LA FORZA DEL NOSTRO VIAGGIO

XIX Congresso nazionale dello SPI CGIL, 15-17 aprile 2014

Intervento di Riccardo Terzi, poi pubblicato

Abbiamo scelto l’immagine del viaggio per rappresentare la nostra storia e il nostro lavoro. Il Congresso è una tappa di questo viaggio, un momento di passaggio in cui raccogliere le forze e le idee per il prossimo futuro. Ma spesso accade di essere deviati da più contingenti considerazioni, personali o di gruppo, e allora si resta intrappolati nell’infinito gioco degli equilibri e delle convenienze burocratiche. È un errore che non ci possiamo permettere. Nel momento in cui siamo chiamati ad una sfida molto alta ed arrischiata, diviene indispensabile coltivare il senso della responsabilità collettiva, riconoscendo le differenze e facendole agire dentro una cornice unitaria. Nessuno scostamento da questa regola ci sarà perdonato. L’unità di cui abbiamo bisogno non ha nulla di retorico, ma è il faticoso lavoro di sintesi in cui tutte le unilateralità e tutte le parzialità vengono scongelate. Questa è la sfida del Congresso: portare la nostra unità ad un livello più alto, e tenere aperto il dialogo e la collaborazione con CISL e UIL.

“La forza del nostro viaggio”: in questa formula si racchiude tutto il senso del nostro agire sindacale, del nostro essere una comunità dotata di senso, di identità e di progetto. Siamo in viaggio, verso dove? La risposta non è affatto scontata, perché la società in cui viviamo è segnata dall’incertezza ed è attraversata dall’inquietudine. Non funziona più l’idea di un movimento storico tutto ascendente e progressivo, di un cammino che è già tracciato, incerto solo nei suoi passaggi, ma sicuro nel suo esito finale. È la stessa idea di progresso che è divenuta estremamente problematica, e all’orizzonte sembra stagliarsi non il regno della libertà ma il dominio della tecnica. Il nostro viaggiare è un movimento verso l’ignoto, è un processo aperto agli esiti più diversi, e il risultato è affidato alla libera combinazione delle forze che agiscono e che confliggono in questo spazio aperto.

In questo contesto di incertezza, se non vogliamo essere trascinati passivamente dal corso delle cose, dobbiamo affinare e rendere trasparente la nostra soggettività, l’intenzionalità del nostro agire. E abbiamo bisogno, per trovare un filo conduttore, di riscoprire le nostre radici, di attualizzare la nostra storia e la nostra memoria. È in questo legame di passato e futuro che diamo forma alla nostra identità. Possiamo allora affrontare le ondate della crisi attuale senza restare schiacciati da un senso disperato di sconfitta, decidendo di essere non dei reduci, dei testimoni di un tempo tramontato, ma degli sperimentatori, dei costruttori di un nuovo ordine sociale. Se siamo sfidati, dobbiamo accettare la sfida, e guardare in faccia la realtà, senza rimpianti e senza rassegnazione.

È oggi di moda il culto della velocità, il misticismo dell’intraprendenza e della decisione. Matteo Renzi, che occupa con successo il centro della scena politica, è l’emblema di questa religiosità del fare, del fare tutto e presto. Ma restano irrisolte due domande: verso dove stiamo correndo, verso quale modello sociale, e chi decide la direzione di marcia, dove sta il luogo della decisione, in un processo democratico allargato o in un ristretto centro di comando. A me pare che sia in atto una violenta torsione della vita politica, con il passaggio dalla logica della rappresentanza a quella della governabilità. La politica, se cosi ancora possiamo chiamarla, si riduce all’osso, al nucleo duro della competizione per il potere. Prosciugate e devastate le tradizionali identità, conta solo l’imperativo di vincere, e a questa lotteria per il potere partecipano con pari entusiasmo la destra e la sinistra politica.

Tra la sfera sociale e quella politica si apre così un fossato, e si mette in moto una dialettica aspra, tra il modello decisionista e quello partecipativo, tra il potere e la rappresentanza. Tutto il tema dell’autonomia assume allora una nuova radicalità, e dobbiamo saper agire in un contesto del tutto nuovo, come una potenza sociale che non ha sponde politiche a cui appoggiarsi, e che può contare solo sulle proprie forze. Troppe volte ci siamo lasciati irretire nelle tortuosità della politica, finendo per apparire come un anello del sistema di potere. Il nostro è un viaggio nel sociale, nelle sue contraddizioni e nelle sue sofferenze, cercando di scavare anche in quel sottosuolo emotivo e rabbioso che prende le forme dell’antipolitica. La nostra parola non può essere quella dell’ufficialità istituzionale, ma quella dell’incontro con le persone reali e con il loro vissuto concreto.

Per questo, abbiamo bisogno di un nuovo modello organizzativo, perché l’attuale struttura accentrata, verticale e gerarchica non è in grado di intercettare tutta la complessa irrequietezza del tessuto sociale.

Dobbiamo spostare il baricentro verso il basso, e prendere sul serio la scelta del territorio come il luogo di una nuova sperimentazione sociale, e dobbiamo aprire la strada ad una nuova generazione di quadri, premiando l’autonomia e non l’obbedienza, l’innovazione e non la continuità, il lavoro di frontiera e non la corsa ad occupare le posizioni di vertice.

Nell’analisi critica che dobbiamo fare su noi stessi, il metro di misura è quello dell’efficacia, e dobbiamo allora interrogarci sulle ragioni dello scarto che si è aperto tra gli obiettivi e i risultati, sulla scarsa capacità di incidere nei processi reali. È questo il segno inquietante di una incipiente burocratizzazione, nel momento in cui si offusca il rapporto tra il mezzo e il fine, e su tutto prevale la stabilità della struttura organizzativa. Per sbloccare questa situazione, occorre agire sia dal basso che dall’alto, con l’energia di una forte spinta democratica, e con la costruzione di un gruppo dirigente che sia in grado di guidare il processo di cambiamento, mettendo così in una relazione feconda il momento della spontaneità e quello della direzione.

All’immagine del viaggio abbiamo associato il concetto della forza. E la strategia è esattamente questo: accumulo di forza, spostamento degli equilibri, conquista di una posizione egemonica. La forza non la misuriamo al nostro interno, ma nel nostro rapporto con tutto ciò che sta fuori dai nostri confini. Questa è la confederalità: non una prerogativa burocratica che è riservata al gruppo dirigente centrale, ma la capacità di tutto il corpo dell’organizzazione, in ciascuna delle sue articolazioni, di avere uno sguardo aperto sul mondo che sta fuori di noi, partendo dalla nostra parzialità, ma declinandola da un punto di vista generale, universale, per essere così una forza propulsiva di tutto il processo democratico.

E oggi, nel mezzo di una tumultuosa trasformazione, abbiamo un bisogno estremo di questa visione allargata, per cogliere e rappresentare il processo sociale in tutta la sua complessità, per entrare in relazione con le nuove domande, con le nuove soggettività, con tutto ciò che si muove nella società reale. Non siamo affatto destinati all’isolamento e all’irrilevanza, perché c’è tutto un vasto territorio sociale che può essere dissodato, e c’è un tessuto democratico non ancora spento che attende di essere rivitalizzato. La forza dello SPI è nel suo essere lo strumento di un presidio democratico del territorio. Nel processo dell’invecchiamento, sia sociale che individuale, si rispecchia il livello di civiltà del paese, la sua qualità sociale. È un grande tema politico, perché si tratta di riprogettare i tempi e gli spazi che regolano la nostra vita collettiva, ma su questo versante non si vede all’opera nessuna velocità dell’iniziativa, ma una totale rimozione. Nel modello della società iper-competitiva, gli anziani sono destinati ad essere solo un residuo marginale. Ecco quindi che l’oggetto della nostra contrattazione assume un rilievo generale, perché si tratta della qualità della vita, per tutti, e della pienezza della cittadinanza, con pari diritti e doveri per tutte le generazioni, in un rapporto di scambio e di dialogo tra giovani e anziani.

Non c’è nulla di corporativo nella nostra impostazione. Possiamo forse dire che noi siamo gli eredi della grande politica, il luogo in cui è ancora possibile la passione delle idee, dove non c’è scissione tra l’agire e il pensare, e possiamo ambire ad essere un luogo di saggezza, un punto di equilibrio e di responsabilità nella vita della CGIL.

Infine, il viaggio è un’esperienza collettiva, è il “nostro” viaggio. È utile ricordarlo in questa epoca di narcisismo dilagante, talora arrogante e talora patetico, nel quale l’individuo finisce per essere del tutto svuotato. Il nostro lavoro è la ricostruzione della socialità, delle legature sociali, per dare un’anima allo spazio comune della nostra convivenza. L’identità è viva se sa accogliere e integrare le differenze, mentre all’opposto dalla chiusura e dall’intolleranza si producono identità morte. Noi dobbiamo essere i portatori di un’identità vivente, nella quale ciascuno si realizza dentro una rete allargata di relazioni, e allora il nostro viaggio diventa il cammino di una società intera, che cerca di uscire dalla crisi e di ritrovare il senso di una comune appartenenza.



Numero progressivo: D1
Busta: 4
Estremi cronologici: 2014, 15-17 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Inchiesta online”, 30 aprile 2014. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Un lungo viaggio”, pp. 195-199