PER UNA RIFORMA DELLA SOCIETÀ CIVILE

Nel ricordo di Bruno Trentin

Introduzione di Riccardo Terzi, segretario nazionale dello SPI CGIL, alla giornata studio “Nel ricordo di Bruno Trentin” – Bologna 20 novembre 2009.

Abbiamo voluto dedicare questo nostro incontro alla memoria di Bruno Trentin con la convinzione che egli ci abbia lasciato un immenso deposito di idee e di intuizioni, ancora largamente inesplorato e inutilizzato.

Forse solo ora la CGIL comincia a rendersi conto della portata di questa eredità e della sua forza innovativa ed è singolare il moltiplicarsi delle iniziative che si tengono nel suo nome.

Non è solo il riconoscimento alla persona, ma è soprattutto – così mi sembra – il bisogno di ritrovare un pensiero e di non lasciarsi dominare dalla tattica del giorno per giorno. Nel sindacato è sempre forte la tentazione di affidarsi solo all’intelligenza pragmatica guardando con qualche sospetto e diffidenza alle discussioni di carattere teorico.

Ma ora siamo ad un punto in cui si ripropongono alcune domande di fondo, sul destino delle nostre società e sulla possibilità di una loro trasformazione. E si avverte nuovamente la necessità di un fondamento teorico e culturale che sia capace di sorreggere e indirizzare tutta la nostra iniziativa. Non può bastare il “mestiere”, se non è chiaro il quadro generale nel quale ci troviamo ad agire.

Per questo Trentin è attuale, perché in lui la dimensione pratica e quella teorica non sono mai state divaricate.

È una lezione di metodo e di rigore intellettuale che torna ad essere oggi una stringente necessità.

Ai fini della nostra discussione, che riguarda le prospettive dello Stato sociale, voglio solo richiamare alcune piste di ricerca che Trentin ha consegnato alla nostra riflessione. In primo luogo, ritroviamo più volte nella sua elaborazione un’espressione piuttosto inusuale: la necessità di una “riforma della società civile”.

Che cosa significa questa formula? Essa si contrappone all’idea che alla crisi della democrazia si possa rispondere solo con le riforme istituzionali, con una manovra tutta “politica volta a dare stabilità ed efficienza alle istituzioni: legge elettorale rafforzamento dell’esecutivo, riforma del Parlamento, tutte misure che possono essere utili e condivisibili, ma che lasciate a se stesse sono del tutto incapaci di aggredire i nodi di fondo della nostra vita democratica.

Questo spiega anche una certa diffusa sordità che ha accompagnato la riflessione di Trentin perché essa si muoveva su una diversa lunghezza d’onda rispetto al dibattito politico corrente, col risultato di apparire ai più come un discorso inattuale. O di essere del tutto travisata, come se si trattasse solo di una rappresentazione apologetica della società civile nella sua contrapposizione alla sfera della politica. Al contrario il senso del suo pensiero mi sembra essere il seguente: non sono solo nella politica le strozzature, ma nella stessa struttura sociale nei suoi corporativismi, nelle sue logiche di casta, nelle sue diseguaglianze.

E quindi è a questo livello che dobbiamo prioritariamente operare, è la struttura sociale il vero banco di prova di una politica riformatrice.

È una critica a tutte le illusioni di “riformismo dall’alto”, o di riformismo senza popolo ed è un invito pressante a mettere le mani nel groviglio degli interessi, dei particolarismi, dei conflitti sociali, a vedere cioè la società civile per quello che è non come il regno di virtù civiche incontaminate, ma come il campo di una feroce competizione.

Ecco che allora è la società che in primis va riformata cercando di individuare le possibili forze motrici di un processo di cambiamento le risorse da attivare, le misure concrete da realizzare per una “democrazia partecipata”, che contrasti la spoliticizzazione e le chiusure corporative.

A me sembra essere questo un angolo visuale molto importante e ricco di implicazioni. Esso significa innanzitutto che la soluzione dei nostri problemi non può stare nella riproposizione di un vecchio statalismo, nell’idea astratta del “primato della politica”, nell’illusione cioè che sia sufficiente un forte potere di regolazione per disciplinare l’anarchismo congenito della società civile. Ciò che è accaduto in questi anni ne è una conferma: il decisionismo politico si è dimostrato una velleità, un’apparente esibizione di forza e di autorità, mentre nei fatti sono gli interessi corporativi più forti ad avere occupato tutto lo spazio della politica. Il conflitto di interessi non è un caso particolare, ma è la regola, perché tutti i confini tra politica ed economia sono stati sovvertiti.

La “riforma della società civile” è quindi l’indicazione di un piano di lavoro, fondato sull’iniziativa autonoma dei soggetti sociali, tra i quali il sindacalismo confederale può avere un ruolo trainante e di primo piano.

Questa indicazione si incrocia con due importanti innovazioni costituzionali: il federalismo, in quanto autogoverno democratico dei territori, e la sussidiarietà, che è lo spazio riconosciuto all’iniziativa dei cittadini e delle loro organizzazioni, secondo un modello istituzionale che supera il monopolio degli apparati statali ed impegna tutte le strutture amministrative ad un nuovo stile di lavoro, in un rapporto di collaborazione e di dialogo con la società civile organizzata.

Sulla base di questo impianto istituzionale, tutte le politiche di welfare possono essere ripensate, impostate in modo innovativo, superando le rigidità burocratiche del centralismo statale.

Non si tratta più solo di chiedere, di rivendicare, ma di realizzare e di sperimentare facendo uscire la società civile dalla sua passività e impegnandola in un’azione costruttiva, in un processo di auto­organizzazione e di auto-riforma.

Tra i due opposti fondamentalismi dello Stato e del mercato, c’è un grande spazio intermedio che è ancora tutto da esplorare, ed è in questo spazio che possono essere create nuove forme di convivenza e di relazione, in una prospettiva che oltrepassa la logica della mercificazione dei rapporti sociali. È in questo ambito che può svilupparsi un’esperienza di concertazione, con la partecipazione attiva dei diversi soggetti sociali e istituzionali.

II secondo tema è quello della persona, della sua centralità, del suo essere il fondamento ultimo a cui debbono essere ricondotte tutte le scelte politiche concrete.

Non si tratta affatto, per Trentin, di una svolta nella direzione dell’individualismo oggi corrente, di un adattamento subalterno al nuovo clima culturale. La persona non è l’individuo isolato, che agisce solo in base alle proprie convenienze private, ma è il soggetto che si realizza nella pienezza delle sue relazioni sociali.

Sulla base di questa impostazione, l’impegno di Trentin è quello di vedere più in profondità quali sono state nella storia sociale le motivazioni originarie, quali le ragioni e le passioni che hanno animato una straordinaria esperienza collettiva, e la sua tesi è che “la libertà viene prima”, che essa è quindi il motore fondamentale, il bisogno esistenziale primario da cui tutto il resto discende.

Egli non si colloca “oltre” l’esperienza storica del movimento operaio, in quella dimensione post-moderna e post-ideologica, che pretende di rappresentare un “nuovo inizio”, sulle rovine delle identità collettive del Novecento, ma al contrario il suo lavoro tende a scavare nella nostra storia passata per riscoprirvi le sue energie più vitali e più feconde, spesso occultate o travisate, che possono oggi ritrovare, in un mondo mutato, tutta la loro attualità.

La libertà, l’autonomia della persona, la libera soggettività, non sono pensate in contrapposizione alla dimensione collettiva, ma come la verità nascosta di quella dimensione, come il principio a cui occorre ritornare, vedendo nelle attuali trasformazioni del mondo del lavoro l’esistenza di nuove potenzialità, che consentono il rilancio di una piattaforma politica che mette al centro la persona e la sua autonomia.

Questo aspetto è decisivo nella riprogettazione delle politiche di welfare, le quali appunto devono essere politiche di sostegno all’autonomia personale, pensate dal punto di vista del soggetto e non dal punto di vista della struttura burocratica, in una logica non assistenziale e paternalistica, ma promozionale, nella prospettiva di un allargamento degli spazi di libertà.

È a partire da tutte queste premesse che prende corpo, coerentemente, la convinzione che sia oggi il “sapere”, la conoscenza, il discrimine decisivo da cui dipende il destino delle persone e la loro collocazione nella gerarchia sociale.

Se il cuore del problema è l’autonomia della persona, essa presuppone la capacità di orientarsi nel cambiamento, di fronteggiare le sue variabili, di disporre quindi di tutti gli strumenti conoscitivi per non essere soverchiati da una necessità esterna di cui non possediamo nessuna chiave interpretativa.

Non si tratta affatto di un richiamo retorico al valore della cultura, ma della precisa percezione di una frattura sociale, che ha qui, nella conoscenza, il suo contenuto essenziale, perché tutta la potenza tecnologica del nostro tempo e le conseguenti strutture di potere sono l’effetto di una straordinaria accumulazione di sapere, e chi è escluso da questo processo è spinto necessariamente in una condizione di marginalità.

Un nuovo welfare deve perciò mettere al centro tutto il problema della formazione, dell’educazione permanente, dell’accesso al sapere scientifico e all’uso delle nuove tecnologie.

Tutta questa costruzione teorica delinea una precisa concezione dello Stato sociale, centrata sui diritti fondamentali della persona, in una logica universalistica, contro ogni approccio di tipo corporativo.

La domanda che può sorgere è se il sindacato può collocarsi all’altezza di questa prospettiva, o se viceversa esso sia per sua natura incapace di oltrepassare la sua parzialità, suo essere un agglomerato di interessi settoriali.

È una domanda legittima, a cui occorre rispondere.

Si rende perciò necessaria una ricognizione concreta intorno ai comportamenti pratici delle organizzazioni sindacali, per vederne i punti di forza e di debolezza, di coerenza e di incertezza, di innovazione e di conservazione.

Ma ciò che a me sembra del tutto inaccettabile è una rappresentazione della realtà secondo il seguente schema: la politica è l’unica depositaria dell’interesse generale mentre i soggetti sociali, per la loro stessa natura settoriale, sono un intralcio di cui la politica deve liberarsi.

Nella realtà, ciò che si verifica è una dialettica del tutto rovesciata rispetto a questo modello. È la politica oggi, il più potente fattore di corporativizzazione e di segmentazione del corpo sociale. Nell’alternativa tra universalismo e corporativismo, la scelta chiara e dichiarata di tutte le forze politiche conservatrici va nella seconda direzione, interpretando la riforma del welfare come uno spostamento delle responsabilità e delle garanzie dall’intervento pubblico alle intese intercategoriali, scaricando sul sociale tutto il peso dell’iniziativa, con gli enti bilaterali, con il ritorno a logiche mutualistiche, con l’enfasi sul ruolo del “terzo settore”! in quanto sostitutivo dell’azione pubblica.

È un movimento a ritroso verso un sistema neo-feudale, dove alla cittadinanza universale subentrano logiche di casta ai diritti si sostituiscono le prerogative di status, legate al ruolo sociale, al territorio, all’etnia, dove insomma i diritti valgono solo per chi ha la forza di farli valere.

Se il sindacato è di intralcio a questo falso riformismo, questo non è un suo limite, ma un suo titolo di merito. Siamo infatti di fronte non ad una modernizzazione, ma alla negazione del progetto politico della modernità, il quale si regge sul principio di eguaglianza e sull’universalizzazione dei diritti.

Sotto questo profilo, il tema dell’immigrazione è quello più emblematico, perché qui è del tutto visibile il disegno di una società diseguale, non solo in linea di fatto, ma in linea di diritto, perché si stabilisce una totale asimmetria nel corpo sociale, tra cittadini e non cittadini, questi ultimi privi di ogni diritto e costretti dentro un vero e proprio meccanismo persecutorio.

In assenza di una politica di integrazione, tutta la recente attenzione per gli italiani all’estero ha il sapore di una beffa, è la prova di uno strabismo della politica, incapace di vedere il movimento impetuoso di una società che ha già rotto tutte le vecchie barriere e che si sta organizzando come comunità multiculturale e multietnica.

Parlare di welfare senza fare i conti con la dimensione esplosiva di questo fenomeno è solo un atto di arroganza e di cecità. Quindi, nelle condizioni date, la politica non è la soluzione ma è purtroppo, il problema. La politica, naturalmente ha le sue interne articolazioni e differenziazioni. Ma si può onestamente dire che tutto il dibattito politico è complessivamente arretrato rispetto al tema che qui affrontiamo, perché esso è tutto giocato solo sul terreno delle compatibilità finanziarie senza riuscire a sollevare lo sguardo verso le nuove emergenze sociali che occorre affrontare: l’invecchiamento della società, l’immigrazione, il lavoro precario.

Non si vedono all’orizzonte, per ora progetti che sappiano dare alla società italiana una nuova forma, una struttura, una forza di coesione.

Ecco che allora, di fronte a questa inconcludenza del dibattito politico, il sindacato, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, può giocare una funzione positiva e propositiva.

E la concertazione non è un cedimento, un appannamento dell’interesse generale, ma è l’unico modo per farlo emergere.

La politica della destra cerca di spingere il sindacato nell’angolo di una pratica corporativa: ritagliatevi il vostro spazio, e lasciate perdere tutto il resto, questo è il messaggio.

Ora, è proprio questo l’oggetto del conflitto: se il sindacato si lascia addomesticare, o viceversa si propone di agire come un “soggetto politico”, che si dà una strategia generale, cercando sempre il punto di raccordo tra gli interessi parziali che rappresenta e gli interessi complessivi del paese.

Il nodo del welfare è in questa alternativa: se assecondare una deriva corporativa, o se tentare una riprogettazione che abbia in sé un valore di universalità.

Questa partita non si svolge più solo nella dimensione nazionale, ma nei grandi spazi dell’economia globale, ed essa rappresenta un punto decisivo per la definizione di una strategia di uscita dalla crisi, proprio perché la crisi è l’effetto ultimo di un processo sociale che ha esasperato le diseguaglianze e le insicurezze.

Qui c’è ancora un limite non superato dell’iniziativa sindacale, che stenta a darsi una strategia e un’organizzazione di carattere globale, cominciando almeno ad occupare con forza tutto lo spazio politico dell’Unione Europea.

Il modello sociale europeo non è affatto un punto di approdo acquisito, ma al contrario sono all’opera molte spinte di segno contrario, e non è ancora chiaro su quali basi politiche e sociali l’Europa potrà trovare il suo punto di equilibrio. In ogni caso, data l’ampiezza delle trasformazioni sociali che investono il nostro continente, solo una politica europea può offrire delle risposte compiute, e le politiche difensive di carattere nazionale risultano essere del tutto inadeguate ed inefficaci.

Immigrazione, invecchiamento attivo, politiche del lavoro, educazione permanente, lotta alla povertà e all’emarginazione, sono i capitoli della politica sociale europea, ed essi sono tutt’ora aperti a diversi esiti.

Tutto il processo di costruzione dell’unità europea è ancora in bilico, sia dal punto di vista istituzionale, per le resistenze dei governi nazionali, sia ancor più dal punto di vista dell’idea della cittadinanza europea, se essa si costituisce come uno spazio aperto e come una garanzia di allargamento dei diritti, individuali e collettivi, o se al contrario l’operazione è solo quella di determinare un’ area di libero mercato, senza una comune identità e senza nessuna forma di partecipazione democratica alle decisioni.

In questa introduzione non posso approfondire nessuno dei capitoli, in cui si articola tutto i tema di un welfare rinnovato, e rinvio alle relazioni, le quali già indicano, con la loro scansione tematica, quali sono a nostro giudizio le questioni prioritarie. Mi limito, in conclusione, a sottolineare come tutti questi diversi capitoli rientrino in un comune discorso, che è quello della democrazia partecipata, ovvero di una piena cittadinanza per tutti, senza nessuna esclusione.

Si tratti dei lavoratori precari, o degli immigrati, o degli anziani messi ai margini della vita attiva, in tutti questi casi è in gioco la qualità della convivenza democratica e la possibilità per tutti di partecipare con pieni diritti alla vita collettiva e di entrare come soggetti attivi nel processo democratico. Il filo che lega tutte queste diverse situazioni è la lotta contro l’esclusione, contro la passività, contro le disuguaglianze, in breve contro l’idea di una società competitiva, destinata ad essere scissa tra vincenti e perdenti, lasciando a questi ultimi solo la miseria di qualche misura assistenziale.

Così, ad esempio, il modo in cui viene affrontato tutto il problema dell’invecchiamento è un indice del grado complessivo di civiltà di un determinato paese, e la straordinaria dimensione che questo problema viene assumendo, date le attuale tendenze demografiche, richiede un nuovo approccio globale, considerando tutti i complessi risvolti sociali ed esistenziali che riguardano questa fase critica della vita.

In questa prospettiva, è chiaro tutto il valore dell’idea di persona, la necessità di sostenerla nella sua autonomia, nella progettazione del suo futuro, scongiurando un destino di passività e di marginalità.

Per questo abbiamo bisogno di una democrazia forte e organizzata. Se la democrazia declina, anche le politiche sociali, inevitabilmente, finiscono su un binario morto, perché la crisi della democrazia vuoi dire che l’unico principio regolatore diviene quello del mercato. Ed è esattamente questo oggi il terreno di scontro, da cui dipende tutto il nostro futuro, La democrazia non è un risultato ormai messo al sicuro, ma è un processo che deve essere riconquistato. Non penso solo alle anomalie della situazione politica italiana, ma al dilemma che sta nel cuore di tutta la nostra civiltà occidentale.

Anche nella più grande potenza mondiale, che ha rappresentato un modello democratico espansivo, è aperta la questione del comando, di dove sta l’effettivo potere di decisione, se alla Casa bianca o a Wall street. E non a caso la partita si gioca proprio sul terreno del welfare, con il braccio di ferro sulla riforma sanitaria.

Se in questo scontro il sindacato vuole avere una qualche possibilità di azione e di influenza, e non essere travolto, esso deve proporsi di agire come una forza di promozione democratica, attivando tutte le energie sociali disponibili. Deve essere un soggetto politico, dotato di un suo progetto e di una sua autonoma legittimazione democratica, e tutto questo oggi deve essere proiettato su una scala più ampia, andando oltre la dimensione nazionale. II rafforzamento della confederalità è quindi l’unica fondamentale risorsa che abbiamo a disposizione.

Le suggestioni di un modello corporativo, categoriale, le illusioni di una conflittualità svincolata da un quadro confederale unitario, portano solo ad una posizione subalterna, alla rinuncia a stare in campo sulle questioni che sono davvero fondamentali.

Il Congresso della CGIL deve fare chiarezza su questo punto. E lo Spi è per sua natura, proprio in quanto rappresenta l’intero universo sociale della terza età, in tutta la sua complessità, un punto di forza della confederalità del sindacato.

II tema attuale è quello già delineato da Trentin: un sindacato dei diritti e della solidarietà.

Ma occorre capire che non si tratta di una frase retorica, ma di un impegnativo programma di lavoro, e che dobbiamo attrezzarci, sul piano culturale e su quello organizzativo, per fare davvero della CGIL e dell’insieme del movimento sindacale una forza di trasformazione sociale.



Numero progressivo: D21
Busta: 4
Estremi cronologici: 2009, novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Bruno Trentin e il nostro futuro”, Ediesse 2010, pp. 9-17