IL MODERATISMO È L’ANIMA CHE VINCE NELLA DC

Riflessioni sulla natura e il ruolo del partito di maggioranza relativa

di Riccardo Terzi

Anche nelle sue espressioni più avanzate e più lucide il gruppo dirigente DC non va oltre una funzione di garanzia di un equilibrio sociale che esclude mutamenti qualitativi. Nemmeno Moro è sfuggito a questo limite. Realismo e fermezza i requisiti necessari nella ricerca di un rapporto di collaborazione con un partito cui manca una vera volontà di rinnovamento

 

Nel momento in cui ritorna in primo piano, nel dibattito politico attuale, il terna della solidarietà democratica e dei suoi possibili svolgimenti, diviene urgente chiarire a noi stessi quei nodi che non sono stati pienamente sciolti nel triennio dal ‘76 al ‘79 che sono tuttora l’oggetto di una riflessione travagliata e controversa. È evidente che la questione sopra ogni altra preminente è quella del giudizio sul ruolo della Democrazia Cristiana e sulla sua possibile dinamica interna. A me pare che ci sia stata un’eccessiva oscillazione nel nostro giudizio, e che spesso si siano piegate le nostre valutazioni all’esigenza politica del momento. Nella fase della solidarietà democratica l’abbiamo talora ecceduto in una rappresentazione della DC; in cui contava di più la coscienza di sé del gruppo dirigente democristiano di quanto non valesse la realtà effettuale delle cose, la corposità degli interessi e la forza d’inerzia e di conservazione di un dato sistema di potere.  Nella fase successiva siamo giunti anche troppo precipitosamente a dire che con questa DC non c’è accordo possibile. Ma è forse ipotizzabile nell’orizzonte delle previsioni politiche una Democrazia Cristiana che contravvenga alla propria natura sostanziale, che operi una sorta di negazione di se stessa e della sua storia?

Tutta la famosa questione dell’“anima popolare” della DC mi sembra essere un concetto privo di spessore politico, sia, nel senso che le rivestiture ideologiche della discussione interna alla DC, in cui si fa un grande spreco di tale concetto, non ci possono dare nessuna rappresentazione oggettiva della realtà, sia nel senso che la necessità di un rapporto politico con la Democrazia Cristiana non ha bisogno di tali giusti giustificazioni e può essere basata, più sobriamente e più realisticamente, sul fatto che la situazione italiana non può consentire al movimento operaio di scontrarsi con tutto lo schieramento delle forze moderate e lo induce a ricercare un punto di equilibrio.

Il problema della DC è reale e centrale proprio perché si tratta di una grande forza moderata, di una espressione politica in cui sono mediati e riassunti gli interessi di lungo periodo dei gruppi capitalistici.

Mi pare appropriata la definizione di Cassano della DC come «partito di governo e di massa della borghesia capitalistica» che esercita una sua funzione attiva ed autonoma, ma pur sempre entro il quadro di un assetto sociale di cui si escludono mutamenti qualitativi. Il seguito popolare e di massa non sposta questo dato, ma anzi è il segno dell’efficacia del ruolo di mediazione politica esercitato dalla DC.

Anche nelle sue espressioni più avanza e più lucide il gruppo dirigente democristiano non va oltre questa sua funzione di garante di un equilibrio sociale moderato. Possiamo trovare una conferma di ciò nel la lettura degli negli ultimi scritti e discorsi di Aldo Moro, recentemente pubblicati. Essi non si sottraggono ad una certa impressione di angustia: non c’è la prospettazione di un preciso disegno strategico, ma vi è piuttosto una coscienza sensibile ed acuta del mutamento dei tempi e delle condizioni, e la convinzione che solo una linea di grande flessibilità può consentire alla Democrazia Cristiana di esercitare, nel nuovo quadro politico, la sua tradizionale funzione di cardine del sistema democratico. Nel concetto di flessibilità, così ricorrente nei suoi discorsi, sta la chiave interpretativa del suo pensiero e del suo stile politico, e sta anche la ragione della sua superiorità intellettuale rispetto ad un personale politico che non ha saputo abbandonare per tempo le abitudini e la mentalità di un’epoca di dominio indiscusso. Nel suo ultimo di scorso ai gruppi parlamentari della DC è contenuta una frase che illustra assai bene il suo concetto di fondo: «se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione, quado era venuto il momento di farlo, – non avremmo tenuto malgrado tutto – per più di 30 anni la gestione della vita del paese. Abbiamo tenuto perché siamo stati capaci di flessibilità ed insieme di una assoluta coerenza con noi stessi, sicché in nessun momento abbiamo smarrito il collegamento con le radici profonde del nostro essere nella società italiana».

Certarmene, l’angustia degli argomenti non è tutta imputabile al suo pensiero, ma dipende in larghissima misura dall’uditorio a cui si rivolge. Ma ciò non sposta i termini del problema, ne è anzi un’ulteriore conferma. La discussione che è attualmente aperta nel partito democristiano si svolge interamente entro questo quadro di angustia e di calcolo di breve respiro, senza l’esigenza di una guida politica capace di un coraggioso e lucido realismo. Ha un interesse solo relativo la valutazione delle diverse posizioni che si contrappongono all’interno del partito. Ciò che più vistosamente colpisce è la loro generale inadeguatezza, l’impressione di crisi e di impotenza che in esse si rivela, l’angustia dell’orizzonte entro cui questa discussione si svolge.  I difensori della politica di solidarietà democratica non hanno il coraggio di una posizione politica che affronti con chiarezza il nodo reale che oggi si tratta di sciogliere, e d’altra parte i gruppi moderati sentono anche essi l’inevitabilità di un certo sviluppo del corso politico italiano; la loro è una battaglia difensiva, che riguarda i modi e i tempi, senza saper prospettare politiche alternative. La crisi è profonda, e il gruppo dirigente democristiano non pare in grado di dominarla e di imboccare con decisione e con convinzione una linea politica univoca e chiaramente definita.

Si apre quindi una fase in cui la DC cercherà soprattutto di affidarsi a alla manovra tattica, partendo dall’affermazione di principio della solidarietà democratica e cercando, nella misura del possibile, di manipolarla e di svilirla. La crisi della DC deve preoccupare anche noi, in quanto essa può trascinare il paese in una situazione non rimediabile di ingovernabilità e di marasma, e pertanto deve restare fermala nostra proposta positiva per la costruzione di un governo di unità democratica. Il problema di un equilibrio ragionevole e flessibile, per restare nell’ambito del linguaggio moroteo, è oggettivamente un problema aperto oggi nella situazione italiana, che non può sopportare lacerazioni e contrapposizioni frontali. È u n obiettivo possibile, perché a ciò spinge la realtà delle cose, e il travaglio della DC sembra essere dettato, tutto sommato, non tanto dal tentativo di scongiurare questo esito, ma dalla preoccupazione di trovare una via che sia e che non comporti nessun trauma politico per la Democrazia Cristiana. Ma è evidente che l’eventuale ripresa di una politica di può collaborazione può rinascere solo, per il gruppo dirigente della DC, da uno stato di necessità, da una considerazione realistica dei rapporti di forza, non da una scelta più profonda e da una volontà di rinnovamento della natura della DC. E ciò implica un rischio per il nostro partito, come già abbiamo avuto modo di sperimentare negli a anni i passati. Questo rischio è acutamente avvertito| dai nostri quadri e dai nostri militanti, fino a determinare talora una posizione non accettabile di diffidenza pregiudiziale nei confronti di ogni ipotesi di nostra partecipazione al governo. Non possiamo rifiutarci di ricercare, insieme alle altre forze politiche, le soluzioni che possono essere date alla crisi politica in atto, gli assetti nuovi che debbono essere costruiti. Una posizione diversa comporterebbe una rinuncia al nostro ruolo di governo, una negazione dell’importante processo di maturazione che abbiamo compiuto negli ultimi anni. E tutta via quella diffidenza ha le sue radici, ha le sue motivazioni, comporta uno sforzo di rielaborazione e di precisazione della nostra linea politica. È importante anzitutto che siano tenute ben ferme le «correzioni» su cui abbiamo concentrato la nostra riflessione critica dopo i risultati di giugno, e che si riassumono nel fatto che la politica unitaria deve essene intesa come un processo entro il quale permane un elemento di antagonismo e si svolge una lotta per l’egemonia. I due requisiti della flessibilità e della coerenza, del realismo politico e della fermezza, sono necessari per poterci avventurare su un terreno nuovo e difficile. Ma c’è un interrogativo più sostanziale a cui dobbiamo rispondere. La scelta che noi oggi compiamo quali prospettive prepara? Questo “passaggio” a quali sviluppi ci conduce?

In tutta la discussione sulla linea del “compromesso storico” è rimasta irrisolta un’ambivalenza di interpretazione: o prospettiva di un’alleanza organica con una Democrazia Cristiana destinata a ritrovare la propria anima popolare, o necessità di un equilibrio politico dettato da una certa false del nostro sviluppo, a cui dovranno subentrare nel prossimo futuro svolgimenti diversi in una libera dialettica tra le forze politiche. È questa seconda valutazione l’unica che mi paure rispondente a alla realtà politica di oggi e alla sua possibile dinamica. Si tratta quindi di operare un “passaggio” che è politicamente necessario, che è determinato dall’emergenza della situazione e dalla precarietà degli equilibri politici, senza vedere in esso una sorta di assestamento definitivo del quadro politico. È questo sospetto di instaurazione di un «regime» ciò che ci ha alienato molti consensi e che ha sollevato preoccupazioni più o meno giustificate e circa un possibile snaturamento del nostro ordinamento democratico. E in tutto ciò non vi era solo l’acredine pregiudiziale, ma anche una riflessione legittimata e motivata. In sostanza ciò che solleva obiezioni non è tanto l’idea del compromesso, quanto il carattere “storico” con cui lo abbiamo voluto qualificare.

Il partito ha bisogno di vedere tutto questo complesso di problemi con molto senso della realtà, senza alcuna mistificazione ideologica. Dobbiamo saper guardare al problema politico della Democrazia Cristiana nei suoi connotati reali, e comprendere che una fase do intesa è necessaria non perché essa sia il preludio del socialismo, con qualche venatura cristiana, ma perché gli obiettivi possibili in questo momento storico sono quelli di un processo più limitato di rinnovamento della società, nel quadro di un certo equilibrio tra le diverse forze sociali. E nel momento stesso in cui sappiamo considerare realisticamente i limiti entro cui ci muoviamo in questa fase, dobbiamo salvaguardare la nostra autonomia di azione e prepararci ai prossimi appuntamenti della storia, ai suoi sviluppi ora non prevedibili. Questa chiarezza reciproca nel rapporto tra le forze politiche non è di ostacolo, ma al contrario può più agevolmente aprire la via ad un’intesa, circoscritta nel suo significato, delimitata nei suoi contenuti, tale da salvaguardare, come è necessario, l’autonomia ideale di ciascuna forza politica.

A tutto questo ragionamento si può obiettare che esso non terrebbe nel dovuto conto la questione cattolica e il suo intreccio ineliminabile con il problema della Democrazia Cristiana, che in sostanza esso darebbe per acquisito un assestamento della DC come partito moderato e quindi lascerebbe nell’ombra la necessità di un vasto coinvolgimento del mondo cattolico nel processo di trasformazione socialista del nostro paese. Di tale osservazione occorre tenere conto, ed in effetti essa è una delle ragioni per cui appare oggi come un passaggio necessario la ricerca di un accordo politico con la DC. Ma, tuttavia, la dinamica delle cose tende sempre più a distinguere i due lati della questione, a mettere in moto una dialettica più complessa tra la sfera religiosa e quella politica. In ciò sta una delle ragioni della crisi attuale della DC, che sente di dover trovare autonomamente, senza in investiture divine, il terreno della propria legittimità politica. La logica della Chiesa cattolica si sposta su un terreno diverso, e non si lascia condizionare dai fatti contingenti della vita politica. Le sue ambizioni sono più elevate, essa intende operare come grande istituzione universale, tesa a riconquistare una propria egemonia ideale in un mondo che si è largamente emancipato dalla coscienza religiosa, ma che ora, in una fase di profondo malessere, tende ad avvertire con nuova sensibilità la forza di attrazione di una visione religiosa della vita.

È un tema politico e culturale di vasto impegno, che sarebbe riduttivo costringere entro gli schemi dei rapporti politici immediati, anche se la divaricazione di questi due piani è solo tendenziale, e non va comunque trascurato l’intreccio che collega tra loro la coscienza religiosa e il moderatismo politico. Sta a noi operare in modo che il processo di laicizzazione della politica si sviluppi, e il nostro atteggiamento nei confronti della DC deve essere improntato a questo criterio di laicità, per non legittimare un integralismo in cui ormai non si riconoscono più gli stessi dirigenti della Democrazia Cristiana, che è il segno di un passato che tuttora resiste, ma che non ci aiuta nella interpretazione del futuro.


Numero progressivo: G24
Busta: 7
Estremi cronologici: 1980, 25 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 4, 25 gennaio 1980, pp. 11-12