PRIMO: DIVENTARE DEMOCRATICI

di Riccardo Terzi

Il sindacato deve scegliere fra declino e rinnovamento attraverso la costruzione di un sistema di regole certe, sancite per legge. L’unità resta l’obiettivo politico, ma nel quadro di un confronto basato sui princìpi di rappresentatività e di maggioranza.

1) Dal Congresso nazionale del 1986 a oggi, il gruppo dirigente della CGIL è stato impegnato in una discussione interna assai complicata, spesso confusa, talora anche lacerante, nella quale sono emersi diversi spunti di ricerca, che ancora attendono un approdo politico conclusivo.

È comunque merito indubbio della CGIL aver posto apertamente, in tutta la sua dimensione, il problema della crisi dei sindacato e delle sua necessaria rifondazione, anche al prezzo di un’analisi autocritica impietosa, e correndo coscientemente il rischio di una destabilizzazione. Questa scelta ha comportato una lotta politica interna, che non può dirsi ancora conclusa, contro la naturale forza d’inerzia che è propria di tutte le grandi organizzazioni, contro lo spirito burocratico di routine e contro le peculiari forme di autolegittimazione ideologica attraverso le quali esso si mimetizza e si nobilita. L’organizzazione tende a riprodurre all’infinito le proprie modalità di funzionamento; agisce la grande potenza conservatrice del “buon senso”, che consiglia prudenza e misura, e che rifugge da ogni soluzione radicale, riconducendo tutti i grandi interrogativi nel piccolo orto dell’esperienza quotidiana conosciuta.

È per effetto di questa silenziosa forza di conservazione che lo scontro politico assume forme non sempre limpide, perché non si fronteggiano apertamente posizioni diverse, opzioni alternative, e accade quindi che il processo di rinnovamento non incontra esplicite e dichiarate opposizioni politiche, ma piuttosto una resistenza sorda e inespressa con la quale è assai più difficile fare i conti.

La stessa parola d’ordine delle rifondazione, inizialmente contrastata e anche dileggiata, ha rischiato di essere svuotata del suo significato innovativo, per ridursi ad una formula ripetitiva, ad un rituale burocratico. Le parole, con le quale si cerca di interpretare e di capire la realtà in movimento, vengono catturate, distorte, piegate alla vecchia logica.

Tuttavia, l’esito di questo travaglio politico della CGIL è provvisoriamente positivo, in quanto si è impedita una normalizzazione, e la situazione resta aperta, e restano intatte quindi le potenzialità di rinnovamento.

In questo senso, la CGIL giunge agli appuntamenti politici di oggi in condizioni migliori rispetto alle altre organizzazioni, più disponibile a mettersi in discussione, e più consapevole dei rischi di logoramento, di declino e di sconfitta, che incombono sul sindacato.

 

2) Evocare il pericolo di una sconfitta non è un artificio retorico. Il processo sociale o politico di questo ultimo decennio è caratterizzato infatti da un movimento profondo di riorganizzazione, su larga scala, del potere capitalistico, il quale tende a spezzare tutti gli argini che l’hanno fin qui limitato e condizionato, e tende ad affermare direttamente la propria egemonia in quanto forza trainante del cambiamento.

Ciò rimette in discussione tutti i vecchi equilibri, e fa saltare i punti di compromesso e di mediazione che avevano regolato il rapporto tra Stato e mercato, tra capitalismo e democrazia. Nel contesto di questo processo, di questa complessiva riorganizzazione degli assetti sociali guidata dai grandi gruppi capitali stici, non c’è più spazio per la tradizionale politica di mediazione. Da qui viene la crisi del vecchio blocco dominante, imperniato sulla Dc, il quale a questo punto si legittima solo in quanto asseconda consapevolmente le tendenze in atto, e rende esplicita la sua vocazione conservatrice.

Da qui viene per la sinistra la necessità di una scelta radicale: o si adatta o si costituisce come forza alternativa. È in gioco il governo del processo sociale complessivo, la definizione dei fini dello sviluppo, è in gioco quindi il senso stesso della politica. In questa grande partita politica, l’autonoma e specifica ragion d’essere del sindacato è messa brutalmente in questione.

Sul sindacato si esercita una fortissima pressione per piegarlo ad una logica di omologazione, in cui esso può assolvere solo ad una funzione corporativa e subalterna. E, d’altra parte, se esso rifiuta questo esito, rischia di essere risucchiato in una posizione di collateralismo alle esigenze dell’opposizione politica, col risultato di vedere anche in questo caso offuscate le sue autonome regioni fondative. Non è più chiaro, in sostanza, che cosa significhi oggi autonomia del sindacato. C’è ancora spazio per questa autonomia? O non è essa un’apparenza, una finzione diplomatica, mentre nella realtà il sindacato è solo il terreno di caccia dove si fronteggiano opposti progetti di egemonia?

L’offensiva dei grandi gruppi capitalistici, così nettamente evidenziata dal caso Fiat, non è, d’altra parte, comprensibile come una delle tante e ricorrenti offensive antisindacali del padronato, come una sorta di ritorno agli anni Cinquanta. Si tratta invece di un processo assai più vasto e complesso, in quanto esso trasforma radicalmente gli assetti produttivi, le tecnologie, le forme e i contenuti del lavoro, incide quindi direttamente sulla composizione, sui bisogni, sulla coscienza della classe lavoratrice.

L’attacco al sindacato e alle sue ragioni non è solo politico, ma strutturale, in quanto si affida alla forza dirompente dei processi di ristrutturazione e di innovazione, i quali si presume che possano determinare un vero e proprio collasso di ogni forma di solidarietà collettiva dei lavoratori, e quindi di ogni progetto di trasformazione sociale. Resta solo il conflitto degli interessi individuali, delle corporazioni. Resta l’inevitabile anarchia degli individualismi, che è un fattore costitutivo dell’ordine sociale e che può essere regolato con opportune politiche di repressione e di incentivazione.

Non regge pertanto una linea che sia solo difensiva, di resistenza: essa finirebbe travolta, spiazzata dai processi oggettivi di cambiamento, che spostano progressivamente il terreno, i contenuti, e i soggetti, dello scontro sociale. Non si può far leva sui tradizionali punti di forza, perché essi non sono più tali. Non si possono ripercorrere i vecchi copioni, perché non hanno più riscontro nella realtà delle cose.

Il sindacato allora, stretto tra la logica totalitaria di un processo di modernizzazione che tende a liquidare i suoi valori fondativi, e l’illusione di un ritorno al passato, di una controffensiva operaia vincente, stretto quindi tra rassegnazione e protesta, corre davvero il pericolo di un declino.

Può sfuggire al declino solo se trova per tempo la via della ridefinizione di un proprio ruolo, che sia all’altezza dei processi di trasformazione, e che sia nello stesso tempo un ruolo autonomo, non coincidente con i valori della modernizzazione in atto, tale quindi da legittimare in forme nuove il valore del conflitto sociale.

L’autonomia del sindacato come soggetto sociale: è questo in sostanza il tema della riflessione e della discussione che sono oggi aperte, nella CGIL e, si spera, nell’intero movimento sindacale.

 

3) Di fronte alla nuova organizzazione del potere, alla sua struttura oligarchica, il problema centrale della politica torna ad essere il problema della democrazia.

Mentre si costituisce una trama di poteri autosufficienti e autoregolati, la questione, su cui si misura il senso e la qualità della politica, è la possibilità di ricostruire il percorso di un controllo sociale, di ristabilire il circuito che si è spezzato tra l’esercizio del potere e gli interessi collettivi.

Questo approccio, che assume in modo conseguente e radicale il tema della democrazia, mi pare fecondo, in quanto consente di rintracciare, nella complessità dell’organizzazione sociale, il filo conduttore di un’analisi critica e di una possibile proposta politica.

Questo medesimo metro di valutazione può servire anche per inquadrare i problemi del movimento sindacale, per capire la dinamica della sua crisi e le possibili risposte che ad essa possono essere date.

Se giudichiamo con questo metro, è evidente come il problema della democrazia sia un problema tuttora irrisolto per l’organizzazione sindacale, nelle sue diverse espressioni. È evidente come il movimento sindacale si sia organizzato storicamente su premesse teoriche e su princìpi organizzativi che escludevano ogni possibile affinità con la problematica della “democrazia politica”.

Nel bagaglio dei valori del sindacato ci sono altri princìpi: solidarietà, unita, uguaglianza. Non c’è, e non c’è mai stata, la democrazia come valore costitutivo. C’è, all’opposto, la critica del parlamentarismo, c’è l’idea di una unità sociale e di classe che esclude a priori ogni considerazione del pluralismo politico, il quale viene inteso come un elemento estraneo, importato dall’esterno, sintomo di una mancata autonomia, di una invadenza della politica, che introduce nel corpo unitario della classe differenze artificiose.

Sulla base di queste premesse, che hanno evidentemente una loro motivazione storica, il sindacato ha potuto fin qui eludere il problema della democrazia. E ora paga, drammaticamente, l’assenza di regole, l’incapacità totale di incanalare entro procedure democratiche certe e formalizzate l’esplosione delle differenze, delle diversità, che si manifestano sia sul terreno degli indirizzi politici generali, sia su quello degli interessi sociali immediati.

Mentre il processo sociale tende ad imporre un modello di decisionismo antidemocratico, il sindacato rischia così di essere partecipe e corresponsabile di questa tendenza. Rischia di non saper offrire nessuna capacità di resistenza, in quanto non ha elaborato e sviluppato al proprio interno un modello democratico efficiente.

A questo punto, entra inevitabilmente in un processo di crisi, perché non c’è più coerenza tra i suoi obiettivi e la sua prassi e si interrompe il rapporto organico di fiducia tra rappresentanti e rappresentati.

 

4) La questione della democrazia esplode come contraddizione dentro il movimento sindacale, in conseguenza dei mutamenti profondi che sono intervenuti nel mondo del lavoro.

Fino a quando era possibile concepire la classe lavoratrice come un insieme relativamente compatto, socialmente omogeneo, fino a quando l’organizzazione sindacale aveva come suo punto di riferimento e come punto di forza alcune essenziali figure sociali, e poteva modellare la propria iniziativa a partire da esse, la democrazia in quanto criterio regolatore del pluralismo appariva come un problema estraneo all’esperienza del sindacato.

Nella tradizione di sinistra, la responsabilità di scelta veniva affidata alle avanguardie, allo strato più consapevole e più combattivo, più capace quindi di interpretare le ragioni storiche complessive della classe, e la richiesta di regole democratiche veniva quindi considerata come un tentativo di far valere, contro il ruolo dirigente delle avanguardie il punto di vista più arretrato, più ristretto, meschino, o anche opportunista, di una massa di lavoratori ancora incapace di vedere con chiarezza i problemi di fondo della propria condizione sociale.

In questo contesto, la democrazia referendaria era nettamente rifiutata. Si vedeva in proposte di questa natura il tentativo reazionario di creare anche nella classe operaia una sorta di “maggioranza silenziosa”.

Inoltre, mentre nel movimento sindacale si veniva costruendo un nuovo processo unitario che avrebbe dovuto avere come sbocco l’unità sindacale organica, qualunque richiamo alle ragioni del pluralismo non poteva che apparire come un tentativo di deviazione del processo unitario, come una manovra da respingere facendo valere con forza le ragioni specifiche del sindacato che, se vuole essere interprete delle esigenze comuni di tutti i lavoratori, non possono essere in nessun modo assimilabili alle ragioni della democrazia politica.

Il quadro non è sostanzialmente diverso, sotto il profilo della democrazia, se prendiamo in considerazioni le posizioni delle organizzazioni sindacali di ispirazione cattolica, dove è sempre stato molto forte l’elemento associativo, il privilegiamento cioè del ruolo dell’organizzazione e degli iscritti, e dove sono maturate le varie ipotesi di “scambio politico” e di concertazione, dove quindi nel rapporto tra organizzazione e lavoratori è comunque decisiva l’iniziativa dall’alto.

Da queste diverse tradizioni convergenti deriva un processo unitario assai peculiare, che non ha prodotto l’auspicata unità organica, che non ha unificato in profondità l’intera classe lavoratrice, ma si è configurato piuttosto come un patto di vertice, come un vincolo dei gruppi dirigenti a ricercare al proprio interno la necessaria mediazione per poter esercitare così, in un contesto formalmente unitario, la propria autorità sul mondo del lavoro.

Anche la cornice giuridica si adegua a questo processo con il riconoscimento delle “organizzazioni maggiormente rappresentative”, la cui rappresentatività è un dato storico acquisito, che non ha bisogno di ulteriori verifiche democratiche, e la cui autorità è riconosciuta nel quadro di un patto unitario che le vincola reciprocamente e che esclude quindi l’applicazione dei criteri di proporzionalità e di maggioranza.

 

5) La domanda che può legittimamente essere avanzata è se questo particolare retroterra culturale del movimento sindacale italiano, che ha esplicitamente escluso la democrazia come valore fondativo, non sia la causa prima della crisi attuale, se dunque i percorsi della rifondazione non debbano coincidere con i percorsi della democrazia.

Io penso che le cose stiano esattamente così, che questo è il nodo da sciogliere, e che non ci sarà futuro per un gruppo dirigente sindacale che pensi di poter governare dall’alto, per investitura, un mondo del lavoro che in questi anni si è così fortemente differenziato, ed ha maturato una più ferma coscienza dei propri diritti.

Non è più il tempo in cui un’avanguardia illuminata può rappresentare e mobilitare una massa amorfa, incapace di una propria iniziativa.

Oggi non ci sono avanguardie, ma ci possono essere oligarchie.

Non è un astratto discorso democraticista, a cui si possa rispondere con un’alzata di spalle, o con qualche inconcludente dichiarazione di buona volontà. È invece, a questo punto, una questione di strategia sindacale.

Il mondo del lavoro si è differenziato, articolato, sia dal punto di vista delle sue condizioni oggettive, sia nei suoi elementi soggettivi di coscienza. La crisi di rappresentatività del sindacato è la crisi del suo modello organizzativo rigido, centralizzato, uniforme, incapace di organizzare le differenze, le specificità, incapace di politiche flessibili e differenziate.

Si rischia così di non capire i mutamenti, di non saper interpretare i bisogni soggettivi dei lavoratori, e di vedere quindi in ogni elemento di specificità, in ogni fenomeno che sfugge alla rigidità del nostro modello, il germe del corporativismo, della disgregazione individualistica. Ovunque si aggira lo spettro dei Cobas. Ovunque è in agguato il pericolo dell’individualismo, e non vediamo come questo “individualismo” sia assai spesso il portato di quella crescita di coscienza che è il risultato della lotta e delle conquiste del movimento sindacale.

Bisogna allora ripartire dalla realtà concreta, e ricostruire un’effettiva capacità rappresentativa, il che comporta oggi necessariamente la trasparenza di un rapporto democratico tra sindacato e lavoratori, tra rappresentanti e rappresentati.

Su questa nostra crisi di rappresentatività fa leva, pesantemente, l’offensiva dei grandi gruppi capitalistici, il cui obiettivo non è quello, irrealistico, della liquidazione totale del sindacato, ma è quello di ridurre il sindacato ad un interlocutore debole, senza radici, senza rappresentanza reale, senza una presenza effettiva e radicata nei luoghi di lavoro, costretto quindi a trattare in condizioni di estrema inferiorità, ad accettare la logica dell’impresa pur di vedere in qualche modo riconosciuto il suo ruolo contrattuale.

Per questa via il sindacato non è né istituzione, né movimento, è solo un apparato burocratico privo di qualsiasi potere.

Il potere del sindacato, e quindi la sua forza come grande istituzione sociale, fa tutt’uno con la sua capacità rappresentativa, la quale si esercita direttamente nei luoghi di lavoro, trattandosi appunto di una rappresentatività sociale e non politica, riferita alla figura sociale del lavoratore e non alla figura politica del cittadino. Non è una via d’uscita la scorciatoia del “sindacato dei cittadini”, che è espressione in sé contradditoria, e che porta il sindacato fuori del suo terreno naturale.

Occorre dunque una strategia sindacale centrata sull’impresa, essendo questo il luogo dove si riassumono tutte le questioni essenziali: le nuove forme di potere, l’innovazione tecnologica, la modernizzazione, la nuova configurazione sociale del lavoro, il conflitto.

La risorsa democratica è allora una condizione politica pregiudiziale, in quanto non è possibile una strategia di articolazione senza una fitta rete di rappresentanze democratiche, senza la capacità di mettere in campo un consenso attivo. Si discute se nella strategia dell’impresa non sia oggi necessario il fattore del consenso e della partecipazione dei lavoratori, se non siano quindi controproducenti i modelli organizzativi fortemente gerarchizzati e autoritari.

L’impresa probabilmente può scegliere tra questi diversi modelli. Ma il sindacato non ha scelta. Esso ha un ruolo nell’impresa se ha una effettiva rappresentanza, se ha radici nel corpo vivo dei lavoratori.

Altrimenti è estromesso. Si può occupare d’altro, si può illudere di far valere la sua forza contrattuale su altri terreni, ma in realtà è sconfitto.

Ecco perché tutti i problemi della rappresentanza e della democrazia sono oggi essenziali. Il ritardo e lo stato di incertezza e di confusione che oggi registriamo su questi temi sono un indice allarmante della difficoltà e della crisi del sindacato. È a questo punto un problema non rinviabile, prioritario. E va affrontato rendendo esplicite le diverse opzioni possibili, impegnando tutta l’organizzazione sindacale in un dibattito chiaro, trasparente, non essendo ormai più sufficienti i piccoli compromessi, spesso pasticciati e confusi, spesso inapplicati, con i quali abbiamo in questi anni cercato di galleggiare, in un quadro di estrema confusione e di totale arbitrio.

 

6) Oggi non ci sono regole. La storica avversione per i princìpi della democrazia politica ha partorito una situazione intollerabile di arbitrio, nella quale sui gruppi dirigenti non agisce nessun vincolo democratico capace di regolarne e di guidarne le decisioni.

D’altra parte, il vincolo unitario, che nella fase precedente aveva funzionato come criterio regolatore, è anch’esso saltato, come dimostrano i casi, ormai non più isolati e marginali, di accordo separato.

La soluzione non è in una democrazia di tipo plebiscitario.

Non mi sembra auspicabile una situazione di permanente precarietà dei gruppi dirigenti, esposti in continuazione al rischio di una sconfessione, né mi sembra che la forma più efficace di democrazia e di partecipazione dei lavoratori stia in una continua ginnastica referendaria.

Il problema per il sindacato è la costruzione di un sistema efficace di democrazia rappresentativa. Occorre cioè che i lavoratori possano finalmente scegliersi liberamente i loro rappresentanti, e che sia chiaro quindi quale è il percorso democratico e quale è il mandato di fiducia che legittima i gruppi dirigenti ai vari livelli.

Ciò comporta necessariamente, nelle condizioni di oggi, l’accettazione, sia pure temperata, del principio di proporzionalità e di maggioranza.

È evidente che l’obiettivo dell’unità resta, per il sindacato, un elemento essenziale. Ma l’unità è il risultato possibile e auspicabile di un processo politico, non è una condizione di partenza, e non è possibile escludere momenti di differenziazione e di competizione. Occorrono allora regole per evitare che ogni singola e parziale differenziazione dia luogo a conflitti laceranti, per decidere in sostanza, in presenza di opzioni diverse, quali sono i meccanismi decisionali per dirimere il conflitto. E finora nessuno ha ancora trovato un metodo più ragionevole di quello democratico, secondo il quale il parere della maggioranza ha forza di decisione.

E questo criterio democratico deve valere per tutti i lavoratori, e non solo per gli iscritti, in quanto le scelte del sindacato hanno un effetto universale.

L’elemento centrale, allora, di un sistema di democrazia sindacale è la costituzione nei luoghi di lavoro di organismi rappresentativi, eletti da tutti i lavoratori, aperti a tutte le organizzazioni che siano in quella singola realtà rappresentative, senza situazioni di monopolio, senza rendite parassitarie, senza il vincolo di una unità coatta; ed è anche l’attribuzione a tali organismi di un effettivo potere di contrattazione e di decisione.

Sulle modalità di elezione e di funzionamento possiamo discutere e possiamo anche trovare forme di garanzia per le organizzazioni minori. E possiamo naturalmente, ovunque sia possibile, gestire unitariamente questo processo democratico. L’unità non deve essere obbligatoria, non deve essere una gabbia che comprime artificiosamente le differenze, ma resta, almeno per noi, un obiettivo. Non auspico una situazione generalizzata di concorrenzialità. Auspico una situazione di chiarezza, nella quale l’unità, quando c’è, è vincolo vero, convinto, è il risultato di un processo politico condiviso.

In sostanza, dobbiamo rendere possibili diversi scenari, devono essere possibili e legittimi diversi giochi, o di unità o di differenziazione e di competizione.

Ci può essere un ampio ventaglio di soluzioni. Mentre oggi c’è l’alternativa drastica tra unita e rottura. E quando prevale la rottura, non c’è nessuna possibilità di verifica democratica.

Un sistema robusto di democrazia rappresentativa deve prevedere anche il ricorso al referendum, per dirimere situazioni di particolare difficoltà; deve quindi integrarsi con momenti di democrazia diretta.

In ogni caso servono regole.

Tali regole possono essere il frutto di una capacita di autoregolazione del sindacato. Ma è realistico oggi affidarsi soltanto alle autonome risorse del movimento sindacale?

Troppe volte si sono fatti accordi e sono stati stracciati.

Il sindacato, francamente, ha dimostrato in questi anni una scarsissima capacità di autoregolazione, e quindi oggi appare priva di giustificazione l’affermazione di principio che contrappone le ragioni dell’autonomia alle ipotesi di intervento legislativo. Tanto più che un ordinamento giuridico già esiste, e di esso appunto si discute per adeguarlo alle nuove esigenze. Opporre un’obiezione pregiudiziale di principio, significa oggi scegliere la via della conservazione totale, significa la pura e semplice difesa dello status quo. È invece necessario un processo nuovo, da costruirsi non con interventi d’autorità, ma come ricerca di un punto di equilibrio che possa risultare da un confronto aperto nelle organizzazioni sindacali e nel rapporto tra il sindacato e la cultura giuridica.

Il percorso può essere analogo a quello che si è seguito per la legge che regola il diritto di sciopero nei pubblici servizi. Non ci possono essere, quindi, forzature unilaterali, ma c’è un processo da costruire con il contributo di tutti.

Il punto di osservazione, nel trattare di queste questioni, non può essere solo la convenienza delle singole organizzazioni, ma il diritto del singolo lavoratore. E tale diritto deve essere tutelato anche con la forza della legge.

Per questo, la via non può essere quella di un accordo tra le parti sociali, perché non si tratta qui delle relazioni sindacali o del modello contrattuale, ma si tratta dello statuto di democrazia del sindacato, il quale in via di principio non può essere oggetto di contrattazione.

Il “riconoscimento reciproco” non sarebbe altro che un patto corporativo tra le organizzazioni, mentre la questione che si è aperta è quella di garantire diritti democratici a tutti i lavoratori e a tutte le strutture associative in cui essi si organizzano. Questo vale anche per quelle organizzazioni sindacali che possono essere politicamente combattute in quanto corporative, ma che debbono avere la possibilità di verificare il loro grado effettivo di rappresentatività, e di pesare in proporzione nella determinazione delle scelte che interessano l’universalità dei lavoratori.

La scelta da realizzare è il passaggio a un sistema democratico conseguente, combinando a questo fine scelte autonome del sindacato, atti legislativi, e contrattazione di nuove regole tra le parti sociali. L’importante è, al di là dei numerosi e complessi aspetti tecnici, la direzione di marcia del processo.

 

7) Per questa via il sindacato può ritrovare autorevolezza. Può proporsi di essere una grande istituzione sociale.

Non temo la parola istituzione. Temo piuttosto il rischio per il sindacato di essere tagliato fuori da tutte le sedi decisionali, di essere un’organizzazione residuale, che non incrocia più le sedi reali del potere.

Se le basi della legittimazione democratica sono salde, se il circuito democratico tra lavoratori e sindacato viene ricostruito, allora possiamo affrontare tutte le sfide, possiamo cimentarci anche sui terreni più scivolosi.

Credo dunque che ci sia ancora uno spazio reale per l’autonomia del sindacato. Ma questo spazio è oggi più pesantemente insidiato, è esposto ad incursioni di diversa natura, ed esso può essere difeso solo se per il sindacato è ben al centro il problema del lavoro, della sua concreta condizione sociale, e se funziona un meccanismo reale di rappresentanza dei lavoratori. Insomma, il sindacato dovrà con più determinazione combattere per difendere la sua autonomia, per far valere le sue specifiche ragioni, i suoi valori. Dovrà, a partire da una analisi concreta del lavoro così come è oggi, elaborare propri autonomi progetti, che potranno, di volta in volta, trovare nello schieramento politico consensi e dissensi.

Questa tenacia nella ricerca dell’autonomia è un punto essenziale del rinnovamento della CGIL, che è per la sua storia particolarmente esposta ai rischi di un condizionamento politico esterno. La CGIL non è la “casa comune” di comunisti e socialisti. Se il Pci e il Psi sono in grado di realizzare un progetto unitario, lo facciano. La CGIL è un’altra cosa, non è un laboratorio per esperimenti politici.

È “di sinistra” non per virtù dei collegamenti partitici, ma se e in quanto riesce a realizzare nella realtà sociale e nel conflitto sociale un’azione di cambiamento, uno spostamento dei reali rapporti di forza. In questo senso è oggi in discussione il ruolo delle “componenti”, perché più è forte la logica delle componenti più è debole la logica del sindacato come soggetto autonomo. Ma oggi ci sono le forze per un progetto nuovo, di autonomia, di rinnovamento, di democratizzazione. La partita è aperta.



Numero progressivo: B36
Busta: 2
Estremi cronologici: 1989, luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Micromega”, luglio 1989, pp. 217-237