REGIONALISMO E RIFORME ISTITUZIONALI

di Riccardo Terzi

Il sistema politico e istituzionale è ormai in una fase non solo di crisi, ma di generale sbandamento e di collasso. L’autorità dei partiti politici e delle istituzioni è esposta a un processo di vera e propria delegittimazione, e quindi sono le condizioni di base della coesione nazionale e del patto di cittadinanza ad essere investite dalla crisi.

Solo una grande strategia riformatrice, da attuarsi con estrema determinazione e radicalità, può evitare il crollo del nostro ordinamento democratico. E il tempo a disposizione è ormai poco. Il movimento sindacale non può essere neutro e passivo di fronte a problemi di tale portata. Se all’ordine del giorno è posta la necessità di delineare una nuova architettura istituzionale, una nuova forma dello Stato, allora in questo processo, che fisserà i tratti costitutivi della seconda Repubblica, il sindacato deve entrare a pieno titolo come un protagonista dell’iniziativa di riforma, per imprimere ad essa una forte connotazione democratica e sociale.

Contrapporre le questioni sociali ai temi di carattere istituzionale è operazione ormai del tutto priva di senso, perché siamo in presenza di una crisi organica di sistema, che può essere affrontata solo nella sua globalità. Non c’è quindi un’uscita sociale dalla crisi che non faccia i conti con la crisi delle istituzioni politiche. Per questo il sindacato è necessariamente coinvolto in prima persona, e la sua azione, o la sua mancanza di azione, è un elemento del quadro complessivo.

Fino ad ora questa presenza del sindacato non è stata visibile, e il sindacato appare perciò come un anello del vecchio sistema, chiuso in una posizione difensiva. Il cambiamento è spesso avvertito più come un pericolo che come una necessità.

Si vedono all’orizzonte nuovi pericoli di destra, nuove oligarchie (e non sono certo timori infondati), ma questi timori agiscono come alibi per non affrontare il problema del cambiamento politico-istituzionale. Come se fino ad ora non fossimo stati dominati da una delle peggiori oligarchie. Occorre dunque, a mio giudizio, una svolta nelle posizioni del sindacato, che nello scontro politico aperto deve schierarsi decisamente dalla parte del cambiamento. La crisi è di sistema. È il sistema politico-istituzionale nel suo complesso che ha perso la sua capacità di rappresentanza, che agisce ormai come un corpo estraneo alla società e viene avvertito dall’opinione pubblica come un potere ostile, separato, come una struttura solo di dominio, non legittimata dal consenso. La degenerazione oligarchica della democrazia non è, appunto, una minaccia, ma una realtà.

Nasce da qui, da questa rottura del rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini, un clima culturale diffuso che, in varie forme, istituisce una radicale opposizione tra società civile e società politica. Il successo della Lega sta dentro questo contesto, ed esprime, in ultima istanza, una rivendicazione di autonomia della società civile, rivelando di questa società civile anche le sue grettezze particolaristiche ed egoistiche. Scalfari e Segni dicono le stesse cose, a un livello diverso, perché si passa dallo spirito bottegaio allo spirito grande-borghese.

In questo diffuso movimento antipartitocratico ci sono semplificazioni e distorsioni non accettabili, ma c’è anche un fondamento di verità che va colto, c’è una nuova passione civile e democratica che può essere una risorsa nel processo di rinnovamento della vita pubblica. Insomma, non è “la nuova destra” come per troppo tempo si è detto, con miope prevenzione, come ancora oggi qualcuno ripete, e ormai non è più miopia, ma cecità.

Noi non assumiamo lo schema interpretativo che si basa sull’opposizione di società civile e società politica, in quanto si tratta di uno schema astratto e ideologico. La crisi non è nel fatto che si è sovrapposta una sovrastruttura burocratico-autoritaria a una società civile sana e dinamica, ma è nell’intreccio perverso di poteri oligarchici e di logiche di scambio il quale ha investito l’insieme delle relazioni sociali.

Per questo occorre connettere i temi della riforma politica con quelli della riforma sociale. È necessario cioè agire su due versanti, dal lato delle istituzioni, per un loro funzionamento efficace e per un recupero di autorevolezza e di consenso, e dal lato della società per uno sviluppo nuovo di poteri democratici e di strumenti di controllo.

Per quanto riguarda il sistema istituzionale e la sua riforma, le due questioni chiave mi sembrano essere quella della regionalizzazione dello Stato, secondo un orientamento di tipo federalista, e quella della riqualificazione della funzione di governo attraverso una chiara distinzione tra funzione di governo e funzione di rappresentanza. Il carattere centralistico-burocratico dello Stato è una delle ragioni principali sia della scarsa efficienza del sistema, incapace di adattarsi alle diverse situazioni, incapace di flessibilità, sia della “distanza” tra istituzioni e cittadini. C’è contestualmente un deficit di efficienza: e di democrazia.

Con l’istituzione delle Regioni non si è rovesciato il modello dello Stato centralizzato, in quanto le regioni sono state concepite come un’articolazione del “sistema delle autonomie”, insieme a Comuni e Province, ovvero come terminali dello Stato centrale a cui vengono delegate determinate funzioni, restando unica la fonte del potere, unica e indivisibile la sovranità. In tale contesto, le Regioni non sono decollate e non potevano decollare, e i confini tra le diverse competenze, tra Regioni, Province e Comuni sono rimasti confusi e incerti, dando luogo a continui conflitti per dividersi quel poco di potere e di risorse che era disponibile.

Occorre allora ribaltare l’impostazione di fondo, superare la logica del “decentramento”, della delega di funzioni, e concepire l’ordinamento costituzionale come un complesso di poteri distinti, a diversi livelli, ciascuno dotato di una propria autonoma sovranità.

Ciò è espresso in modo assai efficace in una proposta di revisione costituzionale elaborata da un “collegio di esperti” della Regione Lombardia: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Regioni e dello Stato», dove lo Stato centrale non è più il tutto, ma è una parte, è una delle funzioni, in un rapporto tra i diversi livelli che non è più gerarchico ma solo funzionale. .

In questa concezione è importante non solo la possibilità di fondare davvero su solide basi il regionalismo, ma anche il fatto che viene rimotivato il ruolo dei Comuni come strutture di base dell’ordinamento. Meno chiara mi pare la funzione della Provincia, che si configura soprattutto come un elemento di raccordo tra Comuni e Regioni, come una struttura intermedia, che ha poteri delimitati di carattere funzionale.

È da affrontare la questione della dimensione territoriale: per i Comuni oggi eccessivamente polverizzati, con una dimensione che in moltissimi casi è al di sotto della soglia minima per poter esercitare davvero le funzioni amministrative e di servizio fondamentali, e per le stesse Regioni che, in una linea di riforma imperniata sul regionalismo, hanno probabilmente bisogno di alcuni accorpamenti per dar luogo a strutture sufficientemente omogenee.

Mi pare anche evidente la necessità di superare la distinzione tra Regioni a statuto ordinario e a statuto speciale, in quanto c’è uno spostamento di sovranità e di poteri che vale per tutte le Regioni.

Si devono enunciare esplicitamente le competenze che restano riservate al governo centrale, e tutto ciò che non rientra in queste competenze sarà affidato all’amministrazione regionale. Con ciò cambia la forma dello Stato, in quanto l’ordinamento è a base regionale, e il potere centrale si configura come un potere di raccordo, di coordinamento e come garanzia della solidarietà nazionale. Non è allora improprio parlare di federalismo. Ma importa poco la disputa nominalistica sulle parole, spesso sovraccariche di significati ideologici, importa piuttosto l’elaborazione di un modello concreto e preciso di articolazione dei poteri.

Il regionalismo, o federalismo, comunque lo si voglia definire, va inteso non in una visione separatista, da comunità chiusa, autosufficiente, ma come un elemento dinamico, come un’articolazione del processo di integrazione e di interdipendenza internazionale, con un atteggiamento aperto al confronto delle culture, alla collaborazione e alla solidarietà.

È su questo piano che va marcato un dissenso con le impostazioni leghiste, che sognano un impossibile ritorno all’autogoverno delle piccole comunità proprio nel momento in cui l’ambito delle decisioni strategiche si sposta al livello sovranazionale, e che pensano l’autonomia come rifiuto della diversità, come identità culturale chiusa nella sua autodifesa, ostile a ciò che è esterno, proiettato verso il recupero dei valori tradizionali e non verso un processo di modernizzazione e di innovazione culturale.

C’è comunque un’evoluzione in corso nelle stesse posizioni della Lega, e proprio l’adesione di massa che essa ha avuto in alcune aree la porta a un visione più aperta, accantonando o correggendo le originarie motivazioni di stampo razzistico. Si tratta di un processo non ancora chiaro nei suoi sbocchi: cerchiamo di capirlo nella sua dinamica reale, senza schemi troppo rigidi. E soprattutto l’affermazione della Lega è il segno di problemi irrisolti, è il disagio per una crisi politica e sociale che ha assunto un’ampiezza eccezionale. Si tratta dunque di rispondere a questo disagio con un’azione propositiva concreta.

Il regionalismo è uno dei punti essenziali di questa risposta, perché si può ricostituire nella dimensione regionale un circuito democratico positivo nel rapporto tra cittadini e istituzioni. La condizione è che questa scelta venga compiuta in modo del tutto coerente e radicale, che sia chiara e visibile la rottura del vecchio sistema.

Vediamo alcuni esempi concreti. Il primo riguarda il sistema fiscale e la distribuzione delle risorse. Qui il centralismo è oggi assoluto, a differenza di qualsiasi altro paese europeo. Siccome a nessuno può sfuggire il rapporto tra risorse e potere, l’attuale mancanza di autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali è una prova conclusiva del fondamentale vizio centralistico del nostro sistema.

Ora si parla di autonomia impositiva, ma la si intende come facoltà di deliberare imposte aggiuntive, il che ha evidentemente limiti fisiologici se non si vuole avere una situazione intollerabile dal punto di vista sociale.

Occorre invece un meccanismo fiscale di tipo nuovo che definisca una nuova ripartizione tra Stato e Regioni, in rapporto alla nuova distribuzione di poteri. Autonomia impositiva significa anche responsabilizzazione del potere regionale, che deve decidere in piena autonomia sull’uso delle risorse e che di ciò risponde al corpo elettorale. La legislazione nazionale dovrà fissare alcune condizioni di base, alcuni standard minimi per l’organizzazione dei servizi collettivi. Una volta garantita per legge una rete di diritti universale, tutto il resto dipende esclusivamente dalla responsabilità delle Regioni, che decidono come utilizzare le loro risorse.

Dato lo squilibrio esistente nel nostro paese tra regioni forti e regioni deboli, tra il Nord e il Sud dell’Italia, occorrono meccanismi di compensazione e di solidarietà. La soluzione di questo problema non presenta particolari difficoltà tecniche.

Finora ciò è stato un alibi a sostegno del centralismo, e il problema dello sviluppo delle regioni meridionali è stato affidato all’intervento straordinario dello Stato, con i risultati disastrosi che sono sotto i nostri occhi. Anche per il Sud, credo, la via dello sviluppo passa dalla via dell’autonomia.

C’è bisogno di una classe dirigente locale che non sia fatta di feudi e di clientele dipendenti da qualche notabile nazionale, di una politica che non sia la ricerca di favori, di sovvenzioni, di leggi speciali. Tutto ciò ha impedito la formazione di una classe dirigente, la quale si forma solo nell’esercizio autonomo e sovrano delle proprie responsabilità di governo.

Il regionalismo non contraddice l’esigenza di riscatto delle regioni meridionali, ne è anzi la premessa necessaria. L’unica condizione è l’adozione di un criterio nella ripartizione delle risorse che tenga conto dei diversi livelli di sviluppo e che tenda a superare gli squilibri attuali.

Il secondo elemento da affrontare, con un’impostazione nuova e coraggiosa, è l’amministrazione dello Stato. Cito ancora dallo studio promosso dalla Regione Lombardia: «L’esecuzione delle leggi, cioè l’amministrazione, spetta alle istituzioni regionali anche là dove lo Stato possa intervenire con la propria legislazione», con l’esclusione solo di materie che sarebbe inopportuno affidare alle autonomie regionali, come la difesa o la giustizia. «In questo quadro, si tende a superare il sistema attuale del “doppio binario”, per cui nel territorio convivono le amministrazioni di autonomia e l’amministrazione periferica dello Stato. In periferia lo Stato deve essere la Regione, la Provincia, il Comune». Mi sembrano affermazioni di principio rilevantissime, che hanno grandi implicazioni.

Nel territorio non è il prefetto che rappresenta lo Stato, ma sono le istituzioni locali. E tutti i settori dell’amministrazione finora riservati alle competenze statali devono cambiare di status e rientrare nelle competenze regionali.

Pensiamo, per fare solo un esempio, al sistema scolastico, alle straordinarie possibilità che si aprono, in questa nuova prospettiva di innovazione, di sperimentazione, di adattamento di una struttura rigida alla variabilità delle situazioni, di rottura delle rigidità burocratiche.

Fermo restando, ovviamente, un indirizzo di carattere nazionale. Può divenire così possibile coordinare a livello regionale l’insieme del sistema formativo, dalla formazione professionale alle università, con ampi margini di autonomia che debbono essere lasciati anche ai singoli istituti.

Così, analogamente, si deve pensare a un sistema regionale dei trasporti, della sanità, delle comunicazioni.

È evidente la necessità di una legislazione nazionale che fissi, per i diversi campi, indirizzi, norme di valore generale e che definisca un insieme di diritti civili e sociali che valgono per l’intero territorio. Ma entro questa intelaiatura comune, che definisce il patto di cittadinanza, gli spazi di autonomia e di autogoverno non sono un’eccezione, una concessione elargita dal potere centrale, ma sono la regola di un nuovo sistema di governo, di una nuova struttura dei poteri.

In questa linea la Regione diviene il centro organizzatore di un sistema territoriale complesso, che affronta nelle loro connessioni i problemi dello sviluppo produttivo, dell’uso del territorio, delle infrastrutture, della ricerca e del sistema formativo, dell’ambiente, dei servizi, con compiti, quindi, che sono essenzialmente di programmazione e di pianificazione territoriale, mentre i compiti di gestione vanno decentrati a Province e Comuni.

La regionalizzazione, d’altra parte, è un’articolazione dell’integrazione europea, e ha senso solo in questo contesto. Non affronto qui il problema dei poteri sovranazionali, e della loro necessaria investitura democratica, perché il tema ci porterebbe troppo lontano, ma mi limito a sottolineare questa connessione indispensabile tra regionalismo ed europeismo, che si riassume nella formula “Europa delle Regioni”. Il che significa anche, per la Regione, possibilità di accordi e di collaborazioni con altre Regioni, sia italiane che europee, senza passare necessariamente attraverso il potere centrale, il che apre la strada a forme inedite di cooperazione su larga scala.

Per un raccordo tra le diverse politiche regionali e la politica nazionale può essere istituita una Camera delle Regioni che consenta un’espressione diretta delle istituzioni regionali, modificando così l’attuale sistema bicamerale, di cui è evidente l’anacronismo in quanto non c’è nessuna specializzazione delle funzioni e in quanto l’obbligo della “doppia lettura” per ogni provvedimento legislativo allunga in modo inaccettabile i tempi dell’attività parlamentare.

Resta infine da valutare se anche per la Regione, così come si sta decidendo per i Comuni, si debba prevedere l’elezione diretta del presidente della giunta. Sarei propenso, personalmente, ad esprimere una posizione favorevole, per assicurare una coerenza complessiva dell’ordinamento, e in questa linea può essere riconsiderata la stessa ipotesi di elezione diretta del capo del governo, anche se su questo punto c’è stato un voto negativo nella commissione bicamerale.

Con ciò siamo condotti al secondo punto, alla funzione di governo e al suo rapporto con la rappresentanza. La funzione di governo è oggi, con l’attuale ordinamento, una funzione derivata del tutto dipendente dai meccanismi della rappresentanza parlamentare e dal gioco variabile delle intese tra i partiti.

Ne deriva una situazione di debolezza congenita, come prova il fatto che la durata media dei governi è di circa un anno (unico caso nel panorama delle più forti democrazie europee), il che comporta l’impossibilità di realizzare programmi a lungo termine e la formazione di governi che inevitabilmente vivono alla giornata.

Non si tratta qui della “governabilità”, concetto che è stato usato per puntellare un sistema politico in crisi e per giustificare ogni sorta di trasformismo. Si tratta invece di creare nuove condizioni istituzionali che garantiscano la stabilità degli esecutivi ai vari livelli.

La leva su cui agire è in primo luogo la riforma del sistema elettorale, correggendo la logica del proporzionalismo e incentivando la formazione di coalizioni. La soluzione più convincente mi sembra essere quella di un sistema a doppio turno, con il voto ai singoli partiti al primo turno, e con il voto alle coalizioni dichiarate al secondo turno.

Con ciò i due problemi della rappresentanza e del governo sono affrontati con atti distinti, e questa distinzione è essenziale, perché si tratta di due funzioni entrambe fondamentali, ma non sovrapponibili, non coincidenti che richiedono distinte procedure di legittimazione.

Ora agli elettori è affidato solo il problema della rappresentanza, e il governo dipende dal gioco parlamentare. Con la riforma, che può prevedere diverse possibili varianti, gli elettori decidono anche del governo, e questa investitura democratica consente la formazione di governi con una forte legittimazione.

Nella medesima direzione va la procedura di elezione diretta dei sindaci. Se funzione di governo e funzione di rappresentanza vengono distinte, ne dovrebbe logicamente conseguire una regola di incompatibilità tra incarico di governo e mandato parlamentare.

Il punto di mediazione tra le due funzioni è la designazione democratica del capo dell’esecutivo (con elezione diretta e con designazione esplicita da parte della coalizione), il quale dovrà utilizzare nella propria compagine governativa competenze specialistiche esterne alle assemblee elettive, non condizionate nell’esercizio delle loro funzioni da logiche partitiche o clientelari.

Il nuovo sistema dovrebbe consentire governi che siano di norma governi di legislatura, il che rappresenta non il vantaggio di una parte, ma una migliore efficienza complessiva del sistema democratico. In un tale contesto, cambia la funzione dei partiti politici, che sono stati fino ad ora i protagonisti esclusivi della vita pubblica, espropriando le funzioni dello Stato e occupando tutti gli spazi della società civile.

Questa pervasività dei partiti ha indebolito le istituzioni e ha impedito una crescita autonoma delle organizzazioni sociali. Resta la necessità di un sistema politico fondato sul pluralismo delle proposte programmatiche, e quindi sui partiti come strumenti di organizzazione della volontà collettiva. Passare dalla democrazia dei partiti alla democrazia delle persone significherebbe tornare al notabilato e alla politica delle clientele. Ma est modus in rebus. E i partiti così come sono attualmente non sono difendibili, e vanno radicalmente trasformati, delimitando rigorosamente le loro funzioni, oggi esorbitanti.

La qualità delle persone è pure un elemento importante, che può essere valorizzato con la generalizzazione del sistema uninominale, il che contribuisce anche a superare una delle cause della corruzione politica, eliminando il mercato delle preferenze.

Il filo conduttore di una linea di riforma può essere rintracciato nella rottura del consociativismo, inteso come sovrapposizione e confusione dei ruoli. È necessario dar vita a un sistema dei, poteri trasparenti e chiari, ciascuno sovrano nel suo ordine: governi abilitati a governare, poteri istituzionali distinti e responsabili nel loro ambito, partiti che si attengono alla loro funzione. Questa regola vale anche per le relazioni sociali, salvaguardando l’autonomia dei diversi ruoli, l’autonomia del sindacato così come l’autonomia della funzione imprenditoriale.

C’è un ulteriore aspetto da considerare, il quale non può dipendere solo dai meccanismi istituzionali, e si tratta dell’efficienza della pubblica amministrazione, ovvero della costituzione materiale dello Stato, del suo funzionamento, della sua capacità di rispondere ai bisogni della collettività. Se non si riesce ad operare anche a questo livello, la riforma resta incompiuta e le attese dei cittadini finiscono per essere deluse.

Il problema da affrontare può essere definito come un problema di sburocratizzazione, ed esso si configura in termini analoghi rispetto ai processi di riorganizzazione dell’impresa privata in funzione di nuovi obiettivi di qualità e di competitività. Mentre una struttura burocratica è guidata da esigenze di autolegittimazione, e perde di vista il fine per cui è stata costituita, il punto di vista della qualità (del prodotto, del servizio) rovescia l’impostazione, in quanto ciò che conta non è l’osservanza delle regole trasmesse dall’alto, non è l’efficacia del comando o della gerarchia, ma è la capacità di rispondere alla domanda (del mercato, del cliente o dell’utente del servizio).

Ciò comporta un radicale cambiamento: non rigidità delle procedure burocratiche, ma flessibilità e responsabilizzazione individuale, non un sistema decisionale di tipo gerarchico, ma una struttura a rete con ampie autonomie funzionali, non una carriera basata su criteri di anzianità o di fedeltà, ma una valutazione effettiva della professionalità che premi l’iniziativa e la sperimentazione; non un sistema di privilegi e di clientele, ma una competizione aperta misurata sui risultati.

La riforma del rapporto di lavoro pubblico ha senso se sta dentro questa prospettiva, e da questo punto di vista la battaglia è ancora tutta aperta, e il modo in cui ha finora proceduto il governo ha limiti assai gravi, perché sta ancora dentro una logica centralistica e non favorisce lo sviluppo di nuove forme di contrattazione decentrata.

Un nuovo sviluppo, nel senso dell’efficienza e della trasparenza democratica, nella pubblica amministrazione e nell’insieme degli enti pubblici, non sarà possibile se non si spezzano i meccanismi della lottizzazione partitica, se non si individuano nuove regole per le nomine negli enti.

L’attuale sistema delle nomine ha consentito di costruire una rete attraverso la quale si è organizzato tutto, il sistema della corruzione e del finanziamento illegale. È necessaria perciò una rottura, un’innovazione radicale.

Si può pensare per questo all’istituzione di un apposito curriculum professionale di amministratore pubblico, conformazione specializzata e con regole severe di incompatibilità con gli incarichi politici. Occorre cioè costruire una figura nuova, che sia del tutto autonoma e sganciata dalle logiche di appartenenza politica.

Un sistema di istituzioni forti, come quello che qui si è cercato di delineare, ha bisogno di essere bilanciato da strumenti efficaci di partecipazione sociale e di controllo democratico, non in termini consociativi, ma nella distinzione chiara delle responsabilità.

Il sindacato, perciò, deve abbandonare le funzioni improprie, che lo vedono coinvolto nella gestione di società o di enti e rafforzare le sue funzioni proprie di contrattazione, di confronto sulle scelte strategiche, di controllo.

Occorrono qui nuove regole per una democrazia industriale più avanzata, con l’individuazione precisa e formalizzata di sedi di confronto, di procedure, di forme di regolazione di conflitto, di un sistema di diritti (di accesso alle informazioni, di formazione, di partecipazione alle decisioni) per i lavoratori e i loro rappresentanti. Un tale modello dovrebbe valere per l’insieme delle imprese private e pubbliche, e vanno studiate le possibili iniziative legislative, valutando in proposito le diverse esperienze europee.

Nella dimensione regionale che diviene centrale nella prospettiva che qui indichiamo di riforma dello Stato vanno costruite forme di confronto e di concertazione, tra il governo regionale e le parti sociali, per affrontare i grandi nodi strategici dello sviluppo del sistema regionale.

È essenziale che le forze della società civile abbiano un ruolo, una presenza organizzata e visibile, e in questo senso mi sembra di grande interesse la prospettiva di cui in alcune regioni si sta discutendo, della costituzione dei comitati regionali per l’economia e il lavoro, come organismi rappresentativi dei diversi soggetti sociali, i quali possono così, con più autorevolezza, e mantenendo tutta la loro autonomia, confrontarsi con le istituzioni politiche, elaborare proposte e progetti, attraverso uno strumento permanente e riconosciuto sotto il profilo istituzionale.

Se occorre, accanto a istituzioni politiche forti, una società civile capace di far sentire tutto il proprio peso, è in quest’ottica che si pone anche il problema del sindacato e del suo ruolo, e appare così necessaria una nuova prospettiva di unità sindacale, come garanzia di autonomia, di autorevolezza, di capacità rappresentativa.

Un sindacato diviso sarà esposto a manovre varie di strumentalizzazione politica, da parte delle forze di governo o di opposizione. Ed è ciò che si è verificato in questi mesi travagliati e che rischia ogni giorno di riprodursi. Il progetto unitario è la condizione per un’autonomia reale, per evitare che il sindacato sia il terreno di caccia sul quale forze esterne giocano la loro partita per l’egemonia politica.

Nella successiva relazione saranno affrontati i problemi di una riforma del sindacato che sia coerente con la prospettiva regionalistica. Ritengo utile continuare un lavoro comune tra le nostre strutture regionali, ed eventualmente anche con altre. Stabilire rapporti diretti tra le strutture regionali è già un modo concreto di applicare un’impostazione regionalistica.

Su molti punti indicati in questa relazione abbiamo bisogno di elaborazioni più precise e di iniziative concrete, per formulare in modo puntuale le proposte sindacali in materia di riforma istituzionale, per confrontare le nostre esperienze nel confronto politico con l’istituzione regionale per realizzare nuove iniziative come quella dei comitati regionali per l’economia e il lavoro.

So bene che vi sono anche opinioni differenziate, e oggi noi avviamo un lavoro di riflessione e di ricerca, che è ovviamente aperto. Una discussione impegnata su questi temi può essere già un buon inizio.


Numero progressivo: C54
Busta: 3
Estremi cronologici: 1993, 15 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 40, 15 marzo 1993, pp. 52-56