LA POLITICA COME TECNICA O COME PROGETTO

Alle radici del consociativismo

di Riccardo Terzi

1) A Milano prende avvio, con l’inchiesta giudiziaria, sul sistema delle tangenti, un nuovo ciclo politico, ancora indeterminato nei suoi sbocchi, ma chiarissimo nel suo significato di violenta e radicale contestazione e delegittimazione del sistema di potere.

Gli effetti sulla coscienza pubblica del paese sono profondi e non reversibili. Si è davvero rotto un equilibrio che non potrà più essere ricostituito.

Non si tratta, come più volte è accaduto nel passato, di un episodio che sta sulla cronaca dei giornali per qualche giorno, e poi tutto ricomincia come prima in un clima di indifferenza rassegnata. Non c’è oggi per nessuno la possibilità di ripetere in Parlamento il discorso di orgogliosa e arrogante autodifesa, che fece Aldo Moro in occasione dello scandalo Lockheed. Nessuno ha sufficiente autorevolezza e prestigio per sfidare l’opinione pubblica e per ripristinare le ragioni del primato della politica.

Forse Craxi vorrebbe essere il Moro degli anni novanta. Ma l’insieme di minacce, di oscuri avvertimenti, di ipocrisie e di reticenze che riesce a mettere in campo suscita un’impressione penosa e non certo un’immagine, di forza. Ancora una volta la storia si ripete come farsa.

Se le forze politiche non capiscono quanto sia mutato il modo di sentire e di reagire del paese, quali radici abbia messo nell’opinione pubblica un più acuto spirito critico che non lascia più margini alle tecniche del trasformismo, e se si arrabattano per salvare il salvabile, allora non riusciranno a salvare neppure il salvabile.

La rottura tra corpo sociale e istituzioni politiche è ormai avvenuta, e da lì, dal riconoscimento esplicito di tale rottura, occorre partire per un’opera di ricostruzione. Potremmo giudicare la situazione attuale come una situazione di crisi. Ma della parola «crisi» si è fatto un grosso abuso nel linguaggio politico, e allora parliamo di catastrofe.

La situazione di catastrofe è quella che non consente più il ricorso agli strumenti ordinari di controllo, e che può essere affrontata solo in modo innovativo, con l’invenzione di nuovi strumenti e con una mobilitazione delle energie e delle volontà per obiettivi che trascendono la situazione preesistente.

È un nuovo ordine che deve essere costruito.

Tornano in primo piano, dunque, gli aspetti strategici della politica rispetto a quelli tattici, perché in discussione è ormai la forma stessa dello stato, la sua legittimazione profonda, e vanno organizzate le forze capaci di esprimere una nuova egemonia, di dare un nuovo fondamento al potere politico. Da questo punto di vista Gramsci si può prendere una rivincita, perché sua è l’elaborazione concettuale di questi temi, mentre la cultura del riformismo non ha costruito gli strumenti analitici per affrontare le situazioni di crisi o di catastrofe, in quanto dominata dal senso di una evoluzione lineare.

Non è un caso che siano proprio i riformisti dichiarati quelli che oggi sanno solo balbettare cose che sono di buon senso in una situazione ordinaria, mentre la situazione è tutt’altro che ordinaria. I processi politici hanno oggi un’accelerazione che scompagina tutte le tattiche più collaudate, le quali presupponevano come permanenti e stabili i dati di fondo dell’equilibrio politico e sociale.

Ma se una lezione va tratta dalle vicende storiche di questi ultimi anni è che l’incapacità di pensare come possibili grandi cambiamenti, grandi rotture, produce una politica miope e impotente. Persino Gorbaciov è stato travolto da eventi non controllati e non previsti. Non mi sembra che la nostra classe dirigente sia più lungimirante. Essa non ha vera capacità di pensiero, perché continua a ragionare con concetti e categorie che non rendono conto della dinamica reale. Il linguaggio politico appare ormai come un gergo di casta, nel momento stesso in cui le ragioni di questo gergo e di questa casta sono venute meno. È un linguaggio morto.

La demagogia leghista ha ben compreso la vulnerabilità di questo sistema politico e del suo linguaggio, e fa parlare i sentimenti primitivi della gente, la brutalità degli interessi e delle passioni, che nessun sistema ideologico riesce ormai a ricomprendere in una sintesi superiore. È una operazione eversiva, ma c’è in essa più pensiero politico, più intelligenza del reale, che in tante estenuate frasi fatte con le quali il sistema politico vorrebbe perpetuare il proprio dominio. Al dunque, ciò che decide è proprio il senso della crisi in atto, della sua dinamica, e la capacità di indirizzarla verso nuovi approdi. È il momento dell’iniziativa politica audace, e ai cosiddetti politici realisti, tutti presi nel circolo chiuso della loro quotidianità, si può ora ritorcere l’accusa di essere dei visionari.

Ma torniamo al nostro punto di partenza, a Milano, all’inchiesta dei giudici, agli effetti che essa produce.

È chiaro che la vicenda giudiziaria va collocata in un contesto più ampio, che essa non è comprensibile se non come sintomo di un clima politico radicalmente mutato. D’altra parte, le elezioni di aprile avevano lo stesso segno, e i giudici hanno potuto operare perché sapevano di poter contare su un consenso sociale diffuso, sapevano di agire non contro la corrente, ma nella corrente.

Non è l’improvvisa comparsa dell’eroe o del giustiziere, ma è lo sgretolamento di un sistema. E l’inchiesta mette alla luce in modo impressionante questo sgretolamento, mette in evidenza questa catena di tipi umani, tanto più arroganti quanto più mediocri, abituati all’abuso sistematico del potere, e presi ormai da un senso di sconfitta: uomini del potere che crollano perché crolla il loro sistema. E soprattutto viene alla luce, per la prima volta, non un pezzo di realtà, ma l’intelaiatura di un intero sistema, che riguarda l’esercizio del potere in tutte le sue articolazioni, negli enti pubblici, nella sanità, negli appalti, nella politica urbanistica, nel governo delle cose e delle persone, e che coinvolge tutte le forze politiche, con gradi diversi, con diversi livelli di responsabilità, ma senza che sia possibile fissare un chiaro discrimine tra chi ha costruito e favorito un tale sistema e chi ad esso si è opposto.

E da Milano questa ondata si diffonde e raggiunge altri centri di potere, nella stessa Lombardia, nel Veneto, e altrove. È una valanga che ancora non si è fermata, e che può travolgere le istituzioni più insospettabili.

Davvero non mi pare che si possa sottovalutare tutto ciò, che si possa fermare quest’ondata, che si possa ancora una volta lanciare l’accusa di catastrofismo, di critica distruttiva e qualunquistica, per cercare di tenere insieme ciò che non sta più insieme. Il sistema politico è a pezzi. Non è colpa di

chi lo dice, ma di chi l’ha ridotto in queste condizioni.

 

2) Milano, 1975: si forma la prima giunta di sinistra, c’è il senso di un atto di rottura, che libera nuove risorse e apre nuove grandi possibilità, c’è l’idea di una grande opera che ha inizio. Non erano illusioni, perché c’era alle spalle un movimento reale nella società, una straordinaria crescita civile e democratica. Alla sinistra viene consegnato il compito di rappresentare questa nuova società civile che si è formata e che chiede modernizzazione e democrazia, efficienza e diritti civili.

Perché questa opera finisce nel fango, e un’intera classe dirigente è sotto inchiesta e ha già comunque perso ogni sua credibilità? È una domanda difficile e dolorosa, alla quale non è possibile sfuggire. La sinistra deve rendere conto di ciò che ha saputo fare, e di ciò che non ha saputo impedire che venisse fatto.

Finora sono prevalse risposte diplomatiche, tentativi di minimizzazione, che non servono a nulla e non chiariscono nulla. È il momento di affrontare una discussione seria e impegnativa, per capire dove stanno le radici della degenerazione, e per capire soprattutto quale debba essere nel prossimo futuro il ruolo di una sinistra non compromessa, non inquinata, capace di rompere la gabbia di quel sistema di illegalità nella quale si è lasciata imprigionare.

Questa ricerca autocritica ha il suo cuore a Milano, ma non riguarda solo Milano, perché per tutti si è chiuso un ciclo e le occasioni del 1975 sono andate perdute.

Se il compito della giustizia è esclusivamente quello di individuare responsabilità individuali, personali, l’analisi politica ha tutt’altra funzione. Non si tratta qui solo di casi individuali di corruzione, di debolezze dell’animo umano. Si tratta invece di analizzare tutto un processo politico, a partire dalla rottura del 1975.

La prima giunta di sinistra nasce in condizioni strane, con una aperta ostilità delle direzioni nazionali del PCI e del PSI. Gli emissari romani, che erano allora Cossutta e Labriola, responsabili degli enti locali, pensavano ad altre soluzioni, in linea con la politica di solidarietà nazionale e di intesa con la DC. La scelta di un’alternativa di sinistra a Milano è considerata un’avventura.

Io ero allora segretario della federazione milanese del PCI, e trovai in Claudio Martelli l’alleato più convinto e determinato per decidere a Milano l’avvio di una nuova esperienza politica, vincendo le resistenze e le ostilità nazionali. Resto convinto della giustezza di quella scelta, anche se mi sento personalmente coinvolto nell’aspra ricerca autocritica che va condotta su tutti gli sviluppi successivi.

Nel ‘75, dunque, nasce una giunta di sinistra, ma i suoi attori principali non sono guidati da un’idea di alternativa al vecchio assetto di governo, ma cercano piuttosto la strada di un compromesso. In fondo, tutti pensano che a Milano non si possano correre avventure. Milano è la capitale economica, è il centro della borghesia industriale e finanziaria, è il tramite dell’Italia con l’Europa. E Milano è il cuore di una regione dove sono forti le tradizioni del cattolicesimo democratico, dove ha le sue basi la sinistra democristiana di Marcora e di Granelli, così strettamente intrecciata con il sistema delle partecipazioni statali, e allora di tutto ciò occorre tener conto e la sinistra ha titoli per governare se non compie brusche rotture, se non mette in crisi tutto un equilibrio economico e politico che è una ragione di forza per Milano e per la Lombardia.

Non sto ridicolizzando questi argomenti, che sono argomenti di realismo politico, di valutazione concreta dei rapporti di forza. Ma è proprio questo approccio iniziale che segna il cammino successivo, perché si ragiona in modo statico, dentro un determinato equilibrio di poteri, e in questa analisi finisce per scomparire ciò che è la fondamentale ragione di forza della sinistra, il suo rapporto con i movimenti e con le aspettative della società civile. La sinistra non ha il coraggio di scommettere su se stessa e sul proprio futuro.

Fin dalla fase iniziale della nuova esperienza di sinistra, dunque, la tendenza consociativa era già nelle cose, nei comportamenti e nelle convinzioni soggettive.

Per il PSI, che è stato il centro organizzatore del governo cittadino nelle diverse fasi politiche, la giunta di sinistra non rappresentava una svolta, ma una continuità, un riconoscimento più esplicito del suo primato politico, della sua egemonia, Proprio per questo, il PSI potrà poi cambiare di volta in volta le sue alleanze senza rinnegarsi. Gli altri partiti si adattano ad una funzione collaterale, e avviene così che il gioco democratico è truccato, perché i cambiamenti non sono veramente tali, ma sono varianti del medesimo sistema. E – possiamo ora aggiungere – nella sfera sotterranea degli affari l’accordo è trasversale e non distingue tra maggioranza e opposizione.

Accade qualcosa di analogo a quanto è accaduto nella storia politica italiana, con la DC che ha in mano la regia delle diverse combinazioni politiche.

Per il PCI, d’altra parte, l’accesso al governo cittadino avveniva in quel quadro di grande prudenza e di preoccupazione per gli equilibri politici complessivi di cui già si è detto, il che determinava un particolare stato d’animo, sia nei gruppi dirigenti sia anche nella stessa base del partito, nel quale finiva per essere prevalente non il senso della propria forza e della nuova occasione storica che si era aperta, ma il senso del rischio, del cammino accidentato da percorrere con estrema cautela. In questo diffuso atteggiamento di sfiducia nelle proprie potenzialità si combinavano diversi elementi: il retaggio di un antico settarismo che vedeva con sospetto la politica di unità a sinistra e mal tollerava le mediazioni e i compromessi necessari per dare stabilità all’alleanza di governo, e il moderatismo di una classe dirigente spaventata dalle nuove responsabilità, preoccupata della sua legittimazione, e quindi tutt’altro che incline ad atti di rottura e di innovazione radicale.

C’è qui tutta la storia del PCI milanese, che è insieme storia gloriosa e mediocre, storia di grandi dedizioni e di grandi opportunismi. Questi diversi elementi trovano il loro punto di congiunzione in una concezione tutta strumentale dell’esercizio del potere: come tappa provvisoria e necessariamente compromissoria, in attesa di un più decisivo evento storico e rivoluzionario, o come mera legittimazione del partito e del suo gruppo dirigente, in una visione politica non più messianica ma solo pragmatica.

La conseguenza è una posizione di inerzia, di attesa, con una crescente divaricazione tra il partito delle sezioni, che non sente il governo cittadino come una propria impresa, e il partito degli amministratori, che si rinchiude nella routine dei compiti gestionali.

Si apre, d’altra parte, una lotta politica all’interno del gruppo dirigente del PCI, che ha come posta in gioco il rapporto con la politica nazionale del «compromesso storico» e quindi il valore di autonomia e di sperimentazione innovativa che può avere l’esperienza di alternativa a Milano, o viceversa il suo carattere solo tattico e strumentale.

Da questi scontri interni esce vincente un gruppo di potere, guidato da Cervetti, che combina l’ortodossia ufficiale e la passiva adesione alle scelte nazionali con l’uso spregiudicato delle funzioni di governo ai fini del proprio rafforzamento. È una miscela di vecchio centralismo autoritario e di moderno pragmatismo, che accentua tutte le tendenze di passività e di moderatismo e prepara il terreno per un’involuzione ulteriore dell’esperienza di governo. La dialettica interna si immiserisce, e anche il rapporto con la società esterna si burocratizza.

Più tardi si vorrà far passare questo impasto burocratico come un’anticipazione riformista. Ma ciò fa parte solo dei rituali della politica, dell’uso delle parole come simboli, come segni di riconoscimento. La verità è che a Milano è mancata una cultura riformista degna di questo nome, perché è mancata la capacità di progetto, di innovazione, di sperimentazione di nuove forme di vita urbana, prevalendo la logica della gestione, della mediazione passiva tra gli interessi in campo.

La sinistra ha governato, ma non è stata portatrice di un proprio autonomo progetto.

Oggi tiriamo le somme di questa lunga stagione, e le somme non tornano. Non tornano politicamente. Possiamo vantare atti amministrativi e opere pubbliche importanti, ma la qualità della condizione urbana e la qualità democratica della vita pubblica sono arretrate.

Non è questa la sede per un esame dettagliato, che pure dovrà essere fatto, e non intendo quindi dare giudizi troppo sommari. Mi interessa il dato politico, ed esso lo si misura dall’insieme di motivazioni, di comportamenti, di cultura, che viene prodotto nel corpo sociale e dal consenso attivo che viene suscitato. È allora evidente che, sotto questo profilo, il bilancio è in perdita, perché la società appare più disgregata, più divisa, e ha accumulato in se stessa un senso di frustrazione, di risentimento, di protesta, che ormai viene apertamente alla luce.

La sinistra ha perso la sua occasione, e oggi è difficile rimotivare fra la gente le nostre ragioni. Per farlo, occorre un linguaggio di verità: guardare in modo schietto alla situazione e dire quali sono oggi gli obiettivi possibili, le scelte urgenti da fare.

 

3) Quali sono i fini della sinistra? A questa domanda non ci sono oggi risposte chiare. È crollata tutta un’impalcatura ideologica che teneva insieme un’identità di classe, forse solo apparente e vuota di contenuto, ma che aveva comunque la sua forza reale, come è sempre nel caso delle ideologie, che sono un insieme di verità illusoria e di efficacia pratica. Se l’obiettivo storico aveva la forma del mito, esso tuttavia agiva, proprio in quanto mito, come organizzatore della volontà collettiva.

In questo «crepuscolo degli dei», c’è un vuoto che non viene colmato: un vuoto di cultura, di identità, di passione. L’esperienza politica concreta dei partiti della sinistra non colma questo vuoto, perché non c’è, non è visibile, un programma riformatore comprensibile nei suoi tratti fondamentali, e su tutte, o quasi, le questioni di maggiore rilevanza le forze della sinistra parlano linguaggi diversi.

In queste condizioni dire unità della sinistra, o sinistra di governo, non vuol dire nulla. Se non si chiariscono i fini, gli obiettivi, la sinistra è una parola vuota, che non trasmette nessun significato, nessun messaggio.

Dovremmo obbligarci a non parlare più di sinistra, almeno fino a che dura questo stato di cose, e a parlare delle situazioni e delle loro soluzioni possibili, dei programmi, degli obiettivi, e poi vedere chi li condivide e chi no, chi è alleato e chi è avversario.

Quasi tutte le parole della politica sono esaurite, svuotate, e hanno un sapore di retorica. Noi siamo rimasti prigionieri di queste parole e di questa retorica: sinistra, progresso, riformismo. E intanto i processi materiali andavano in tutt’altra direzione, costruendo una nuova gerarchia dei poteri, una nuova struttura di dominio. In questa combinazione di retorica e di adattamento passivo ai processi reali sta il fallimento della sinistra.

Al fondo, c’è l’idea che solo la sinistra possa assicurare lo sviluppo, in opposizione ad una destra conservatrice, rivolta al passato. Ma così la sinistra diventa il veicolo acritico di una modernizzazione che è guidata da altri. Perché oggi il discrimine non è tra progresso e reazione, tra sviluppo e stagnazione, ma tra diverse qualità dello sviluppo. Essere progressisti, ecco davvero una cosa che non significa più nulla, o significa piuttosto vivere con il ritmo dei tempi e correre dietro con cieco entusiasmo a qualsiasi cambiamento.

Se Forlani, parlando del cambiamento e del diavolo, voleva parlare di questo, della vuotezza di questo progressismo, che non ha più radici, e storia, e cultura, allora sarei d’accordo con lui, anche se probabilmente parlava di più meschine vicende interne al suo partito.

Il problema è la qualità, nello sviluppo, nell’organizzazione sociale, nell’uso delle tecnologie, intendendo la qualità come valutazione degli effetti che tutto ciò può determinare sulla vita delle persone e sui loro rapporti umani. E in nome della qualità lo sviluppo va regolato, controllato, talora anche frenato o deviato dal suo corso spontaneo, quando è produttore di barbarie, quando cioè la possibilità per l’uomo di controllare autonomamente la propria condizione di vita e di lavoro viene schiacciata da una logica tecnocratica che prescinde dal soggetto umano e dalle sue esigenze. È su questa contraddizione che si sono formati i movimenti più vitali, che si occupano di ambiente, di diritti, di solidarietà attiva, ed è l’attenzione ai problemi dell’uomo nella civiltà tecnologica che ha restituito prestigio e forza comunicativa alla chiesa cattolica.

La sinistra «progressista», produttivista, modernizzante, non si è occupata di questi temi, non si è neppure accorta della loro esistenza.

Come nell’Urss contavano le tonnellate di acciaio prodotte, qui contava il prodotto interno lordo, contava cioè uno sviluppo solo quantitativo, tecnologico, di fronte al quale la posizione della sinistra finiva per essere del tutto subalterna. Non sto divagando, ma parlo ancora di Milano, e dei limiti che la sinistra ha avuto nel cuore dello sviluppo capitalistico. E credo che tutto ciò abbia una qualche connessione con i fenomeni di degenerazione della politica.

La degenerazione è possibile – possibile, non inevitabile – quando la politica non è in grado di definire i propri fini, e diviene solo una tecnica, uno strumento neutro al servizio di processi che sono dati per oggettivi. Questa è stata la politica negli anni ottanta, un’operazione di sponsorizzazione del mercato e della sua dinamica vitale. E allora la politica stessa si fa mercato, scambio di favori, di convenienze reciproche, e nel mercato non c’è spazio per l’etica ma solo per l’interesse.

Prendiamo come un esempio, tra i tanti, la politica urbanistica: con l’abbandono di ogni ipotesi di pianificazione, con la teorizzazione dell’urbanistica contrattata, non c’è più una visione di insieme, ma ci sono solo singoli progetti, che sono fattibili in quanto c’è un punto di incontro tra gli interessi in campo, e allora si può capire come con questa cultura, con questo metro di giudizio, la pratica della tangente possa apparire non un illecito ma una forma normale della politica.

Ciò che decide è la convenienza, il compromesso. E se la politica diviene il campo di transazioni private, allora tutto è permesso.

Ci può essere perfino della buona fede in questo sistema, nel senso che non si intende più la politica e la funzione di governo come l’esercizio di una funzione pubblica, che per definizione rifiuta di essere condizionata da interessi privatistici, ma solo come uno dei tanti segmenti del mercato. È probabile che molti di coloro, uomini politici e dirigenti di azienda, che si sono trovati all’improvviso nelle celle di S. Vittore, abbiano vissuto questa esperienza come un trauma, come una prevaricazione, come un’invadenza illegittima da parte di una magistratura faziosa, giacobina, moralistica. Di questi umori, d’altra parte, si nutre la campagna craxiana contro i magistrati milanesi, i quali non solo si assumono la responsabilità di alimentare un’ondata qualunquistica contro i partiti, ma finiscono per rallentare lo sviluppo, per ostacolare il grande ciclo espansivo di una metropoli proiettata verso l’Europa.

Attenti, questi umori sono in sintonia con tutta una rete di interessi, e l’azione della magistratura potrebbe incontrare, dopo un periodo iniziale di sostegno entusiasta, una rete sempre più fitta di ostacoli. Ma tuttavia il senso del processo, quali che possano essere i suoi contraccolpi e le sue battute d’arresto, resta chiaro. E questo lungo processo politico che Milano ha vissuto può essere letto come la storia della perdita di senso della politica.

Non è allora strano che le nuove forme di disagio sociale cerchino di esprimersi attraverso nuovi strumenti, in opposizione al sistema dei partiti. Di che lamentarsi? Se vale il mercato, non ci sono appartenenze, rapporti di fedeltà, ma ciascuno può cercare dove meglio crede i propri rappresentanti.

Se una azienda perde la clientela è colpa dell’azienda e non del cliente. E se, in sovrappiù, l’azienda ha anche dirigenti disonesti, prima di tutto, per recuperare immagine, deve fare pulizia in casa propria. Questi partiti, così pronti a farsi interpreti del mercato, imparino almeno ad applicare a se stessi le leggi elementari del mercato, e si scelgano manager più competenti e più affidabili.

 

4) Il sistema dei partiti è un sistema pervasivo: esso tende ad invadere ogni campo dell’organizzazione sociale, ad occupare ogni spazio, a politicizzare ogni sfera della realtà. E questa tendenza, paradossalmente, si rafforza con la crisi dei partiti, perché essi sono spinti a reagire alla loro perdita di prestigio e di egemonia moltiplicando gli sforzi per il controllo della realtà, fino a che l’equilibrio si rompe, e noi siamo oggi a questo punto di rottura.

Il ruolo dominante e pervasivo dei partiti è stato un potente fattore di sviluppo e di costruzione dell’Italia democratica, che ha consentito di attivare le forze fondamentali del paese, di vincere le tradizionali forme di passività, di conformismo, di estraneità alla vita pubblica in cui erano state tenute le classi popolari in tutta la storia precedente, fino al disfacimento del regime fascista. Ma nello stesso tempo sono rimaste atrofizzate le altre istituzioni pubbliche. Le istituzioni dello stato non hanno vita propria, ma sono una derivazione del potere dei partiti, e non ci sono istituzioni forti della società civile, perché anch’esse sono sorte su iniziativa dei partiti e non si sono mai del tutto liberate da un rapporto di dipendenza. Ne è un esempio la storia del movimento sindacale, con i suoi progetti di unità sempre abortiti, con la sua autonomia sempre rivendicata e mai pienamente conquistata.

I partiti sono così divenuti l’elemento di mediazione universale, attraverso il quale passano tutte le decisioni. Intendiamoci, si tratta di un potere relativo, in quanto è appunto un potere di mediazione, che non sa e non può opporsi alle necessità di fondo del sistema economico e agli interessi che vi sono dominanti.

Le degenerazioni nascono su questo terreno, ed esse non si possono combattere efficacemente se non si interviene sul sistema, perché dal sistema sono generate. Occorre dunque porre mano alla costruzione di una nuova forma di stato, di un nuovo ordinamento politico.

Il punto critico da aggredire mi sembra consistere nella sovrapposizione delle funzioni, nell’assenza di ruoli chiari, definiti, autonomi, ciascuno responsabile nel proprio ordine, nell’esistenza cioè di un consociativismo istituzionale, per cui nessuna istituzione è veramente sovrana.

Tutti si occupano di tutto, e tutti hanno se non un potere di decisione un potere di veto, e al dunque tutto passa dal filtro delle decisioni politiche. Un tale sistema oggi è elemento di paralisi e di degenerazione, e per questo è urgente mettere in atto una strategia riformatrice di carattere complessivo e organico per evitare il collasso delle istituzioni democratiche.

Non dobbiamo restare bloccati da un ossequio formale alla intelaiatura della nostra Costituzione, perché questo problema dovrà essere una buona volta storicizzato, e non ha più senso vedere trame autoritarie ogni volta che si avanzano nuove ipotesi istituzionali. La Costituzione è stata elaborata nel momento in cui i partiti politici rappresentavano la garanzia più forte di tenuta e di sviluppo del nuovo ordinamento democratico, mentre oggi questa garanzia non c’è più, e quindi è l’approccio stesso che deve essere ridiscusso.

Penso ad un disegno di riforma che sia guidato dall’obiettivo della costruzione di un sistema forte di autonomie, vale a dire di poteri e di istituzioni che abbiano una propria autonoma fonte di legittimità, così da spezzare il circolo vizioso del consociativismo istituzionale.

Ciò vale per i poteri decentrati, che vanno pensati in una prospettiva del tutto nuova, il che significa intendere il regionalismo non più come decentramento di competenze, ma come autonomo esercizio di sovranità. Oggi il potere è centrale e possono essere delegate singole funzioni. Se rovesciamo questa logica, sono i sistemi regionali l’ossatura fondamentale dello stato, e il potere centrale diviene un potere di raccordo, di coordinamento, e una garanzia della solidarietà nazionale.

Ciò vale anche per il rapporto tra parlamento e esecutivo, tra funzione di rappresentanza e funzione di governo. Il parlamentarismo perfetto è la forma istituzionale che esalta il ruolo dei partiti. I governi sono solo una derivazione, un risultato della dialettica parlamentare, e quindi intrinsecamente fragili e depotenziati nella loro autorità. Non si sfugge al dilemma: o ci teniamo questo sistema, con i suoi vizi inevitabili, o si deve attuare una riforma incisiva che metta in discussione il principio stesso del parlamentarismo, così come è stato fin qui realizzato, distinguendo rappresentanza e governo, e fissando anche regole di incompatibilità tra mandato parlamentare e incarico di governo.

La DC ha cominciato a realizzare, in modo unilaterale, questo principio, dimostrando in ciò un grado notevole di lungimiranza, e ancora una volta è deprimente che dalla sinistra non sia venuta nessuna iniziativa, ma solo la solita tattica dilatoria, secondo la quale una cosa è giusta, ma non sono ancora mature le condizioni, ma va inquadrata in un disegno più ampio, e così via, in attesa che il tempo faccia giustizia di queste improvvisate velleità. Forlani, nonostante la sua avversione teologica per il cambiamento, ha saputo, su questo punto, cambiare le regole del gioco.

La funzione di governo, per garantirne effettiva stabilità ed efficacia, e capacità di programmazione a lungo termine, deve avere una propria autonoma fonte di legittimazione, come può avvenire con i metodi di elezione diretta (del sindaco, del premier), o con i sistemi elettorali a doppio turno, dove il primo turno decide della rappresentanza e il secondo della coalizione di governo. Finora invece si è parlato di «governabilità» solo come argomento retorico per tenere in piedi un sistema di governo che non sta più in piedi, per puntellare il vecchio ordinamento.

La medesima esigenza di distinzione e di autonomia, di non sovrapposizione delle responsabilità, si pone per una seria riforma della pubblica amministrazione, che si presenta oggi come una costellazione di feudi e di clientele. C’è bisogno di una struttura burocratica che non sia esposta ai condizionamenti, alle pressioni, agli opportunismi della politica.

Decisivo è per questo un nuovo percorso di designazione degli incarichi di direzione negli enti pubblici, individuando uno specifico curriculum professionale specializzato e spezzando così il metodo delle designazioni di partito. È questo un punto chiave. Come sarebbe stato possibile, infatti, costruire a Milano quel particolare sistema di potere, senza quelle figure di collegamento che stavano nei maggiori enti pubblici, senza Chiesa, o Manzi, o Prada?

In sostanza il carattere paradossale dell’attuale situazione è che dovrebbero essere proprio le forze della sinistra (con le avvertenze terminologiche di cui sopra) a porsi il problema della costruzione di forti istituzioni dello stato. Tale obiettivo non è di per sé «di sinistra», ma è la condizione pregiudiziale perché il confronto politico sia finalmente reso possibile, in termini di chiarezza, e sia liberato e ripulito dai multiformi intrecci consociativi che l’hanno condotto ad uno stadio di crescente degenerazione.

Nel momento in cui il sistema istituzionale è entrato palesemente in crisi, si può difendere la sostanza della nostra esperienza democratica solo innovandola profondamente.

I pericoli di destra, di restrizione degli spazi di democrazia, di liquidazione del ruolo dei partiti come strumenti di una democrazia di massa, non si presentano oggi come minaccia eversiva e golpista: basta lasciare andare le cose per il loro corso, perché già oggi questa democrazia di massa non c’è più e i partiti si sono trasformati in qualcosa d’altro, perché è proprio con questo sistema che la destra sta vincendo.

Che c’è allora da difendere? Dovrebbe essere chiaro che una trasformazione e una involuzione sono già avvenute, che già i poteri non sono più nella realtà quelli dettati dalla Costituzione, che rischiamo quindi di metterci a difesa solo di un feticcio. Se questo è il cuore del problema, se all’ordine del giorno è la costruzione di un nuovo ordinamento dello stato, è con questo metro che misuro le alleanze, e anche qui c’è un’inversione dell’ottica tradizionale. Mi serve di più guardare al movimento di Mario Segni che al partito iper-conservatore di Garavini. E soprattutto serve il collegamento con un vasto movimento di opinione pubblica, che su questi temi è da tempo sensibile prima ancora che essi entrassero nel dibattito politico. Ciò che è essenziale è ristabilire questo canale di comunicazione con la società, e mobilitarne le energie e potenzialità in vista di obiettivi precisi, chiari, radicali e realistici ad un tempo. Se facciamo questo, è già molto.

  1. Il necessario contrappeso di un sistema forte di governo è nel funzionamento efficace delle istituzioni della società civile e di strumenti di partecipazione democratica, di controllo dal basso, di democrazia economica. Si tratta di esigenze che fanno parte del patrimonio tradizionale della sinistra, anche se esse si sono realizzate solo in una misura assai limitata. Tutta questa problematica dovrebbe oggi essere ricollocata dentro una nuova visione della società e dello stato, con il superamento esplicito e netto di ogni forma di consociativismo.

Ad esempio, quando parliamo di democrazia economica e di partecipazione, vanno chiariti bene gli ambiti di autonomia e di responsabilità che spettano ai diversi soggetti. C’è una autonomia insopprimibile della funzione imprenditoriale, così come c’è un’autonomia dell’azione sindacale in quanto rappresentativa della soggettività dei lavoratori. Strategia di impresa e soggettività del lavoro sono due termini non riducibili l’uno all’altro, anche se può essere individuato, attraverso il confronto tra le parti, un terreno di mediazione. Entrambe queste funzioni debbono essere rafforzate e garantite nella loro autonomia. Nel caso di una sovrapposizione dei ruoli di tipo consociativo, abbiamo imprese che non funzionano e sindacati burocratizzati, come avviene in molti settori del pubblico impiego.

Per il sindacato l’obiettivo primario è la conquista di una piena autonomia. Un sindacato non consociativo basa la sua azione su un proprio progetto autonomo, il quale riflette necessariamente una parzialità, in quanto espressione della soggettività dei lavoratori. Naturalmente questa parzialità deve sapersi raccordare con l’interesse generale del paese e deve aprirsi al confronto con gli altri soggetti sodali, con le forze politiche, con le istituzioni. Ma in questo confronto c’è una dialettica, una tensione, un rapporto tra diversi.

Il sindacalismo deve navigare tra due scogli: quello del corporativismo che fa valere l’interesse parziale senza nessuna possibilità di mediazione, e che confina quindi i lavoratori in una dimensione angusta, e quello della subalternità ad una logica che gli è esterna, sia essa la logica di impresa, o quella politica. C’è bisogno quindi di una linea estremamente dinamica, di un movimento che parte dalla specificità ma che da essa cerca di trarre valori e principi di carattere generale.

Il punto di equilibrio non è facile da trovare, ed esso non può essere individuato in astratto, ma è il risultato di un processo sociale, di una esperienza vissuta direttamente dai lavoratori. Se si scavalca questo processo sociale, e i lavoratori sono posti di fronte a decisioni alle quali non hanno potuto in nessun modo partecipare, allora si spezza il vincolo dell’azione collettiva e della solidarietà, e ciascuno finisce per correre dietro ai propri umori e alle proprie convenienze. L’autonomia del sindacato non vive se non in questo rapporto sociale, e se esso si indebolisce, allora anche le organizzazioni sindacali finiscono per entrare nel circuito politico e riflettono in se stesse logiche che hanno un altro segno, un’altra origine.

Nel confronto col governo, e nella ricerca di accordi e di intese su singoli aspetti della politica economica, c’è quindi un confine non valicabile, che è dato dall’esercizio della propria funzione autonomia e dalla salvaguardia della propria rappresentatività sociale. In questo senso, giudico negativo l’accordo del 31 luglio, perché l’atto di responsabilità che si chiede al sindacato non è la regolazione equilibrata del proprio potere contrattuale ma è un atto di rinuncia. È la politica che detta le sue regole, e così certamente apparirà l’accordo ai lavoratori, come una caduta di autonomia, come una scelta che ha solo ragioni politiche e nessuna ragione sindacale.

È un atto di forza del governo? Al contrario, è proprio la debolezza del governo Amato che ha motivato quella firma, per non correre il rischio di una crisi di governo e di un pericoloso vuoto politico. Un governo forte, in grado di programmare seriamente l’attuazione del proprio programma, non ossessionato dal bisogno contingente di qualche successo di immagine, avrebbe impostato su basi diverse il rapporto con il sindacato.

La debolezza suscita altre debolezze. Nel sistema consociativo, dove tutti i poteri sono vincolati l’uno all’altro, dove c’è non il potere di decisione ma il potere di veto, non ci possono che essere istituzioni deboli. Mentre, al contrario, in una situazione di istituzioni forti ci può essere un conflitto anche aspro, ma ogni forza in campo fa valere le proprie ragioni, in piena autonomia, ed ha così luogo una reale dialettica democratica. L’autonomia e l’autorevolezza del sindacato non è quindi separabile dall’autonomia e dall’autorevolezza dei suoi interlocutori. Poteri forti si confrontano con poteri forti, e poteri deboli si confrontano con poteri deboli.

Anche per questa via giungiamo alla conclusione che c’è un problema di sistema, che la soluzione di ogni singolo problema ci rinvia ad una questione più generale che si riferisce alla forma dello stato e dell’ordinamento politico.

Quanto abbiamo detto per il sindacato, vale per la società civile nel suo complesso, per la sua rete di associazioni, di interessi organizzati, di comunità di vario ordine. Non c’è una società civile già strutturata, organizzata in modo forte, portatrice di valori positivi, alla quale si sovrappone una sovrastruttura politica inefficiente e corrotta, ma c’è un intreccio più complesso tra questi due aspetti. Non bastano le troppo facili campagne antipartitocratiche, se non c’è un disegno di riforma istituzionale che affronti e risolva il nodo politico.

In questo senso, mi sembrano essere una risposta falsa e deviante tutte quelle forme ibride che sono un tentativo di far valere la società civile come tale sul terreno politico: gruppi che si autodefiniscono rappresentanti della società civile, movimenti che si fanno partito, liste civiche dai contorni politici indefiniti. Tutto ciò sta ancora nell’ambito del consociativismo, della confusione dei poteri. L’effetto può essere solo, nell’ipotesi più ottimistica, un ricambio di classe dirigente, ferma restando la debolezza congenita del sistema, e perpetuando così sia la fragilità delle istituzioni politiche sia l’immaturità della società civile.

Nuovi mediatori, nuovi politici invadenti, forse ancora più invadenti perché pretendono di rappresentare l’intera società, e una grande spinta al trasformismo, perché tutti vorranno saltare sul nuovo carro, e ciò che prima veniva fatto nel nome dei partiti ora verrà fatto nel nome dell’anti-partitocrazia.

Il ruolo della società civile è quello di organizzare se stessa, e organizzando se stessa mette in crisi le forme della vecchia politica: così il sindacato, se si costituisce come soggetto autonomo e rappresentativo, se dimostra di fare sul serio la sua parte, costringe anche i suoi interlocutori a darsi una nuova collocazione e una nuova strategia.

Oggi c’è bisogno di una politica che sia all’altezza delle esigenze più mature e più complesse di una società che, nonostante tutto, si è sviluppata ed è cresciuta, maturando con più forza il senso dei propri diritti.

È una situazione analoga a quella che si era prodotta negli anni settanta, quando la spinta democratica che veniva da una società civile laicizzata, moderna, aperta al nuovo, trovava la sua risposta politica nella nuova stagione delle giunte di sinistra, il cui compito era quello di creare nuovi spazi democratici, nuove forme di autogoverno, e di dare anima al processo di modernizzazione del paese, di sostenerlo con la crescita culturale e civile, con l’affermazione dei diritti, con la liberazione di tutte le energie creative nel lavoro e nella vita sociale, impedendo così che esso fosse guidato dagli interessi di casta, di potere, di gruppi oligarchici.

Allora abbiamo fallito. Ma i medesimi problemi oggi si ripresentano, con una drammaticità nuova, con una intensità moltiplicata. O sappiamo ora risolverli, sapendo utilizzare autocriticamente le lezioni del passato, o non ci sarà una prova d’appello.

 

6) I partiti non sono stati, in questo ultimo decennio, lo strumento della crescita civile del paese. Anche la sinistra non ha, sotto questo profilo, le carte in regola. È questo un giudizio diffuso, che è diventato ormai un luogo comune. Ma da questo giudizio quali prospettive facciamo discendere?

Ho già accennato ai limiti e agli equivoci di una generica polemica antipartitocratica e al fatto che essa non sa uscire dai vizi del sistema consociativo. O, se viene condotta in modo del tutto conseguente e radicale, essa ci conduce da un sistema democratico dove agiscono soggetti collettivi ad un sistema dove il soggetto politico è la singola persona, ovvero il notabile con la sua rete personale di interessi e di clientele.

Io penso invece che in un nuovo contesto vada ridefinita e rigenerata la funzione del partito politico. In un sistema non consociativo, con forti istituzioni dello stato e forti istituzioni della società civile, il partito politico è ricondotto alla sua funzione originaria, come organizzatore della volontà collettiva intorno ad un progetto di società. Nel partito prendono forma universale le volontà dei singoli e dei gruppi, che altrimenti finiscono disperse e frantumate in una logica corporativa.

In realtà, nell’epoca della massima apparente espansione del potere dei partiti, ciò che è in crisi è proprio la funzione del partito in quanto depositario di un progetto politico. Ci sono burocrazie, clientele, gruppi di potere, gruppi di pressione, o ancora peggio, ma il partito come tale non è più visibile.

Cosi succede nella storia, che una istituzione acquista troppo potere e perde la sua identità. L’epoca del massimo potere temporale della chiesa è stata l’epoca della sua degenerazione come autorità spirituale. Il cattolicesimo è tornato vivo da quando ha perso la partita del potere politico. Cosi, alcuni stati hanno ripreso forza e iniziativa quando si sono liberati dal peso dei loro domini imperiali.

I partiti, per vincere strategicamente, devono saper perdere terreno.

Per questo ho una certa fiducia nel PDs, perché ha perso abbastanza terreno, e può ragionare sulla propria prospettiva con minori vincoli e minori condizionamenti. Il PDs è un partito in embrione, non ancora strutturato, e può essere il laboratorio dove far crescere un nuovo progetto, una nuova concezione della politica.

Se è vero, come insegnano i classici dell’oriente, che l’essere nasce dal non-essere, allora questa attuale indeterminatezza può essere non un limite ma il punto di partenza per un’azione creativa. Non c’è nessuna garanzia che da questo travaglio prenda davvero forma qualcosa di nuovo e di vitale, perché ciò dipende dall’intelligenza e dalla lungimiranza degli uomini, che è un bene limitato. Ma se c’è una possibilità, è in questo travaglio.

Dalle certezze degli altri, dai dogmi ideologici o dall’ostentazione del proprio ruolo di governo e di comando, non c’è da attendersi nessuna schiarita. Non hanno dubbi, e dobbiamo assolutamente guardarci da chi non sa più dubitare perché vuol dire che il pensiero si è inceppato.

La critica del consociativismo è critica del dominio espansivo dei partiti, critica del partito-stato, del partito-amministrazione, ma è anche, se la intendiamo correttamente, l’assunzione di un nuovo bisogno di politica, ovvero di progetto.

Intorno ad un progetto si possono creare, ed è auspicabile che ciò possa avvenire, aggregazioni diverse e più larghe rispetto alle posizioni di partenza dei partiti. Il progetto può diventare «trasversale», ma è solo in virtù della forza comunicativa del suo contenuto, che riesce a superare le vecchie logiche di appartenenza, i vecchi schemi. Pare invece che per qualcuno il trasversalismo sia in sé un progetto, in quanto ci si affida alla società civile, e la società civile è il terreno dei più diversi fermenti, di diverse culture, di diversi interessi. Ma è un legame debole, e se ci si ferma a questo stadio non c’è progetto, ma solo l’assemblaggio di umori, di stati d’animo e di aspettative contraddittorie.

La mia conclusione è ancora un atto di fiducia come progetto. Se cerco di guardare ai processi che si producono nella società, alla contraddizione crescente e sempre più acuta tra le forme attuali di dominio e i bisogni di autonomia, di autorealizzazione, che segnano in profondità le nuove forme della soggettività, mi sembra allora esistere non solo lo spazio ma la necessità di un’azione politica che si misuri con questi temi, di una politica davvero moderna perché fa i conti con le contraddizioni del moderno. Ma questa fiducia è possibile solo se ci liberiamo dei detriti del passato, se è fermissima la critica, se andiamo a fondo nell’analisi e nella denuncia di un sistema che ha prodotto un quadro di degenerazione.

Rovesciando un tradizionale quanto ipocrita modo di dire e di sentire, la critica non è accettabile se non è anche distruttiva.



Numero progressivo: H74
Busta: 8
Estremi cronologici: 1992
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Note: 2 copie
Pubblicazione: “Democrazia e diritto”, n. 3, 1992, pp. 37-56. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 125-145