DEMOCRAZIA ECONOMICA E DEMOCRAZIA INDUSTRIALE: IL RUOLO DEL SINDACATO

INDICE
Presentazione di Umberto Curi (Università di Padova, Direttore dell’Istituto Gramsci Veneto), Egidio Pasetto (Segretario Regionale CGIL Veneto)
Il sindacato generale – Introduzione, di Egidio Pasetto
Lavoro e impresa: gli spazi del post-fordismo, di Enzo Rullani (Università di Udine)
Sindacato e riforme istituzionali, di Riccardo Terzi (Segretario Generale CGIL – Lombardia)
Sindacato e solidarietà, di Luigi Viviani (Segretario Generale CISL-Veneto)
Democrazia economica e democrazia industriale, di Giuseppe Pat (Segretario Generale Aggiunto FILT-CGIL Veneto)
Il futuro della democrazia economica, di Mimmo Carrieri (Centro per la Riforma dello Stato – Roma)
Alcune caratteristiche della ristrutturazione degli anni ‘80, di Laura Pennacchi (Direttore CeSPE, Centro Studi di Politica Economica – Roma)
Democrazia industriale, democrazia economica e disciplina di impresa e società, di Maurizio De Acutis (Università di Padova)
La democrazia economica ed industriale: congetture costituzionali, di Maurizio Pedrazza Gorlero (Università di Verona)

SINDACATO E RIFORME ISTITUZIONALI
di Riccardo Terzi

Assumo come punto di partenza il concetto di “sindacato generale”, nell’accezione usata da Trentin alla Conferenza di Chianciano della Cgil: sindacato generale in quanto si propone di rappresentare l’interesse complessivo del mondo del lavoro, il che vale a dire “sindacato di classe”.

Il concetto non è nuovo, nuova è la complessità del problema, per la crescente differenziazione del mondo del lavoro e per l’esistenza di forti spinte corporative.

Dire oggi sindacato di classe può essere quindi un’enunciazione vuota, di tipo ideologico, O può essere l’espressione di una concezione di tipo autoritario e dirigistico, che pretende di annullare le differenze e di far valere l’autorità di un gruppo dirigente che si autoproclama rappresentante dell’interesse generale. Nell’enfasi polemica contro i corporativismi spesso c’è solo la volontà di autoconservazione della burocrazia sindacale.

Il carattere “generale” dell’organizzazione sindacale non può quindi essere un presupposto, ma solo il risultato di un processo democratico e consensuale, e questa è appunto la difficoltà nuova che sta davanti al movimento sindacale.

La costruzione democratica dell’unità dei lavoratori è un processo politico di estrema difficoltà, ma è l’unica via per superare davvero il corporativismo, che non sarà battuto con atti d’autorità, ma con un progetto politico capace di realizzare una sintesi dei diversi interessi in campo.

Un’analoga problematica è messa in campo dalla definizione del sindacato come “autonomo soggetto politico”, che sembra ormai essere largamente acquisita, e anche abusata, ma di cui si tratta di valutare fino in fondo tutte le complesse implicazioni.

In questione c’è il rapporto con il sistema politico e con il quadro istituzionale. E si tratta di un rapporto travagliato e sofferto, nel quale, nonostante le numerose dichiarazioni di principio a sostegno dell’autonomia sindacale, siamo ancora nella pratica assai lontani dall’obiettivo dichiarato.

Il rapporto tra partito e sindacato è stato concepito, nella tradizione comunista come in quella socialdemocratica, come un rapporto strutturato gerarchicamente, in base al principio del primato della politica. Ne viene una delimitazione degli ambiti di competenza, secondo la quale il sindacato non va oltre la rappresentanza “corporativa” degli interessi.

Ancora questo è il modello prevalente nei paesi europei: l’autonomia è relativa, funziona solo in un ambito delimitato, oltre la quale c’è il rinvio alle responsabilità politiche del partito. Il limite di questo modello è nel rischio permanente di travisamento delle finalità autonome del sindacato. di asservimento alle logiche partitiche, e conseguentemente di burocratizzazione.

Nel panorama mondiale ci sono numerosissimi esempi di un tale processo: sindacati di regime, istituzionalizzati, subalterni.

L’affermazione dell’autonomia non è dunque affatto un’operazione semplice, scontata, ma implica una rottura con una prassi consolidata di collateralismo.

Il sindacato è soggetto politico se afferma radicalmente la propria autonomia di classe, se tiene aperta una permanente tensione dialettica con il sistema politico.

Nell’esperienza italiana il progetto di autonomia, che è stato annunciato dalle organizzazioni sindacali, appare ancora incompiuto. Non è stata certo sufficiente l’adozione delle misure di incompatibilità, che ha avuto effetti contraddittori. Per un verso essa ha contribuito sicuramente a salvaguardare l’autonomia del sindacato, ma per un altro verso ha allargato la discrezionalità dei partiti e ha diminuito il peso politico del mondo del lavoro, anche all’interno dei partiti della sinistra.

Mi sembra ormai matura una revisione di queste norme, confermando la più rigorosa incompatibilità con i ruoli di carattere istituzionale, ma restituendo ai lavoratori e ai dirigenti sindacali pieni diritti politici nella vita dei partiti.

Ma è evidente che non si tratta solo di regole, che si tratta di un’operazione più profonda, essendo necessaria la formazione di una cultura sindacale e di gruppi dirigenti che siano capaci di reggere il confronto, e anche il conflitto, con il sistema dei partiti.

In questo quadro, ha grande rilievo la prospettiva di scioglimento delle correnti partitiche nella Cgil, non solo perché le correnti sono lo strumento di un possibile controllo dei partiti sulla vita del sindacato, ma soprattutto perché con questo cambiamento del regime interno della Cgil possono finalmente maturare le condizioni per l’elaborazione di un progetto autonomo.

Il secondo necessario requisito per un sindacato che si candidi ad essere soggetto politico è l’assunzione esplicita di una responsabilità politico-istituzionale. In questo senso va superata la tradizionale contrapposizione tra sindacato-movimento e sindacato-istituzione, che ha avuto tanta parte nella cultura del sindacalismo italiano. Una concezione “movimentista” del sindacato appare oggi come un limite, come l’effetto ritardato di una particolare situazione storica che si è dissolta e di cui non esistono più le condizioni. Essa affida la prospettiva del movimento sindacale solo ad una “spinta dal basso”, la cui esistenza oggi è quanto meno problematica, e soprattutto è di ostacolo all’assunzione di una funzione politica, la quale è possibile solo in quanto il sindacato si riconosce come una istituzione, di cui vanno definiti ruoli, responsabilità, regole di rappresentanza.

Abbiamo alle spalle una tradizione anti-istituzionale, che ha permeato sia il sindacalismo di sinistra sia quello cattolico. Secondo questa tradizione, contano esclusivamente i rapporti di forza che si stabiliscono tra le parti sociali, i quali rifiutano qualsiasi interferenza esterna, e quindi escludono ogni forma di regolazione politica e legislativa del conflitto.

Rispetto a questa tradizione, mi sembra oggi necessaria una esplicita inversione di tendenza, il che comporla la capacità di affrontare i nodi che oggi sono aperti in un’ottica non tradizionale, considerando il ruolo del sindacato come un elemento essenziale dell’ordinamento democratico.

Il problema della rappresentanza non è risolvibile se non lo si affronta come un problema politico-istituzionale, che riguarda diritti fondamentali dei lavoratori, e che richiede certezze anche sotto il profilo legislativo.

Un problema analogo si pone per quanto riguarda il modello contrattuale: se ci si affida solo ai rapporti di forza finisce inevitabilmente per accentuarsi il divario tra aree forti e tutelate e aree deboli e senza diritti, si rafforzano cioè le tendenze in atto verso una frantumazione corporativa del mondo del lavoro, mentre l’esigenza primaria è la ricomposizione di un quadro unitario che garantisca diritti eguali a tutti i lavoratori, delle piccole e delle grandi imprese, del settore pubblico e di quello privato. Si ripresentano così esigenze normative di carattere politico, come quelle che si sono cominciate ad affrontare con la legge per le piccole imprese, e quelle ormai ineludibili che riguardano la riforma del rapporto di lavoro nel pubblico impiego.

Più in generale, un modello contrattuale moderno richiede la definizione chiara di regole, non per eliminare il conflitto sociale che resta un dato strutturale ineliminabile, ma per canalizzare il conflitto dentro un sistema condiviso di regole e per favorire gli elementi di possibile cooperazione tra le parti, con un riconoscimento del ruolo autonomo che il sindacato deve poter svolgere nel quadro di nuove relazioni industriali.

L’evoluzione delle relazioni industriali è un capitolo fondamentale del nuovo assetto istituzionale che occorre costruire, della riforma democratica dello stato. In questo contesto va affrontato il problema dell’attuazione del dettato costituzionale, per quanto riguarda sia le regole della rappresentanza, sia i diritti di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese.

Il sindacato, quindi, può avere una sua autonoma funzione nel dibattito sulle riforme istituzionali, e non può restare neutrale e passivo, perché è aperta ormai una discussione di fondo sui caratteri della “seconda Repubblica”, dal cui esito dipenderanno i futuri equilibri politici e sociali.

Con quali criteri, con quale metro di giudizio, il sindacato può intervenire nel dibattito istituzionale, restando coerente con la propria specifica vocazione?

La crisi della rappresentanza ha assunto una dimensione assai ampia, ed investe non solo le istituzioni politiche ma anche le strutture rappresentative della società civile. Ciò è l’effetto dei processi sociali di frantumazione corporativa, e della nuova dislocazione dei poteri sempre più orientata verso una struttura di tipo oligarchico con la centralizzazione delle decisioni strategiche nelle mani di ristretti gruppi di potere sovranazionali.

Si sono così bloccati i canali di comunicazione tra società e politica: c’è una perdita di efficacia delle istituzioni politiche, una crisi degli istituti di sovranità popolare, e parallelamente un insieme di processi disgreganti di tipo localistico o lobbystico, e l’affermazione di poteri irresponsabili, sottratti a qualsiasi controllo democratico e sociale.

Il problema politico essenziale è la ricostruzione di un efficace canale di comunicazione dal sociale al politico: senza questa comunicazione, la sinistra è impotente, chiusa nell’ambito angusto di un rivendicazionismo difensivo e protestatario.

Il nodo istituzionale è quindi un problema chiave per la sinistra e per tutte le forze riformatrici.

II tipo di approccio ai problemi istituzionali che è stato prevalente negli anni ‘70 va oggi riesaminato criticamente.

È prevalsa allora la ricerca di strumenti di democrazia dal basso (nei quartieri, nella scuola, nei servizi pubblici), i quali si sono rivelati del tutto inadeguati rispetto ai grandi processi di ristrutturazione dell’economia, e alla fine si sono ridotti ad un esercizio vuoto, senza potere reale.

Per questo occorre oggi partire dai grandi nodi istituzionali, dall’ organizzazione dei poteri nella loro dimensione alta, al livello nazionale e al livello sovranazionale.

Essenziale è la costruzione dell’Europa politica, che agisca come efficace contrappeso all’Europa economica guidata dalle grandi concentrazioni capitalistiche.

Ed essenziale è la questione dei meccanismi democratici che consentano efficacemente ai cittadini di esercitare un’influenza diretta sugli schieramenti di governo e sui programmi.

È il tema della riforma elettorale, che può prevedere un ventaglio ampio di diverse possibili soluzioni tecniche, alla condizione che siano chiare le finalità fondamentali, che in ultima istanza consistono in una riappropriazione di potere democratico reale da parte dei cittadini, riducendo i margini di manovra, di ambiguità, e quindi di irresponsabilità, che oggi consentono ai partiti di consumare un gioco politico non trasparente.

Un altro essenziale aspetto della riforma democratica dello stato è il decentramento della macchina statale, la rottura delle grandi strutture burocratiche centralizzate, e quindi la ridefinizione del rapporto tra poteri centrali e poteri decentrati in una linea di effettivo regionalismo.

Il livello regionale deve uscire dall’attuale situazione di autonomia incompiuta, che riduce le Regioni ad essere solo i terminali burocratici dello stato centrale e deve costituirsi come un livello politico capace di ricostituire un processo reale di controllo sociale e democratico sulle finalità dello sviluppo, sull’uso delle risorse, sull’organizzazione dei pubblici servizi, sulle politiche dell’ambiente. Anche per questa via il movimento sindacale e le organizzazioni sociali possono riacquistare un ruolo politico, in quanto si confrontano a livello locale con istituzioni dotate di poteri effettivi.

Il nocciolo duro di un disegno di democratizzazione dello Stato e della società è quello dell’organizzazione economica, della possibile riforma democratica dei poteri economici e dell’impresa.

Dobbiamo impegnarci per una proposta politica concreta e praticabile, che definisca nuove regole di partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, e che insieme riconosca le esigenze di un’autonoma responsabilità imprenditoriale.

Occorre cioè un nuovo equilibrio di cooperazione e di conflitto, riconoscendo l’esistenza nell’impresa di diversi soggetti, portatori di diverse e legittime esigenze, che richiedono strumenti efficaci di mediazione.

In tutta questa ampia discussione sugli aspetti istituzionali e sulle loro riforme il sindacato può intervenire, sapendo di rappresentare una parte, ma pretendendo anche di essere un interlocutore riconosciuto. L’ambizione di costituirsi come “soggetto politico” non significa confusione dei ruoli. o forme di consociativismo improprio.

Ci confrontiamo con le istituzioni politiche e con le controparti economiche sulla base dell’autonomia del nostro ruolo in quanto espressione di determinati interessi sociali.

Questa distinzione dei ruoli è in ogni caso indispensabile, è una condizione di correttezza, di efficienza, di trasparenza. Ed è con questo criterio che va affrontato tutto il problema della pubblica amministrazione. per ristabilire corrette relazioni sindacali e per superare forme ambigue o perverse di coinvolgimento improprio del sindacato nelle responsabilità di gestione. e di invadenza dei partiti, con i noti effetti di lottizzazione clientelare e di generale inefficienza.

Sul tema della riforma della pubblica amministrazione bisognerà concentrare il massimo impegno, perché questo è il primo e indispensabile anello di una riforma istituzionale che riesca davvero ad incidere sul funzionamento materiale della macchina dello Stato in tutte le sue articolazioni.

In conclusione, abbiamo bisogno di un orizzonte più ampio rispetto a quello che sembra oggi prevalente, e che si limita all’obiettivo della governabilità, affidato solo ad una maggiore stabilità dell’esecutivo.

Occorre intervenire contestualmente sui due versanti, quello della efficacia della decisione politica e quello della trasparenza democratica dei processi decisionali.

II rafforzamento dell’esecutivo non è un obiettivo che possa essere affrontato isolatamente, ma esso implica un insieme di nuove garanzie democratiche, per un esercizio pieno dei diritti di cittadinanza politica, contro le suggestioni di tipo tecnocratico-autoritario. Ecco allora il tema dei referendum, e il tema dell’informazione, nodo delicatissimo e vitale per un esercizio libero della democrazia.

In sostanza è il rapporto tra politica e società che deve essere affrontato in tutta la sua ampiezza, nei suoi aspetti politici, amministrativi, economici, sociali e culturali.

Sulla base di una impostazione di questo tipo, il sindacato non solo può assumere una sua propria posizione politica, ma può tentare di costruire un’azione vertenziale, di tradurre cioè questa posizione politica generale nella definizione di concrete e parziali piattaforme e di movimenti finalizzati a singoli obiettivi di riforma, analizzando il concreto funzionamento della macchina dello Stato nelle singole diverse situazioni e l’articolazione effettiva dei poteri nella realtà economica e sociale.

Così il riformismo può diventare una prassi efficace, e non solo, come spesso avviene, una scatola vuota, una nuova mistificazione ideologica che non lascia traccia nella realtà dei rapporti sociali. Per il sindacato, più che per qualsiasi altro soggetto, è indispensabile una continua verifica pratica, e una rigorosa coerenza tra le parole e i fatti, tra gli obiettivi dichiarati e i comportamenti reali.


Numero progressivo: V39
Busta: 48
Estremi cronologici: 1992
Autore: Umberto Curi, Egidio Passetto (a cura di)
Descrizione fisica: Volume, b/n, 145 pp.
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, n. 12 1992