LA “NOVITÀ” DEL PCI

di Riccardo Terzi

Oggi è in discussione un modello di organizzazione politica e sociale. Nel PCI esistono novità rilevanti, tali da poter aprire all’interno della sinistra un dibattito fecondo

 

Le recenti prese di posizione del Partito comunista italiano sulla crisi polacca e sulla realtà dei paesi socialisti dell’Est europeo contengono importanti elementi di novità, e ciò è stato già ampiamente riconosciuto e sottolineato in tutti i commenti politici. Non si tratta certo di un’improvvisa inversione di rotta, di una brusca rottura, ma piuttosto di uno sviluppo coerente di una linea di autonomia che i comunisti italiani hanno imboccato già da molto tempo. La convinzione che i problemi della trasformazione socialista in Italia e nell’occidente capitalistico debbano essere affrontati in modo del tutto originale, che non possano valere in nessun modo i modelli dell’Unione Sovietica e degli altri paesi del “campo socialista”, è un’acquisizione ben ferma nella elaborazione del PCI a partire almeno dall’VIII Congresso del 1956.

Ma l’interesse di oggi riguarda le “novità” politiche, e su di esse va concentrata la nostra attenzione. Esistono, in effetti, novità rilevanti, tali da poter aprire all’interno della sinistra un dibattito fecondo, su basi nuove rispetto al passato. In primo luogo, di fronte agli avvenimenti polacchi, alla drammatica stretta autoritaria e repressiva che si è attuata in quel paese, il PCI non si è limitato a esprimere una posizione di condanna, che era scontata, ma ha creduto necessario tentare una valutazione più complessiva dell’intera esperienza storica che ha preso l’avvio con la rivoluzione d’Ottobre.

In discussione è un determinato “modello” di organizzazione politica e sociale, che mostra sempre più vistosamente i suoi limiti e le sue contraddizioni interne. Non si tratta solo di singoli errori, di singoli difetti, ma del funzionamento complessivo di quelle società, del loro assetto politico che non ha saputo trovare al proprio interno le necessarie articolazioni democratiche e che è pertanto esposto a un continuo pericolo di involuzione autoritaria e burocratica. Ciò non riguarda solo la Polonia, ma con intensità più o meno grande tutto l’insieme dei paesi socialisti che si sono costruiti sul modello sovietico. Occorrerà un’analisi più approfondita e circostanziata, ma è comunque assai importante questo tipo di approccio, da cui può venire una discussione più chiara, uno sforzo di analisi oggettiva, non ideologica, circa la realtà che si è storicamente costruita nei paesi dell’Est europeo.

 

La politica estera dell’URSS

La seconda novità rilevante sta nel giudizio sugli indirizzi della politica estera dell’Unione Sovietica. Nel passato, i limiti evidenti dello sviluppo democratico all’interno dell’Unione Sovietica erano compensati dal fatto che sulla scena internazionale la prima potenza socialista agiva come un importante fattore di pace, di distensione, e di sostegno all’indipendenza dei popoli. Ciò è stato vero perfino negli anni più cupi della repressione staliniana, ed è qui la ragione della grande forza di attrazione che l’Unione Sovietica ha esercitato, affermandosi come punto di riferimento per tutte le forze di pace e di progresso.

Questa situazione si è ora modificata, e occorre prenderne atto. L’esempio più significativo è l’intervento militare in Afghanistan, del tutto inconciliabile con la politica di distensione e con il principio dell’indipendenza nazionale. Ma anche le vicende del Sud-Est asiatico e del Corno d’Africa mostrano come l’asse della politica estera sovietica si sia spostato nella direzione di una “politica di potenza”.

La critica alla politica estera sovietica tocca quindi un punto essenziale: c’è stato un pericoloso offuscamento della linea della distensione e dell’impegno per una politica di pace. Sulla base di questo giudizio, cambia, necessariamente, tutta la concezione dell’internazionalismo.

Nell’azione attuale del PCI vi è lo sforzo di intrecciare rapporti internazionali molteplici, in diverse direzioni, senza assi preferenziali. L’“autonomia” del partito non si risolve in una chiusura nel ristretto orizzonte nazionale, ma comporta, al contrario, un’intensificazione dell’iniziativa internazionale: verso le forze socialiste e socialdemocratiche dell’Europa, verso i movimenti di liberazione del Terzo mondo, verso i paesi non allineati. In questo quadro è un fatto di rilievo la ripresa di relazioni con il Partito comunista cinese. Non valuta esattamente l’evoluzione della politica del PCI chi parla di “rottura”, per auspicarla o per deprecarla. La novità è nel fatto che il rapporto con il PCUS e con gli altri partiti comunisti di influenza sovietica si inscrive in un sistema di relazioni più ampio e articolato, e non può più essere considerato come un rapporto “privilegiato”, basato su un comune patrimonio ideologico e su una sostanziale identità di obiettivi. Non è un cambiamento di poco conto, ma non è e non vuole essere un atto di rottura, che sarebbe un gesto politico miope ed errato, del tutto contraddittorio con l’esigenza di fondo di operare per una ripresa della politica di distensione.

 

Esiste davvero il fattore K?

Questi sviluppi dell’elaborazione politica del PCI hanno fatto dire a molti commentatori, e perfino a qualche comunista, che ormai il cosiddetto “fattore K” è caduto e vengono meno le ragioni che motivano la pregiudiziale anticomunista. È un ragionamento non accettabile per due ragioni. In primo luogo, perché quella pregiudiziale, coltivata dalla Dc come strumento del proprio monopolio politico, non aveva alcuna giustificazione, ma era un vero pretesto di lotta politica. In secondo luogo, sarebbe un’ingenuità pensare che ora la strada sia sgombra di ostacoli. Alle classi dominanti importa poco il fattore K, importa la conservazione del proprio potere, ed è questo un motivo più che sufficiente per ribadire una linea di discriminazione a sinistra.

Il problema, in sostanza, non è quello della “legittimazione”, per poter essere associati nel sistema politico attuale e poter raggiungere un’intesa con la Democrazia cristiana, ma è quello della costruzione di un’alternativa politica. La “fase nuova” che si è aperta nel PCI ha la sua matrice fondamentale nell’ indicazione di una prospettiva di alternativa. Dopo l’esaurimento dell’esperienza della “solidarietà democratica”, dopo i risultati negativi delle elezioni politiche del ‘79, si è aperto un processo vasto di ripensamento strategico, che ha rimesso in discussione molti punti fermi.

È a partire da qui che si intensifica la ricerca e il dibattito, uscendo dalle secche in cui il partito si era trovato negli anni precedenti. Una politica di alternativa chiama in causa, infatti, problemi essenziali di identità del partito, di piattaforma programmatica, di rapporti all’interno della sinistra, di collocazione internazionale. E su ciascuno di questi problemi si sono compiuti alcuni passi importanti e innovativi.

Siamo però oggi a un punto assai delicato. La questione è quella di individuare, sulla via dell’alternativa democratica, passaggi concreti e praticabili, obiettivi immediati, di ottenere dei risultati politici, di cominciare a costruire un “processo”, un’aggregazione di forze, sociali e politiche.

 

Discussione nella sinistra

Se non viene risolto questo problema, tutta la situazione può essere sospinta all’indietro: o verso una riedizione della solidarietà nazionale, o verso un arroccamento, verso una linea propagandistica che riduce l’alternativa a un motivo di agitazione polemica. Per questo è essenziale oggi la discussione all’interno della sinistra, ed è essenziale soprattutto il rapporto con il PSI. O riusciamo a dare concretezza politica a un disegno di alternativa, definendo gli obiettivi concreti che occorre perseguire in questa fase, e concordando su alcuni punti programmatici, oppure la sinistra fallisce un’occasione importante e resta bloccata dai calcoli di partito dalle manovre tattiche, da un clima di diffidenza e da una esasperazione della concorrenzialità.

Nel PSI c’è la tentazione di sfruttare una contingenza favorevole solo ai fini della crescita del proprio spazio politico: prima riequilibriamo i rapporti di forza, e poi potremo discutere. In realtà, nessuno dei due partiti della sinistra può risolvere adeguatamente i problemi del proprio spazio politico e del proprio ruolo se non all’interno di una strategia che faccia pesare tutta intera la forza della sinistra.

L’evoluzione in atto nel PCI, sulle questioni internazionali e sul tema dell’alternativa democratica, deve essere colta come un’occasione per spostare in avanti tutta la discussione nella sinistra, per avviare un processo di convergenza, per fissare le linee di un impegno comune per una politica di riforme. Per questo è necessario un confronto programmatico concreto e ravvicinato.

Chi si sottrae a questo impegno, e si rinchiude in un’angusta visione “di partito”, si assume una grave responsabilità.


Numero progressivo: G5
Busta: 7
Estremi cronologici: 1982, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Critica sociale”, aprile 1982, pp. 17-18