[FASSINO E IL CONGRESSO DS]

Intervento di Riccardo Terzi decontestualizzato

I risultati numerici del congresso sono molto chiari e non possono essere aggirati. Da ora in avanti la nostra discussione non può che svolgersi a partire dalla piattaforma politica che è stata proposta dal segretario del partito.

Ma non si tratta affatto di un atto formale di ratifica, come se fossimo già pervenuti a risultati conclusivi e risolutivi. Siamo immersi in una situazione in movimento, e il nostro lavoro di progettazione politica è ancora largamente da fare, da impiantare nella realtà. II congresso è solo un passaggio, e il suo valore sta nel fatto di averci detto una cosa molto chiara e importante: che il partito è aperto ad una ricerca nuova, che non si arrocca nella difesa di una propria identità statica e ideologizzata.

Non abbiamo più alibi, perché il corpo vivo del partito non agisce da freno, non ha la testa rivolta all’indietro. Siamo in grado oggi di affrontare una discussione molto libera e aperta, perché siamo un partito finalmente maturo.

Forse è la prima volta che ci siamo davvero messi alle spalle il lungo travaglio ideologico e identitario che ci ha accompagnato in tutti questi anni e che ci ha spesso impedito di vedere, con mente lucida, i cambiamenti della società italiana e del mondo.

Il successo di Fassino è il successo di questa razionalità aperta. Noi oggi non ci apprestiamo a fare l’ennesima svolta o giravolta, non ci avventuriamo in una operazione di ardito revisionismo ideologico, ma più materialisticamente ci occupiamo della realtà, sociale e politica, nella quale ci troviamo ad agire.

Questa realtà presenta molti aspetti inquietanti. Dove sta la ragione di questa inquietudine? In campo internazionale è il ritorno prepotente della politica militarizzata. Sul piano interno, il fatto nuovo è che l’attuale destra di governo sfugge a tutte le tradizionali classificazioni, e quindi non riusciamo ad afferrarla, perché assume di volta in volta le più svariate forme. Alla durezza dello scontro politico dovremmo essere preparati, perché l’abbiamo già affrontata in altri momenti. Ma ora ciò che dobbiamo fronteggiare è la politica dell’impolitico, che fa leva sull’immediatezza, sull’irrazionalità, sull’immagine. Quando ci sembra di averla messa alle corde, questa destra riesce a divincolarsi dalla stretta con qualche ben congegnato colpo di scena. È già accaduto più volte, e sta accadendo in questi giorni con il rilancio in grande stile della questione fiscale.

È, letteralmente, una destra senza principi, che cerca di utilizzare e di mobilitare tutto ciò che può servire all’esercizio del potere. Per questo, non funziona la tesi del “regime”, che ci rinvia ad un modello politico non confrontabile con quello attuale e ancor meno funziona l’idea tranquillizzante di un ordinario bipolarismo e di una reciproca legittimazione perché questa destra impolitica ha bisogno di una continua azione di rottura e di eversione.

 

La destra è questo agglomerato mobile, sfuggente, che di volta in volta si organizza intorno ad un messaggio, a uno slogan, a una campagna mediatica. Perfino il pacifico presepio natalizio può divenire uno strumento di guerra politica. Ma proprio da questa estrema spregiudicatezza deriva una notevole forza di aggregazione e di mobilitazione, perché in una società lacerata e impaurita non è la moderazione il tratto dominante, e ci sono sempre truppe disponibili alla ricerca di un mito e di un capo. Di fronte a tutto ciò, i nostri percorsi politici si rivelano estremamente tortuosi e insopportabilmente lunghi. Non si capisce perché ci siamo lasciati trovare impreparati sul tema della riduzione fiscale, senza riuscire ad anticipare la mossa del governo con una nostra controproposta. Eppure, non c’era davvero nulla di imprevedibile. Questo è il tema politico del nostro congresso: come costruire a sinistra un processo nuovo di aggregazione, come avere dalla nostra parte non solo la ragione ma la forza. L’attuale situazione di sfilacciamento e di dispersione è una evidente palla al piede. A questo problema si possono dare diverse risposte, ma non si può fingere che non esista, avendo un’idea del tutto idealizzata del pluralismo come valore. Quando il pluralismo produce paralisi, c’è qualcosa di strutturale che deve essere rimosso. La Lombardia è un esempio chiaro di questa situazione. Il presidente Formigoni sta tentando di organizzare uno schieramento assai largo e trasversale, rivolgendosi a diversi settori del mondo economico, sociale, politico. E noi? Perché non ci siamo mossi in tempo per costruire una rete di alleanze? Eppure, la data delle elezioni regionali non era un mistero per nessuno. Qualcuno dovrà pur rendere conto di questo ritardo.

Ma, al di là delle personali inadeguatezze di qualche dirigente, c’è il fatto che il nostro schieramento non ha struttura, non ha regole, non ha procedure decisionali efficienti, non ha un minimo di ossatura politica. Nella mozione di Fassino c’è la proposta della federazione. È forse una proposta ancora insufficiente, e comunque tutta da verificare alla prova dei fatti. Ma è comunque un passo, un primo tentativo per cominciare a costruire quello che oggi non c’è: un soggetto politico forte che sia in grado di prendere nelle sue mani le sorti del Paese.

Nessuno di noi può oggi prevedere tutti i passaggi, gli sviluppi, gli sbocchi di questa operazione. Ma mi sembrano chiare le ragioni per cui dobbiamo essere noi i più decisi sostenitori di questo obiettivo. Se la situazione si dovesse impantanare, se alla fine tutto si riduce al vecchio rituale di una diplomazia di vertice, noi come partito, come sinistra, non avremmo guadagnato assolutamente nulla e la nostra forza di attrazione sarebbe seriamente indebolita. La nostra autonomia non la salviamo tenendo la situazione ferma, ma avendo la capacità di guidarla verso nuovi sbocchi.

 

Un’alleanza verticistica e senza regole, come quella attuale, determina un drammatico deficit di democrazia. Come si seleziona la classe dirigente, come si decidono le candidature ai diversi livelli? Se c’è un soggetto politico strutturato, con proprie regole e propri organismi, si può cominciare a dare una soluzione accettabile a questo problema.

E soprattutto c’è un dato politico di primaria importanza: se il progetto di una larga alleanza riformista si afferma, esso chiude gli spazi a tutte le ricorrenti manovre neocentriste, che possono trovare nuovo alimento in un eventuale ritorno ad una legge elettorale di tipo proporzionale. Il centrismo è forte se il riformismo è debole: questo lo abbiamo verificato in tutta la nostra storia nazionale.

Ora, il tentativo di Prodi segna con questa storia una netta cesura, perché si propone di unire, in un progetto comune, le diverse correnti del riformismo italiano. In questa prospettiva, la sinistra non è più forza accessoria, subalterna, ma ha tutti i titoli per candidarsi ad una funzione di governo. E anche Rifondazione Comunista può dare uno sbocco positivo alla sua ricerca.

Questo progetto riformista, mi pare evidente, deve essere molto netto e chiaro nella definizione di scelte alternative, deve avere un’idea dell’Italia e del suo futuro. Dobbiamo sapere scrivere la nostra agenda politica, le nostre priorità, senza rincorrere la destra sul suo terreno. Il nostro tema centrale, che rovescia tutti i termini della demagogia fiscale del governo, è la progettazione di un grande programma sociale, che faccia seriamente i conti con i nuovi dati strutturali della società italiana: la precarizzazione del lavoro, l’invecchiamento, l’ondata migratoria.

È tutta l’architettura del welfare che deve essere ripensata e rimodulata, alla luce di queste emergenze, e che va affidata ad uno Stato profondamente rinnovato e decentrato. Al centro va messo il problema dei giovani, perché qui sta il futuro dell’Italia. Se il lavoro cambia, se la produzione diviene flessibile, occorre rispondere a questa nuova realtà con un massiccio investimento politico che assicuri ai giovani continuità di reddito, copertura previdenziale, formazione permanente, diritti.

Il nostro blocco sociale di riferimento si costruisce a partire dai cambiamenti del lavoro e dalle domande che ci vengono dalle nuove generazioni. Parlo consapevolmente di “blocco sociale”, perché penso che la politica, quando è una cosa seria, è sempre capacità di organizzare e di rappresentare una domanda sociale, ha quindi sempre le sue radici nelle concrete esperienze di vita e di lavoro delle persone. Qui sta la nostra identità, nel nostro essere impiantati nella realtà sociale. E questo è il senso del nostro riformismo, come incessante costruzione di solidarietà, di coesione sociale e di diritti.



Numero progressivo: H1
Busta: 8
Estremi cronologici: [2007]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -