FEDERALISMO E SCUOLA

Convegno Federazione Formazione Ricerca CGIL - Venezia 30-31 maggio 1997

Presentazione: Guglielmo Festa; Relazioni: Riccardo Terzi, Dario Missaglia; Interventi: Luigi Berlinguer; Conclusioni: Andrea Ranieri

Relazione di Riccardo Terzi – Responsabile Dipartimento Riforme istituzionali CGIL nazionale

Nella discussione sui problemi di riforma istituzionale è essenziale non perdere mai di vista il rapporto tra società e istituzioni, avere cioè presente che le istituzioni sono solo uno strumento, un modo per rispondere alla dinamica sociale e alle sue domande. Non c’è quindi mai, in questo campo, un modello perfetto, una soluzione definitiva, non c’è mai un problema di verità e di errore, ma solo di approssimazione più o meno efficace alle esigenze che si pongono in una determinata condizione storico-sociale.

Ci sono invece oggi, nella discussione politica, troppi fondamentalismi, troppe verità dogmatiche proclamate con arroganza e con faciloneria. Cerchiamo di non farci deviare da questa ondata retorica che accompagna la nascita della cosiddetta seconda repubblica, e cerchiamo di analizzare i problemi istituzionali nel loro rapporto e nel loro intreccio con la società italiana di oggi.

Nella società si è prodotto un nuovo dinamismo economico che ha il suo motore nel tessuto variegato delle piccole e medie imprese e ha il suo orizzonte nella globalizzazione dei mercati. È una nuova forma di capitalismo quella che sta nascendo, e che viene spesso definita con la categoria del post-fordismo. È il passaggio dal capitalismo di fabbrica, imperniato sulla grande impresa, a un capitalismo sociale, diffuso, fatto di una rete di soggetti economici e produttivi che si integrano in un sistema territoriale, ed è contestualmente il passaggio a una struttura sociale sempre più frammentata, con una proliferazione di nuove figure professionali e con livelli crescenti di disparità e di incertezza nel sistema delle garanzie.

Di fronte a questa evoluzione dinamica della società, le istituzioni dello Stato e le strutture della Pubblica amministrazione sono evidentemente in ritardo, inadeguate, perché costruite secondo un modello rigido, centralizzato e burocratico, privo di flessibilità e incapace quindi di adattarsi ai diversi e mutevoli contesti sociali e territoriali. È questa una considerazione ormai quasi ovvia, ma è meno ovvio il problema delle risposte, delle soluzioni, delle misure concrete di riforma, sia perché quando entriamo nel merito dei problemi, al di là degli slogan propagandistici, ci troviamo nel mezzo di un groviglio intricatissimo di difficoltà, sia perché qualsiasi azione di riforma, anche la più prudente e moderata, scatena una violenta reazione difensiva di quanti hanno costruito dentro l’attuale sistema le loro posizioni di potere e di prestigio.

Questa reazione è già dispiegata e coinvolge diversi importanti settori dell’apparato dello Stato, e comincia così a dileguarsi il falso e gattopardesco unanimismo a sostegno di una riforma federalista dello Stato.

Le istituzioni sono investite da nuove e più complesse domande, e ciò avviene in direzioni diverse e talora anche contraddittorie. C’è da un lato una domanda di maggiore efficienza e di minori vincoli, per stare al passo con la velocità dei processi economici e per non essere intralciati da tortuosi e complicati obblighi burocratici: uno Stato quindi meno invadente, più snello, e capace, quando è necessario, di decisioni rapide e di prestazioni efficaci. Su un diverso versante, c’è una vasta e crescente area sociale che si sente priva di protezioni e di tutele e che si sente esposta a un possibile destino di esclusione e di marginalità, che vede l’attuale Stato sociale come modellato sulle figure più tradizionali e protette e incapace quindi di garantire davvero a tutti l’effettività dei diritti di cittadinanza.

Due domande diverse, non necessariamente contraddittorie, ma certo difficili da comporre in una sintesi politica. E tuttavia, per quanto l’impresa sia difficile, io credo che ci si debba muovere in entrambe queste direzioni, perché si tratta di problemi reali, anche se possono dar luogo a manifestazioni esasperate. Vince politicamente chi sa rispondere a queste esigenze.

Efficienza e protezione sociale, sostegno all’imprenditoria diffusa e diritti di cittadinanza, sono i due punti cruciali sui quali l’attuale struttura dello Stato ha fatto fallimento. E il gravissimo pericolo politico che si profila è il congiungersi di questi diversi motivi di disagio e di frustrazione in un comune spirito di contestazione antistatale e anti-istituzionale, creando così le basi di massa per possibili politiche di eversione, che rompono la coesione nazionale. In molte aree del paese questo processo di fusione, che mette insieme liberismo economico e protesta sociale, è già andato molto avanti, dando luogo a una miscela esplosiva. La Lega si fonda su questa miscela, ma anche nel polo di destra c’è un fenomeno analogo. Questo fenomeno può essere fronteggiato solo con politiche adeguate, che vanno al cuore dei problemi reali. Non serve la retorica patriottica, e ancor meno serve la minimizzazione consolatoria secondo la quale si tratterebbe pur sempre di fatti marginali e minoritari. Ciò significherebbe andare avanti alla cieca e non sentire l’urgenza di un cambiamento. I processi politici non sono sempre lineari, ma possono avere delle improvvise accelerazioni che danno luogo a un equilibrio del tutto nuovo. E il nostro equilibrio è oggi precario, in bilico, e sarebbe grave miopia non vedere tutte le incognite di questa situazione.

È allora evidente che non si tratta solo di astratti modelli istituzionali, ma si tratta di definire una politica istituzionale che si misuri fino in fondo con la crisi che è aperta nel corpo sociale. La Commissione Bicamerale può riuscire solo se ha la forza di un progetto politico che entra in comunicazione con la società, e ciò finora mi sembra mancare, e si ha l’impressione di una discussione tutta interna al sistema politico, nella quale l’obiettivo di fondo è la ricostruzione del centro di comando, è il ripristino del primato della politica nei confronti del dinamismo sociale che ha messo in crisi questo primato e ha messo in crisi la forma classica dello Stato-nazione.

Nella Bicamerale è in gioco questa alternativa: restauro dello Stato, o riforma, ricostruzione dei meccanismi centralistici di controllo, o radicale ripensamento della forma dello Stato, partendo dalle autonomie della società, territoriali e sociali. Io credo che ci sia, prima ancora di esaminare le diverse possibili soluzioni costituzionali, un problema di comunicazione politica e simbolica, se è vero che sono in gioco non solo gli interessi, ma le identità e le passioni. Il disegno di riforma deve quindi saper parlare anche a questo sottofondo emotivo, e deve cercare di delineare un nuovo progetto e una nuova idea di nazione, come unità dei diversi, come ricostruzione dal basso dell’unità nazionale, nella valorizzazione delle diversità e delle autonomie. In questo senso il federalismo può essere un’idea-forza, e ne vanno esplorate attentamente tutte le potenzialità.

Il federalismo può essere la leva per quel cambiamento dello Stato e delle politiche pubbliche che è così fortemente richiesto dalla coscienza civile del paese. Può essere lo strumento per riconnettere società e istituzioni, per colmare l’attuale divario, per rimodellare le istituzioni politiche in rapporto alle nuove domande sociali.

Ma questa è solo un’intuizione politica, una possibile linea di ricerca, e anche il federalismo necessariamente fallisce se ci si ferma allo stadio delle enunciazioni retoriche e se non ci si misura con l’oggettività e la materialità dei problemi reali.

 

La riforma federalista è, a mio giudizio, una condizione assolutamente necessaria, non essendo più possibile riformare dall’interno lo Stato centralizzato. Senza una rottura, senza una discontinuità forte, non usciamo dalla crisi e non recuperiamo il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Ma non è una condizione sufficiente, e occorre vedere bene a quali condizioni e con quale strumentazione politico-istituzionale il federalismo può davvero funzionare in modo da raggiungere obiettivi visibili sia in termini di efficienza sia in termini di coesione sociale.

A questo fine, mi soffermo su quattro grandi nodi problematici, che mi sembrano essere di particolare rilevanza. In primo luogo, il federalismo non può essere solo un processo di trasferimento di competenze, di risorse e di apparati. Ciò sarebbe solo la riproposizione su scala allargata di un modello di Stato e di amministrazione che non funziona. Il decentramento dei poteri ha senso solo in quanto occasione per una riforma profonda dell’amministrazione. È il modello burocratico-ministeriale che va spezzato, per costruire una diversa amministrazione, secondo criteri di efficienza e di responsabilizzazione, creando così una rete di autonomie funzionali e di agenzie specializzate, che rispondono del risultato del loro lavoro.

In questo senso ha cominciato a muoversi il Governo con le leggi promosse dal ministro Bassanini. Il filo conduttore è il principio di sussidiarietà, inteso non solo in senso verticale, per riequilibrare il rapporto tra i diversi livelli istituzionali a vantaggio del livello territoriale più vicino ai cittadini, ma anche in senso orizzontale, per promuovere nuove forme di autogoverno sociale e per correggere le distorsioni statalistiche dell’attuale sistema. In questo quadro rientra, tra l’altro, tutto il tema dell’autonomia scolastica, in quanto autonomia funzionale, e si apre inoltre la ricerca, per noi assai rilevante, di forme di partecipazione dei soggetti sociali, ad esempio nel campo della formazione professionale e del mercato del lavoro.

Il federalismo, inteso così, è solo una nuova e più aperta cornice istituzionale che va riempita con una serie di operazioni innovative, nei diversi campi, per costruire una nuova forma dello Stato e dell’amministrazione.

In secondo luogo, qualsiasi riforma, trattandosi di un processo assai complesso e non breve, ha bisogno di raccordi istituzionali efficaci, tra le Regioni e gli Enti locali, tra lo Stato e le Regioni, e di sviluppare nuove forme di cooperazione interregionale o intercomunale. Il sistema non funziona se è una somma di entità chiuse, incapaci di comunicare tra di loro. È questo un punto-chiave, finora risolto nella Bicamerale con l’affermazione di una diversa logica, ovvero con la netta e rigida separazione delle competenze.

Ma un federalismo così impostato è di assai dubbia efficacia, perché manca di meccanismi flessibili di regolazione.

Prendiamo il caso della scuola. Secondo questa concezione dovremmo prevedere o una competenza esclusiva dello Stato o una competenza esclusiva delle Regioni, con effetti in entrambi i casi disastrosi, perché o si conserva intatto il centralismo statale o si crea una frammentazione territoriale priva di qualsiasi logica unitaria.

La verità è che in molti campi decisivi vi è la necessità di una legislazione «concorrente», integrata, come di fatto avviene in quasi tutti i paesi nei quali funziona un ordinamento federale dello Stato. Diviene allora indispensabile la partecipazione diretta degli enti territoriali alla legislazione nazionale attraverso un’apposita Camera rappresentativa delle Regioni o delle autonomie. Ciò ha anche un valore simbolico, in quanto rende visibile la legittimazione politica, al livello più alto, degli organi territoriali, e realizza quindi un cambiamento sostanziale nei vertici stessi dello Stato. Non è più solo decentramento, ma una nuova forma dello Stato che interviene sulle radici stesse del centralismo perché già al centro agisce la rappresentanza politica delle autonomie.

Senza questa garanzia di partecipazione effettiva agli organi centrali dello Stato, il federalismo rischia di essere solo un’innovazione verbale a cui non corrisponde nessuna sostanza, perché non si va oltre un’ordinaria pratica di decentramento amministrativo, oppure rischia, se si trasferiscono davvero in via esclusiva tutti i poteri strategicamente rilevanti, nel campo economico e sociale, di produrre una pericolosa frammentazione, mancando di una qualsiasi sede di armonizzazione e di coordinamento delle politiche regionali.

La terza condizione è che si costituiscano i soggetti, politici e sociali, capaci di gestire la riforma federalista: è, dunque, la formazione delle classi dirigenti locali. Il federalismo è una scommessa sull’autonomia, nella presunzione che nell’esercizio dell’autogoverno si possa produrre un nuovo circolo virtuoso di responsabilizzazione politica e di crescita della società civile. Tutto ciò non si improvvisa, come è evidente, e richiederà tempi lunghi di maturazione.

Ma si tratta di cominciare a operare in questa prospettiva, in questa logica, gettando le prime basi per la costruzione di un sistema di autogoverno territoriale: patti territoriali, sedi di concertazione, assunzione di responsabilità delle classi dirigenti locali, nei partiti, nei sindacati, nel sistema delle imprese, nelle istituzioni culturali.

Il federalismo nasce morto se è solo un’operazione istituzionale e se non si crea questo tessuto di forze, di soggetti, che si riqualificano nell’esercizio dell’autogoverno. Noi quindi dobbiamo essere, come sindacato, tra gli attori protagonisti di questo processo, e sotto questo profilo c’è molto da rivedere e da correggere nella nostra prassi e nei nostri modelli organizzativi, che sono tuttora funzionali a una struttura centralistica dello Stato.

 

Ai pericoli di semplificazione autoritaria, di verticalizzazione del potere, di svuotamento della democrazia politica attraverso logiche plebiscitarie, pericoli tutti reali, anche se talora enfatizzati in una prospettiva apocalittica, non si risponde con le scomuniche ideologiche, ma solo con un lavoro sul campo, per costruire una forte rete di rappresentanza, per restituire ai grandi soggetti collettivi radicamento sociale e capacità di agire nella realtà in movimento, nella dinamica dei sistemi territoriali. Dobbiamo presidiare il territorio, e non pensare che tutti i giochi politici si consumino nei palazzi della capitale. C’è lo spazio, se vogliamo occuparlo, per una politica di segno diverso, non verticistica, non teledipendente, ma attiva nella realtà, senza attendere autorizzazioni o direttive dall’alto. È questo il cuore del federalismo: un atto di auto-responsabilizzazione, che riguarda ciascuno di noi.

Infine, per un paese come l’Italia, qualsiasi riforma dello Stato si deve misurare con il grande tema irrisolto dello squilibrio territoriale tra il Nord e il Sud, che si è ulteriormente acutizzato e che rischia di divenire irreversibile. Non è un problema di solidarietà, come spesso si dice usando un’espressione di tipo caritatevole che mi sembra inappropriata, ma è un problema politico, ovvero di adeguatezza delle politiche pubbliche, della distribuzione e della utilizzazione delle risorse.

Anche per il Sud l’autonomia può essere una grande occasione, per liberarsi dei meccanismi assistenzialistici e per dare avvio a uno sviluppo autocentrato, capace di valorizzare le risorse locali. Ma è chiaro che ci deve essere una scelta di perequazione nazionale che dia alle Regioni più deboli le basi finanziarie sufficienti per costruire il proprio sviluppo. Senza di ciò, avviene una secessione strisciante e l’Italia come nazione non ha più un avvenire unitario, un destino comune.

Su questo punto non possiamo essere in nessun modo equivoci o reticenti, e deve essere esplicito il nostro rifiuto di modelli di federalismo che si risolvono, nei fatti, in una cristallizzazione degli squilibri e in un cedimento alle pressioni egoistiche delle aree forti. La nostra proposta si regge quindi su due fondamenti entrambi essenziali: autonomia e responsabilità, coesione nazionale.

 

Il lavoro avviato nella bicamerale presenta ancora molti punti critici, ai quali ho già accennato, e occorre quindi nelle prossime settimane una più forte pressione politica per una conclusione positiva. Credo che anche il sindacato debba far sentire più chiaramente la sua voce.

La bozza presentata da D’Onofrio è ancora un’ipotesi provvisoria che sarà sicuramente modificata, tenendo conto delle numerose osservazioni e critiche ricevute, sperando che questa revisione non significhi un arretramento circa la scelta di fondo del federalismo. E si tratta di un rischio reale. Allo stato attuale la proposta di D’Onofrio rappresenta una soluzione non negativa, ma ambigua, perché nella sostanza tutto è affidato alla contrattazione bilaterale tra lo Stato e le singole Regioni. Si fa riferimento al modello spagnolo, ma è un riferimento non del tutto pertinente, perché in Spagna, con l’eccezione di alcune Regioni a forte identità nazionale, il sistema si articola su due fondamentali fasce di autonomia, mentre la proposta D’Onofrio può dar luogo ad un sistema arlecchino, con venti diversi sistemi regionali. Inoltre, l’esperienza spagnola dimostra che nella fase iniziale è stato sicuramente utile adottare un modello flessibile, con diverse velocità, ma a questo punto si pone la necessità di portare ad armonia l’intero sistema, perché in un sistema eccessivamente differenziato non è possibile ridimensionare drasticamente gli apparati centrali dello Stato.

Per l’Italia, quindi, si può pensare a una flessibilità nei tempi di attuazione, ma a un punto di arrivo, entro una data scadenza, che sia sufficientemente omogeneo per l’intero sistema regionale, per evitare che si riproduca l’antica complicità di centralismo statale e di assistenzialismo meridionale.

Per quanto riguarda il tema della scuola, per il quale io faccio soltanto degli accenni estremamente schematici, esso non può essere collocato fuori dalla riforma federalista. Sarebbe un imbroglio, una scelta di conservazione del tutto inaccettabile. Ma occorre tener conto di due elementi, che complicano il quadro e che sconsigliano soluzioni troppo semplificate. Da un lato l’ordinamento scolastico non può non avere alcune coordinate generali, a garanzia dell’unità culturale del paese. Ci deve essere perciò una legislazione su due livelli, nazionale e regionale, tra loro coordinati.

Inoltre, il sistema scolastico può essere un esempio importante di autonomia funzionale, per cui il passaggio non è dallo Stato alla Regione, o al Comune, ma dallo Stato all’autogoverno della scuola, che definisce al proprio interno, senza dipendenze burocratiche, le regole del proprio funzionamento. Ma anche questo principio, che ha in sé una forte potenzialità innovativa, non può essere un principio esclusivo, perché questa rete di autonomie deve essere ricondotta ad una regia politica unitaria, a una programmazione territoriale che tenga conto dei bisogni formativi propri di un determinato sistema locale, in rapporto alla specifica configurazione sociale ed economica del territorio.

Nel sistema scolastico entrano quindi necessariamente tre soggetti: lo Stato, le istituzioni locali, l’autonomia scolastica. E il problema è l’equilibrio e il raccordo tra questi diversi soggetti. Una soluzione univoca e radicale in una qualsiasi di queste tre possibili direzioni non può che generare dei mostri: lo statalismo ministeriale, un regionalismo altrettanto burocratico, o la scuola come corporazione che difende solo se stessa e non risponde alle esigenze reali del paese.

Come si vede, quando entriamo nel merito il federalismo non è un processo semplice, non è una ricetta buona per tutti gli usi, e occorre trovare nei diversi campi le soluzioni e gli equilibri istituzionali più adeguati. È questo il lavoro, assai complesso, che ci attende nei prossimi anni, per ridisegnare lo Stato, per ridefinirne le competenze e le relative strutture amministrative, e in questo lavoro il sindacato deve essere parte attiva, se non altro per il semplice fatto che nessuna riforma funziona se non sono consapevoli e motivati i lavoratori che la devono organizzare. Le riforme giacobine, calate dall’alto, falliscono inevitabilmente e, come la storia dimostra, non è sufficiente neppure l’uso sistematico della ghigliottina. Se il problema è la costruzione del consenso in una prospettiva di riforma, è evidente allora il ruolo decisivo che il sindacato può svolgere, come elemento di freno corporativo, o viceversa come protagonista della riforma.

Noi dobbiamo essere, con grande determinazione, il soggetto sociale che si fa carico, integralmente, degli obiettivi di riforma dello Stato, nella convinzione che senza di noi, senza un ruolo attivo delle forze sociali, la riforma non si fa o diviene una controriforma che si ritorce contro le esigenze democratiche del paese. Oggi parliamo della scuola, ma il tema è evidentemente più ampio. È l’intero Stato sociale che va riorganizzato, e l’esito di questo processo dipende in gran parte da noi, dalla capacità di guardare all’avvenire del paese senza avere la palla al piede delle molte corporazioni che non vorrebbero cambiare nulla.

Questo è il nostro ruolo: cambiare con il consenso e con la responsabilizzazione dei lavoratori. E quindi c’è da condurre una lotta su due fronti, come si diceva un tempo: contro l’autoritarismo che nega il problema del consenso sociale, e contro il corporativismo che si arrocca nella difesa dello status quo. Il sindacato confederale ha un ruolo nazionale solo se combatte con pari decisione su questi due versanti, e si conquista così il diritto di parlare con autorevolezza a tutto il paese.



Numero progressivo: C13
Busta: 3
Estremi cronologici: 1997, 30-31 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, 1 agosto 2000, supplemento, pp. 4-5