PARTIRE DALLA CONDIZIONE MATERIALE DEL LAVORO

Intervista a Riccardo Terzi

È da qualche mese segretario regionale della CGIL della Lombardia. Una regione nella quale, in an certo senso, sono stati anticipati i processi avvenuti, poi, altrove: terziarizzazione, informatizzazione della produzione, moltiplicazione dei luoghi di formazione delle identità collettive. Il suo è un osservatorio “privilegiato”.

«Sono convinto che abbia ancora un senso ragionare in termini di “classe”. Se ci si fermasse, infatti, ad una lettura sociologica dei mutamenti avvenuti nell’ultimo decennio dovremmo concludere che la frantumazione delle soggettività, il declino del ruolo della grande fabbrica, l’incremento del terziario, la ridefinizione dei confini che separavano il lavoro manuale da quello non manuale, rendono difficile il ricorso a categorie di analisi “unitarie”. Ma il concetto di classe non può essere ridotto a dimensione sociologica dato che esso è prevalentemente una categoria politica, un effetto di un processo di unificazione politica. Processo di unificazione politica sul quale oggi bisogna lavorare individuando grandi obiettivi unificanti.»

 

Per esempio?

«I velocissimi processi di trasformazione avvenuti negli ultimi 10 anni hanno essenzialmente contribuito ad un accentramento delle sedi decisionali, ad un uso capitalistico delle nuove tecnologie e ad una marginalizzazione crescente del lavoro umano. Diventa, perciò, indispensabile un grande impegno sui temi della democrazia economica e del controllo sociale. La risposta alla domanda “chi decide?” mi sembra il terreno su cui si gioca il governo del mutamento.»

 

Molti politologi e qualche sociologo preferiscono parlare più che di “classe”, di “cittadini”: questa categoria ti sembra corretta o, comunque, più efficace per comprendere i fenomeni di trasformazione?

«Io credo che continui ad esserci una centralità del lavoro, anche se le condizioni in cui esso si svolge e l’importanza che riveste nei progetti individuali sono profondamente mutati e richiedono una riconsiderazione. Gli stessi confini del lavoro si sono dilatati e, per esempio, la separazione tra lavoro manuale e lavoro non manuale è molto meno netta di quanto non lo fosse 10 anni fa; tanto che, nella fabbrica, la distinzione più significativa oggi è tra il lavoro esecutivo e alcuni livelli direttivi, cioè quelli che partecipano alle decisioni. La questione è, ripeto, non quella di considerare arcaici concetti come quello di classe o di superare la centralità del lavoro; decisivo è individuare degli obiettivi strategici capaci di unificare questo diversificato mondo del lavoro sul problema del controllo democratico dei processi economici. E culturali.»

 

La risposta alla domanda “chi decide?” investe però anche e soprattutto una dimensione sovranazionale visto che oggi è impossibile pensare a “mutamenti in un solo Paese”. Questa sopranazionalità delle questioni come deve, a tuo parere, essere affrontata dal movimento operaio?

«Non deve né essere ciecamente assecondata, né, tantomeno, deve comportare un azzeramento delle peculiarità del movimento operaio italiano. Peculiarità che sono innanzitutto: l’autonomia rispetto al quadro politico. Certo, un’autonomia non del tutto consolidata ma, comunque, avviata. E, insieme, forti forme di democrazia come i Consigli di fabbrica. Il problema è di non chiudersi in un’ottica nazionale senza però perdere di identità: un’identità che può essere utilizzata anche come stimolo per altri parti del movimento operaio europeo.»

 

Tra le “originalità” più controverse della nostra strategia c’è stato l’egualitarismo: lo difenderesti come peculiarità da non abbandonare?

«L’egualitarismo ha avuto un senso nella fase in cui c’era il problema di correggere alcuni squilibri interni, alcuni privilegi. Di fronte ai processi di differenziazione del mondo dei lavoro che si sono affermati, pensare ancora ad una linea rigidamente egualitaria sarebbe sbagliato.»

 

Tu hai parlato di democrazia economica come obiettivo strategico che potrebbe unificare il differenziato mondo del lavoro: che cosa intendi?

«Ci sono due versanti: il primo, di governo dell’economia e quindi di una politica economica di programmazione. Oggi abbiamo l’abbandono di questa dimensione. Il secondo: del controllo dal basso, del controllo sociale. In quali forme? Ce ne possono essere di diverse: dai modelli contrattuali a quelli di partecipazione del sindacato. Di questi ultimi, abbiamo fatto anche in Italia qualche esperienza, anche se contraddittoria. Nelle piattaforme IRI c’era il tentativo di definire un modello di relazioni sindacali, che poi non ha funzionato, il quale non prevedeva nessun modello di cogestione – dato che restava l’autonomia delle parti – ma definiva procedure di confronto preventivo sui temi più importanti. Sui progetti, sulle strategie aziendali ecc. C’era, cioè, il riconoscimento pieno del sindacato, non solo come interlocutore sulle materie “sindacali”, ma anche sulle politiche aziendali.»

 

Questo con le controparti “pubbliche”, con le controparti private?

«Con quelle pubbliche non è riuscito per un intreccio di motivazioni: quelle interne al sindacato e quelle degli interlocutori che non comprendevano l’importanza dell’esperimento che si proponeva loro. Con i privati, certo, le difficoltà sono più acute, anche se c’è una discussione come in altri paesi europei, sui modelli organizzativi, sull’innovazione ecc. Su questi temi molti ritengono indispensabile il consenso dei lavoratori dato che una struttura molto gerarchizzata, rigida, renderebbe poco praticabili le innovazioni. Il problema del consenso viene diversamente affrontato dalle imprese: ci sono quelle che, appunto, si preoccupano del coinvolgimento dei lavoratori; altre che utilizzano strumenti paternalistici; altre ancora usano le elargizioni salariali al di fuori della contrattazione con il sindacato.»

 

Prima hai detto che il governo di questi mutamenti è possibile solo attraverso processi di unificazione politica. Non ti pare che per poter operare questa unificazione siano necessarie forme organizzative del sindacato – ma anche del partito – capaci di adeguarsi alle nuove esigenze?

«Certamente esiste il problema di avere strutture sul territorio capaci di determinare, oltre l’iniziativa interna alla fabbrica, anche vertenze territoriali.»

 

Ma, più direttamente, nella CGIL, in riforma – mi pare che si parli addirittura di “rifondazione” – di cui discutete è, secondo te, in grado di rappresentare, comprendere, le soggettività che si esprimono nella società? Se guardo, per fare un esempio, alle donne mi sembra che le risposte che il sindacato dà loro siano quantomeno insufficienti.

«Senza dubbio noi dovremmo darci un progetto organizzativo più preciso dato che non si tratta di qualche piccola modifica da appiccicare qui e là, ma proprio di rappresentanza. Dovremmo pensare ad un modello meno rigido, con meno pesantezze burocratiche, più flessibile. Questo vale per le donne, ma vale anche per categorie come quella dei “quadri”. Quest’ultima fascia di lavoratori, che è particolarmente soggetta all’iniziativa unilaterale delle direzioni aziendali e che ha subito processi di appiattimento, può stare nel sindacato se nel sindacato trova riconosciuta la sua autonomia. I coordinamenti che abbiamo finora avuto, hanno, in qualche modo, tamponato la falla, ma non hanno affrontato questo che, a mio avviso, è un problema urgentissimo per l’organizzazione sindacale. Lo stesso discorso credo che valga per le donne: abbiamo pensato ai coordinamenti femminili che oggi hanno una certa consistenza, ma siamo solo agli inizi di un processo. È tutta la struttura organizzativa che va riesaminata.»

 

E…. per il Partito?

«Anche qui, in modo ovviamente problematico – io non ho certezze, penso solo a possibili tracce di lavoro e di riflessione – più che pensare solo a questioni organizzative credo sia necessario operare con chiarezza un’opzione politica. È stata fatta nella “Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori” la scelta di un preciso referente sociale però, poi, nella pratica esso è smarrito. E questo produce degli effetti. Prendi la questione del fisco: noi siamo stati incerti, indecisi nell’assumere una battaglia di equità e di riforma. Così per i lavoratori delle piccole imprese – parlo di iniziative legislative – ci sono troppe incertezze. Mi rendo conto che la discussione non è semplice, che ci sono gli artigiani, che ci sono, cioè, molteplici interessi in campo. Credo che una scelta più netta di radicamento sociale nel mondo del lavoro vada fatta con molta chiarezza.»

 

Ma quando il lavoratore, fuori dal luogo di lavoro, diventa “cittadino”, deve essere, e come, rappresentato dal sindacato?

«Concretamente: penso che il primo punto di riferimento per il sindacato sia la condizione di lavoro in tutti i suoi aspetti: salario, orario, salute, ambiente. Le altre questioni non possono essere affrontate efficacemente se si perde questo primo anello fondamentale. A questo proposito, la formula usata dalla UIL – “sindacato dei cittadini” – mi procura delle perplessità, se significa che nei posti di lavoro non abbiamo più la possibilità di incidere. Si tratta, a mio parere, di una formula che sfugge al nodo vero e cioè che il conflitto sociale è dentro il processo produttivo. Poi, che ci possano essere aspetti della condizione del lavoratore nella società – servizi sociali, trasporti, casa, condizioni nei grandi centri urbani – dei quali il sindacato deve occuparsi non c’è dubbio, ma ce ne dobbiamo occupare come esigenze dei lavoratori. Cioè, è questa condizione di lavoratore che costituisce il punto di vista, e di partenza, della nostra iniziativa.»

 

Rispetto ad una fabbrica che inquina o che produce armi che cosa deve fare il sindacato?

«Negli anni passati abbiamo subìto il ricatto occupazionale. Se fate rivendicazioni troppo alte vi licenzio: era questa la tesi del padrone. E in alcuni casi si è stabilita una sorta di connivenza tra i lavoratori interessati a conservare il posto di lavoro e i datori di lavoro. Adesso stiamo cercando di affrontare questi temi in modo innovativo, stabilendo anche un rapporto con l’esterno, con le organizzazioni ambientaliste, per esempio. E questo per evitare che il sindacato si trovi ad essere una forza conservatrice su temi quali quelli dell’ambiente. C’è, però, poi un problema politico legislativo: se si deve chiudere una produzione che inquina o si deve trasferire, questo apre problemi occupazionali nei confronti dei quali bisogna pensare a protezioni dei lavoratori, altrimenti essi si schierano naturalmente contro l’innovazione. Come, cioè, c’è la cassa integrazione per i problemi di produttività, cosi dovrebbe esserci un istituto analogo per queste questioni. Occorre un intervento legislativo che affronti questi temi.»


Numero progressivo: B47
Busta: 2
Estremi cronologici: 1988, luglio
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Parcomit lavoro”, luglio 1988