[LA DISCUSSIONE SUL “NUOVO CORSO”]

Intervento decontestualizzato di Riccardo Terzi – Segretario generale aggiunto CGIL Lombardia

Il processo storico-sociale di questo decennio ha sovvertito la dislocazione dei poteri. Con una formula riassuntiva si può dire che c’è una concentrazione del potere in forme sempre più oligarchiche, e uno spostamento dai centri di comando dalle istituzioni politiche al sistema dalle imprese.

La crisi della sinistra è un aspetto di questa più generale crisi del primato della politica, ed essa sarà tanto più devastante quanto più resteremo legati ad una impostazione “politicista”, tutta interna alla vicenda delle istituzioni.

Tutti i problemi “classici” della politica (la democrazia, la sovranità, la rappresentanza) vanno ripensati e ridefiniti, alla luce dei processi reali che stanno avvenendo, i quali sono segnati dal fatto che la grande impresa capitalistica si costituisce come potenza politica, portatrice di un progetto di egemonia.

Assumere il tema dell’impresa come prioritario nodo strategico è un passaggio arduo per un partito la cui cultura politica è tradizionalmente organizzata su tutt’altre basi. C’è il timore di un ritorno ideologico ad una cultura anti-industriale, o ad una posizione di ostilità pregiudiziale ai processi di modernizzazione.

C’è, forse ancora più profondamente, la diffidenza verso proposte politiche cha sembrano riproporre un privilegiamento del sociale sul politico.

Secondo questo tradizionale modo di pensare, che accomuna le più diverse forze politiche, l’impresa non è un problema di strategia politica, perché è fuori discussione la sua legittimità come soggetto autonomo che agisce nell’ambito dell’economia di mercato, seguendo i propri specifici valori di efficienza e di competitività.

In effetti, ha agito fin qui una sorta di compromesso tra mercato e democrazia. È discutibile che la sinistra possa limitarsi ed operare in questo ambito ristretto, escludendo ogni trascendenza, ogni sorpassamento del reale, perché la sua stessa ragion d’essere finirebbe per apparire incomprensibile.

Ma soprattutto c’è il fatto che la dinamica del capitalismo sta spezzando gli argini politici che si erano costituiti, e viene ormai travolto l’equilibrio tra crescita economica e regolazione sociale.

La politica non governa più i processi reali.

È in questa crisi della dimensione politica che si inserisce la grande impresa come forza motrice del cambiamento.

Per questo il “politicismo” è una forma di totale miopia.

Per questo suona oggi ridicolo il protagonismo spettacolare dei capi di partito, perché si avverte che si tratta di una messinscena senza sostanza.

Dalla “grande politica” come scelta intorno ai fini dello sviluppo si passa alla politica come pura tecnica amministrativa, funzionale ad uno sviluppo che è deciso e regolato in altre sedi, fuori da ogni possibilità di controllo democratico. La politica, secondo le teorie della “società complessa”, diviene un sottosistema, e il processo sociale complessivo è un insieme di movimenti di adattamento, che esclude la possibilità di mettere in questione i fini, i valori, che esclude quindi il conflitto politico.

In tutte queste teorizzazioni c’è molta manipolazione ideologica, ma c’è anche, come sempre nell’ideologia, una potenza reale. La sinistra stessa ne è coinvolta.

Possiamo scegliere di “stare dentro i processi”, facendo leva sugli stessi meccanismi di omologazione che agiscono nella società. L’obiettivo, in questo caso, è la fine di una discriminante ideologica ormai vetusta, è il riconoscimento del PCI come elemento costitutivo dell’attuale equilibrio.

È una strategia possibile, praticabile. In quest’ottica l’alternativa è solo gioco politico che sta dentro le regole collaudate, e risulta tanto più efficace quanto più è depotenziata sul piano dei contenuti e dei valori.

La seconda possibilità è quella di tentare un’operazione più ambiziosa, di ricostruzione di un progetto antagonistico rispetto alle tendenze in atto, cogliendo tutte le contraddizioni sociali che sono aperte, e lavorando sistematicamente su di esse non per un astratto cambiamento “di sistema”, ma per trasformazioni che incidano nell’organizzazione materiale della società.

Oggi, i lineamenti di una tale strategia non sono chiari, perché non disponiamo più di un sistema compatto di principi ideologici. Ma questa medesima indeterminatezza può essere un’occasione feconda, perché ci costringe a ripartire dalla realtà, dal vissuto concreto degli uomini, fuori dei vecchi schemi dell’ortodossia di partito.

In questo senso davvero si tratta di una rottura con la tradizione comunista, con la pretesa di certezza, di verità, di dominio della politica che in essa erano implicite.

In questo senso la proposta congressuale è una proposta di movimento, che implica radicalità, unilateralità, capacità di assumere singoli obiettivi di lotta con estrema determinazione.

Se è questo il senso del processo politico nuovo che vogliano avviare, non ha molto rilievo la classica domanda sui passaggi tattici, sulle tappe politiche intermedie.

Che un gruppo dirigente debba saper manovrare tatticamente è fuori discussione. Ma è anche evidente che nessun congresso può a priori fissare tutti i possibili svolgimenti della tattica politica.

Il Congresso può proporsi di realizzare due operazioni, che non sono tra loro necessariamente in opposizione: più autorevolezza del gruppo dirigente, e più democrazia nel partito.

La nostra crisi ha avuto il suo apice quando sono venute meno entrambe questa condizioni. Per non essere risospinti indietro, occorre una discussione congressuale senza compromessi, in cui ciascuno si assume personalmente e liberamente le proprie responsabilità.



Numero progressivo: H12
Busta: 8
Estremi cronologici: [1989-90]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: Bozza