata sperimentata solo nella sua dimensione centrale, come un patto tra le grandi organizzazioni nazionali. In queste condizioni il progetto federalista non può decollare, perché non ha alcun tessuto sociale nel quale radicarsi. Diviene, per forza di cose, un’operazione solo burocratico-amministrativa. Questa analisi critica riguarda anche il sindacalismo confederale e riguarda la CGIL. Non avrebbe alcun senso appoggiare la riforma amministrativa senza aprire, contestualmente, un discorso altrettanto coerente e determinato sulla possibile riforma del sindacato.

La combinazione di un decentramento solo amministrativo e di una permanenza di centralizzazione nelle relazioni sociali è forse la combinazione peggiore che si possa escogitare, perché così non si ricostruisce il rapporto società-istituzioni, ma al contrario si determina una definitiva divaricazione. Il federalismo può vivere se il territorio, nella sua autonomia, è il luogo fondamentale della regolazione politica e sociale. Se non siamo disposti a percorrere questa strada fino in fondo, con coerenza, è meglio lasciar perdere perché, come la storia insegna, non c’è nulla di peggio delle rivoluzioni lasciate a metà.

La concertazione – che può assumere diverse forme e diversi modelli – è il punto d’incontro tra decisione politica e rappresentanza sociale. È quindi una funzione-chiave nell’organizzazione del sistema democratico, essendo un deterrente sia nei confronti di un decisionismo politico di segno autoritario, che rifiuta la verifica del consenso, sia nei confronti di un corporativismo degli interessi che non si misura con le esigenze generali del paese. C’è sempre un rapporto tra questi due estremi: il cesarismo ha come suo contrappasso la corporativizzazione del corpo sociale. E rischiano di essere questi i tratti della nuova Repubblica: politica personalizzata e leaderistica, dinamiche corporative ormai fuori controllo.

La concertazione è dunque, nella sua essenza, l’opera necessaria di mediazione tra la decisione politica e gli interessi legittimi che compongono la società nella sua articolazione pluralistica. È solo uno strumento o una strategia? Mi sembra questa una disputa nominalistica di nessuna utilità. Possiamo più semplicemente dire che è una condizione necessaria, certo non sufficiente in sé, e non garantita a priori sulla validità degli accordi sottoscritti; è una pratica politica che può dare buoni o cattivi risultati, ma senza questa pratica il risultato certo è la decomposizione della coesione sociale.

Come si può inserire la pratica della concertazione nell’assetto istituzionale, in un assetto istituzionale riformato in senso federalista? Credo che non sia utile, almeno in questa fase, la definizione rigida di istituti e di normative. Dobbiamo cioè evitare un eccesso di istituzionalizzazione. Quando si è percorsa questa strada, pensando di dare forza vincolante alla concertazione, si sono spesso creati solo degli organismi privi di vitalità propria, depotenziati, costretti dentro i binari rigidi di un’istituzione formale che riproduce in sé i difetti del sistema politico.

Non è affatto necessario che tutto debba essere istituzionalizzato, formalizzato, regolato. Le esperienze più vive e produttive si costruiscono fuori dal reticolo istituzionale, con l’iniziativa e il protagonismo dei soggetti sociali, i quali trovano, di volta in volta, i canali e gli strumenti più efficaci, gli interlocutori e le sedi di confronto più idonee. C’è già troppo formalismo giuridico, l’apporto delle forze sociali non può essere la richiesta di un sovrappiù di formalizzazione, ma può agire, al contrario, verso forme più flessibili di regolazione politica. In questo senso non sarebbe stato né utile né opportuno sancire la concertazione nel nuovo progetto costituzionale, come aveva richiesto la CISL, non per un dissenso di strategia politica ma perché questa strategia, per affermarsi ed espandersi, ha bisogno non di essere irrigidita dentro norme giuridiche ma di essere esplorata liberamente in tutte le sue potenzialità.

Questa linea di flessibilità è necessaria perché, a seconda delle materie che vengono affrontate, cambiano i soggetti che è necessario coinvolgere e cambia anche l’ambito territoriale di riferimento. Recentemente, in un convegno a Torino, la CGIL si è occupata del problema delle aree metropolitane, cercando di individuare una linea operativa che, indipendentemente dagli assetti istituzionali, consenta di attivare una programmazione concertata, condivisa, con il contributo attivo delle forze sociali e delle competenze scientifiche. Nelle grandi aree urbane è più evidente l’urgenza di un intervento programmatorio, che sia costruito con il consenso sociale. Ma la medesima metodologia concertativa ha una valenza più generale. Il territorio, che sia metropolitano o no, è il luogo nel quale realizzare politiche di sviluppo e di coesione sociale, dentro il nuovo orizzonte dell’economia globalizzata. Il sindacato deve spostare qui il baricentro della sua iniziativa, con una duplice operazione di riforma interna, dall’impresa al territorio e dal centro alla periferia. E nel territorio occorre considerare tutta la complessa rete delle istituzioni locali: non solo le articolazioni del sistema politico-istituzionale, ma la nuova rete «funzionale» delle Camere di commercio, delle fondazioni bancarie, delle agenzie per lo sviluppo, dei grandi servizi collettivi, pubblici o privati. II che richiede una metodologia complessa e articolata e una straordinaria capacità e disponibilità di tutti i soggetti ad agire in una logica di «sistema».

La programmazione condivisa può essere il risultato non di una norma di legge, ma di un processo nel quale entrano diversi attori, ciascuno con la sua autonoma sfera d’intervento. Al potere politico chiediamo di essere il regista di questa strategia concertativa. Alle nuove Regioni, quindi, chiediamo questo salto di cultura politica, di essere non la riproduzione di un potere verticistico ma il sostegno a un governo «allargato», aperto alla partecipazione sociale, capace di corresponsabilizzare tutti i soggetti rappresentativi della società, nella ricchezza delle sue interne articolazioni, sociali, economiche, culturali.

Ma questa svolta nei metodi di governo non sarà certo il frutto di un’elargizione dall’alto, della lungimiranza di qualche governante illuminato. Può essere solo il risultato di un’azione sociale.

In questo senso il sindacato deve sentirsi impegnato non solo a sostenere dall’esterno l’azione riformatrice avviata dal governo ma a mettersi direttamente in gioco come un protagonista di una nuova stagione politica che è tutta da costruire, a partire dall’autonomia delle diverse realtà territoriali. Questo è, d’altra parte, il senso dell’azione riformatrice avviata. II governo intende aprire nuovi spazi di autonomia, i quali dovranno essere utilizzati, se ne sono capaci, dagli attori locali. Il passaggio è dall’assistenzialismo alla responsabilizzazione. Lo Stato interviene non imponendo dall’alto le sue scelte, ma a sostegno della progettazione locale. E a questo punto tutta la partita politica si sposta nelle realtà territoriali, e lì si misura la qualità del nostro lavoro. Lì si misura la possibilità di una vera riforma federalista dello Stato, la quale non può nascere per decreto, ma solo se c’è un sistema sociale che sia capace di autoregolarsi, di decidere in autonomia gli obiettivi, l’uso delle risorse, la qualità delle relazioni sociali, le politiche di sviluppo e di coesione. Fuori da questo contesto c’è solo la vecchia logica burocratica, che rischia di riprodursi su scala allargata anche nel passaggio di poteri dal centro alla periferia.

Molto quindi dipende anche da noi, ed è giunto il momento di una discussione politica che metta in chiaro tutte le implicazioni complesse che la prospettiva federalista determina per il sindacato, per le sue politiche rivendicative e contrattuali e per le sue forme organizzative.



Numero progressivo: C15
Busta: 3
Estremi cronologici: 2000, 27 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -