DOBBIAMO RINNOVARCI

È una battaglia aperta nessuno si chiami fuori

di Riccardo Terzi

La «rettifica dei nomi» era il programma filosofico di Confucio: mettere ordine nelle parole per ristabilire l’ordine delle cose. È l’eterna aspirazione delle burocrazie, che considerano i fatti sociali alla stregua delle pratiche d’archivio. Cosi, nell’attuale discussione sui destini del PCI e del comunismo, il ragionamento burocratico confuciano si riduce a questa ovvietà: il comunismo non esiste e quindi deve scomparire anche la parola. Sull’opposto versante, c’è il simbolismo metafisico che assegna alla parola il ruolo salvifico, perché la realtà non ha valore in se stessa, ma solo in quanto si rispecchia nell’ideologia.

È questo circolo vizioso che va spezzato. Se stiamo fermi alla questione del nome non avremo una discussione politica, ma una disputa tra burocrati e mistici, il cui esito non può che essere distruttivo. Al di là dei nominalismi, sta il fatto che il PCI deve rinnovarsi, con grande velocità, perché tutta la situazione è in movimento, perché siamo in presenza di novità sconvolgenti che reclamano un nuovo bisogno di teoria e che rendono ormai inutilizzabili le antiche certezze.

Non è il fallimento della nostra storia politica, e quindi la resa alle ragioni degli altri. È un processo che sposta in avanti, per tutti, i termini della discussione e della lotta politica. Il cambiamento che dobbiamo operare, quindi, non può consistere nell’accettazione postuma delle ideologie che sono state fin qui dominanti nelle società dell’occidente capitalistico, perché anch’esse sono ormai travolte, o sopravvivono ormai solo come supporto e legittimazione dell’esistente. Il PCI, in questa situazione nuova, rischia di chiudersi in una guerra di trincea, che ne logora la vitalità e la forza d’attrazione. Questa situazione di stallo non può essere più a lungo sopportata. Con il “nuovo corso” abbiamo cominciato a porci il problema della costruzione di una nuova figura storica, di un nuovo profilo politico e teorico della sinistra. A questo punto, per decidere il senso di marcia della nostra iniziativa futura, si pongono questioni essenziali di identità, di “ideologia”, perché non vive una grande organizzazione di massa senza idealità collettive, senza un “senso di appartenenza” capace di cementare diverse storie personali.

Verso dove? Questo è il quesito che deve essere chiarito, con il massimo di rigore. La diffidenza nel partito, del tutto legittima, è verso ipotesi di omologazione e di subalternità, è verso quel particolare impasto di burocratismo e di pragmatismo cinico che viene comunemente definito “migliorismo”. Se non intervengono i necessari chiarimenti, questo rischia davvero di essere l’esito politico di un’operazione più arrischiata che coraggiosa. Se è così, hanno ragione quanti dicono di no. Non per emotività, come si tende a dire sbrigativamente, ma per una intuizione politica che misura con freddezza i risultati possibili di un processo di rinnovamento avviato ancora troppo alla cieca, con troppe ambiguità non risolte. Il punto non è l’apertura di una iniziativa unitaria verso il PSI, ma il modo e il senso di tale iniziativa. Può essere un fatto nuovo, o può essere un episodio di trasformismo deteriore, dettato solo da una logica di potere. E, più in profondità, occorre avere chiaro che il problema che oggi abbiamo di fronte non si esaurisce negli orizzonti ristretti della “politica pura”, che il cambiamento riguarda il nostro rapporto con la società, la nostra capacità di organizzare le istanze più profonde e diffuse, e spesso solo potenziali e sommerse, di liberazione, di affermazione di nuovi diritti, di nuova dislocazione dei poteri. Senza questo cammino nella società, nel vivo dei suoi conflitti, nel vissuto concreto degli uomini e delle donne, qualsiasi proposta politica finisce per essere conservatrice.

Questo va detto: non si tratta di essere filosocialisti o antisocialisti, ma di essere compiutamente e radicalmente una forza di trasformazione, che intende la politica non per se stessa, non come tecnica di governo, ma come strumento da finalizzare ad obiettivi che abbiano significato per la società e per i singoli. Allora, il punto critico è la forma partito, la sua concreta costituzione materiale, la possibilità di rompere i meccanismi burocratici, i conformismi opportunistici, il costituirsi della politica come sfera separata. Il nome può cambiare se è visibile un processo nuovo, un’affermazione nuova d’identità. Altrimenti è solo una svendita.

Si faccia allora subito un congresso che di tutto questo discute senza unanimismi forzati, senza dirigismi dall’alto che consentano solo l’adattamento o la protesta velleitaria, inutile. Se il partito discute democraticamente, saprà trovare le risposte. Saprà anche, se è necessario, reinventare i nomi, i simboli. Ma è tutto il corpo vivo del partito che deve partecipare creativamente a questo processo. Il gruppo dirigente sappia essere attento, rispettoso, duttile.

Non è più il momento in cui i cambiamenti possono calare dall’alto e forzare il consenso. La partita è ora aperta, e nessuno può starsene fuori, come spettatore esterno. Ma ciascuno ci deve stare dentro con la sua identità, con l’autonomia delle proprie convinzioni, e impegnarsi nella battaglia politica che deciderà i lineamenti del nostro futuro. Non valga più oggi la vecchia “ragione di partito”, che ci ha portato spesso a dire dei sì a denti stretti, per un atto di pura disciplina. Valga la passione politica di chi sa che è tutto in discussione, e che la ricerca è aperta, che conta oggi più che mai il contributo individuale di ciascuno di noi. Se sarà così, un nuovo partito avrà già cominciato a prendere forma.


Numero progressivo: H84
Busta: 8
Estremi cronologici: 1988, 19 novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Riportato sul ritaglio il titolo presumibilmente originale "La rettifica dei nomi"
Pubblicazione: “L’Unità”, 19 novembre 1989. Ripubblicato in “La pazienza e l'ironia” col titolo “La rettifica dei nomi”, pp. 117-120