[SUSSIDIARIETÀ]

Lezione al corso di contrattazione sociale di CGIL Emilia Romagna, Riccione, novembre 2012

Lo SPI aveva organizzato nel 2006, in collaborazione con l’Università di Urbino, una riflessione impegnata e approfondita sul tema della sussidiarietà. È stato un passaggio importante, perché per la prima volta, superando tutte le iniziali diffidenze ideologiche, si è scelto un approccio positivo al problema, vedendo nella sussidiarietà, che ora fa parte del nostro dettato costituzionale, l’occasione per una vasta azione di riforma, dello Stato e della pubblica amministrazione. La sussidiarietà non è un modello astratto, non è un’ideologia, ma è un nuovo terreno di azione, un campo sperimentale, i cui esiti non sono scontati, ma dipendono dall’azione e dalle scelte dei diversi soggetti. Si confrontano e si contrappongono diverse tesi, diverse interpretazioni, e si tratta quindi di stare in campo con una nostra proposta. In sostanza, occorre scegliere tra una linea che punta tutto sulla privatizzazione dei servizi (è la posizione, ad esempio, della Compagnia delle Opere), e una linea che punta sulla cittadinanza attiva e sulla partecipazione dei cittadini, essendo questo, tra l’altro, il senso autentico e profondo dell’attuale norma costituzionale. La sussidiarietà, dunque, non è il primato del privato sul pubblico, non è la ritirata dello Stato dalle sue funzioni, ma è un’integrazione dei due momenti, in una prospettiva di ottimizzazione delle risorse e per conseguire più elevati standard di qualità.

Penso che l’elaborazione di Urbino sia tuttora valida, ed essa è entrata faticosamente nel patrimonio della CGIL, anche se permangono ancora molte zone d’ombra, molti punti di frizione, molte resistenze. Ma ora, essendo trascorsi ormai molti anni, in cui tutto il quadro politico e istituzionale è stato attraversato da profondi cambiamenti, è il momento di fare un bilancio e di compiere un aggiornamento, per poter definire una nostra posizione non in astratto, ma nel vivo della vicenda politica attuale. La tesi che io intendo qui illustrare è molto semplice, e può essere così riassunta: gli spazi della sussidiarietà sono stati strozzati. E si può aggiungere che noi stessi abbiamo fatto troppo poco per valorizzarli. La sussidiarietà può vivere solo se c’è un contesto generale ad essa favorevole, ed essa in particolare ha a che fare con quattro grandi capitoli: lo stato sociale, la partecipazione democratica, il federalismo, l’autonomia sociale. Vediamo allora che cosa è successo e che cosa sta accadendo in questi campi, e come tutto ciò incide sulle politiche di sussidiarietà.

 

1) Lo Stato Sociale

La sussidiarietà è in sostanza un’idea di riorganizzazione del welfare, facendo entrare nelle politiche sociali nuove risorse e nuovi attori, esplorando tutte le potenzialità che possono essere offerte dalla vasta rete sociale in cui si realizza la partecipazione attiva dei cittadini. L’obiettivo dovrebbe quindi essere quello di un potenziamento delle politiche di welfare, con nuove forme di integrazione tra pubblico e privato, e di collaborazione tra pubblica amministrazione e cittadini.

Se invece, come è accaduto in questi anni, lo stato sociale viene liquidato, viene progressivamente smontato, ridimensionato, diviene l’oggetto privilegiato su cui si concentra tutta l’ossessiva operazione chirurgica dei tagli alla spesa pubblica, allora la sussidiarietà viene privata del suo oggetto, e non ha più l’aria per respirare. Che cosa c’è ancora da riformare, da sperimentare, da innovare, se si decide che lo stato sociale sia ormai un costo non più sostenibile? In tutti questi anni, da Berlusconi a Monti, questa è stata la linea ispiratrice di tutta l’azione di governo, adottando con assoluta coerenza il dogma liberista che considera la spesa sociale come una spesa improduttiva, parassitaria, da limitare al solo terreno assistenziale per i più bisognosi (l’elemosina della social card). Tutte le politiche di “austerità” adottate a livello europeo hanno questo segno univoco e stanno via via intaccando quel modello sociale che l’Europa era riuscita a costruire. Nel momento in cui aumentano i fattori di insicurezza e di rischio, e dovrebbero quindi essere rafforzate le tutele e le garanzie, si procede alla cieca in una politica di tagli, nei settori vitali della previdenza, dell’assistenza, della sanità, degli ammortizzatori sociali.

Si può obiettare: è proprio questo ridimensionamento dell’intervento pubblico che rende necessaria l’integrazione sussidiaria dei privati e dei soggetti sociali, ed è questa la riforma da fare, il passaggio delle funzioni sociali dallo Stato alla rete mutualistica in cui si riorganizza la società civile (enti bilaterali, fondazioni, terzo settore). È la tesi enunciata con chiarezza dall’ex Ministro Sacconi nel suo famoso Libro Bianco. Per questa via, la sussidiarietà si distorce, e diviene solo privatizzazione, e soprattutto essa finisce per occupare uno spazio del tutto residuale, in un quadro di generale sfilacciamento della coesione sociale.

È un processo che è sotto i nostri occhi: i tagli ai servizi, le risorse sempre più scarse degli enti locali, le difficoltà crescenti della negoziazione sociale nel territorio, e il tentativo di scaricare sul terzo settore tutto ciò che l’amministrazione pubblica non è più in grado di fare. Non è certo questa la sussidiarietà che noi abbiamo in mente, perché tutto ciò significa solo un degrado complessivo del livello di civiltà del paese. E significa che lo Stato viene meno ai suoi compiti costituzionali, alla sua funzione di regolazione e di promozione sociale, lasciando che sia la spontaneità delle iniziative private, con le sue inevitabili distorsioni, a definire l’equilibrio sociale complessivo. È il contrario di ciò che è sancito nella nostra Costituzione.

 

2) La partecipazione democratica

Abbiamo già visto come la sussidiarietà è una forma di cittadinanza attiva, di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. Essa quindi si inquadra necessariamente in un processo di democratizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione. È questo, non altro, il senso del principio costituzionale: il sostegno alla libera attività dei cittadini, singoli o associati, che concorrono alla realizzazione di obiettivi di interesse generale. C’è bisogno, quindi, di un contesto di vitalità democratica, che sia capace di far saltare le strozzature burocratiche, le logiche autoritarie, tutto ciò, insomma, che fa ostacolo ad una libera circolazione delle idee e delle esperienze. Se la struttura dello Stato resta chiusa, centralizzata, gerarchica, non ci potrà essere nessuno sviluppo positivo della sussidiarietà.

Anche in questo caso, mi pare del tutto evidente come il processo reale sia andato in tutt’altra direzione, togliendo ogni spazio alla partecipazione democratica. La tendenza in atto, ormai da tempo, è verso la concentrazione del potere, e tutte le misure di riforma istituzionale, realizzate o progettate, hanno tutte questa unica ed esclusiva ispirazione: rafforzare la funzione di governo, assicurare stabilità al sistema, tenere la democrazia sotto controllo, spostare tutto l’equilibrio del sistema dalla rappresentanza alla decisione.

Il Governo tecnico è il punto d’approdo del tutto logico e coerente di questa tendenza. L’idea di fondo è che la governabilità richiede una limitazione degli spazi democratici. La democrazia è per sua natura relativista, cioè aperta a tutte le soluzioni possibili, e plurale, in quanto è uno spazio libero in cui si confrontano diversi progetti e diversi soggetti politici, e allora si pensa che tutto ciò possa produrre una situazione di instabilità e di turbolenza, e occorre per questo un bilanciamento delle forze, mettendo l’accento sul principio di autorità, per dare a tutto il sistema un fondamento che non possa essere messo in discussione. Questa torsione autoritaria si manifesta in varie forme. C’è l’idea di un primato della religione su tutte le questioni che attengono all’etica pubblica, con un drastico ridimensionamento della laicità dello Stato. C’è l’idea tecnocratica di un potere decisionale che deve essere riservato agli esperti, a quei pochi che hanno le competenze necessarie. C’è il populismo plebiscitario che si concentra tutto nella figura carismatica del leader, del capo che incarna in sé lo spirito della nazione. Tutte queste spinte si sono combinate, si sono intrecciate l’una con l’altra, e il risultato è quello di una drammatica crisi della democrazia.

In questo contesto neo-autoritario, dove tutte le decisioni strategiche vengono sottratte alla partecipazione popolare, gli spazi di autonomia in cui può svolgersi la libera e attiva cittadinanza si restringono in una dimensione sempre più angusta e residuale. C’è sì una rete sociale che ha una sua ampiezza, ci sono esperienze varie di autoregolazione e di solidarietà, ma tutto ciò è tagliato fuori dal grande circuito delle decisioni politiche e strategiche, e non ha nessuna forza di incidere sulle grandi scelte e sul funzionamento complessivo della macchina dello Stato. Non c’è, quindi, sussidiarietà, perché non c’è integrazione di pubblico e privato, ma ci sono due mondi che non comunicano, due realtà che restano del tutto separate, incapaci di interagire, e a tutto il mondo del sociale si concede facilmente un riconoscimento del tutto vuoto e retorico, mentre nella realtà viene del tutto marginalizzato. Che ruolo ha avuto, infatti, in tutte le decisioni prese dal Governo? In quali sedi ha potuto far sentire la sua voce, le sue proposte, il suo progetto sociale? La stessa agenzia per il terzo settore è ormai liquidata.

E tutta l’elaborazione del cattolicesimo democratico, sulla società di mezzo, sul ruolo delle rappresentanze, sul tessuto solidale di una nuova comunità, non ha avuto, di fatto, nessuno sviluppo e nessuna concreta sperimentazione, se non per qualche iniziativa isolata di singole strutture ecclesiastiche. Nonostante la presenza di una nutrita componente cattolica nell’attuale governo, la bussola che orienta la sua azione non è quella delle encicliche pontificie, ma è solo quella dei mercati e dell’ortodossia liberista. E i mercati non sanno che farsene della sussidiarietà, a meno che essa non divenga l’occasione per qualche lucrosa speculazione, divenga cioè il contrario di ciò che dovrebbe essere. Mentre il Governo procede sulla sua via, è impressionante il silenzio che è calato sulle questioni sociali, come se la socialità fosse non un nodo strategico, ma un dettaglio da lasciare a qualche iniziativa isolata. Sia la cultura cattolica che quella laica sono latitanti. Ma la sussidiarietà non può vivere se non c’è un coraggioso progetto sociale, se non c’è un disegno diverso rispetto all’ortodossia liberista.

 

3) Il Federalismo

Sussidiarietà e federalismo sono strettamente imparentati, anche nelle loro ambiguità, nel loro essere un terreno scivoloso, esposto al rischio di possibili travisamenti e degenerazioni. Il federalismo, in fondo, non è che la sussidiarietà “verticale”, l’idea cioè di una diversa ripartizione delle competenze tra i diversi livelli dell’ordinamento, privilegiando le strutture più vicine ai cittadini, invertendo l’ordine tradizionale: non la trasmissione gerarchica dall’alto verso il basso, ma all’inverso partire dalla concreta comunità locale, facendo di essa il centro nevralgico di un nuovo assetto e di una nuova concezione dello Stato. Il punto di congiunzione è quindi l’idea di una comunità che si costituisce come un sistema integrato e autoregolato. La riforma federalista dello Stato, rovesciando la logica gerarchica e centralizzatrice, dovrebbe rendere possibile un rapporto più diretto e più ravvicinato con i cittadini e con le loro rappresentanze, e di conseguenza un controllo democratico su tutto il processo decisionale e sul funzionamento della macchina amministrativa.

Ora, dove è finito il federalismo? È finito nel nulla, e non da oggi, ma anche per le scelte compiute dai governi a partecipazione leghista, che hanno usato il federalismo solo come una bandiera ideologica e propagandistica, senza nessun serio tentativo di riforma dello Stato. Il complicato marchingegno messo a punto dall’allora Ministro Calderoli, con tutti i suoi infiniti cavilli, con le sue mediazioni, con i suoi rinvii a successive verifiche di fattibilità, non avrebbe mai potuto funzionare, e nel caso migliore si trattava solo di una razionalizzazione dell’esistente, dando alle cose un nuovo nome, ma non un nuovo ordine. In realtà, la Lega era interessata non a riformare, ma ad occupare lo Stato.

Ma soprattutto in tutti questi anni c’è stata da parte di tutti i governi, non esclusi quelli di centro-sinistra, una linea di totale continuità, che ha scaricato su tutto il sistema dei governi locali il peso del risanamento finanziario. Le autonomie locali sono state, e sono tuttora, il capro espiatorio. Se c’è da tagliare, si taglia a livello locale, se ci sono degli sprechi, essi vanno individuati e colpiti negli enti periferici, e tutto questo viene fatto senza un disegno razionale, senza un’idea di riorganizzazione del sistema pubblico, ma sull’onda di una campagna strumentale, sfruttando anche gli umori perversi dell’antipolitica. Il caso più illuminante e inquietante è il modo in cui si è affrontato il problema delle provincie. Non si è ragionato sulle funzioni, su come ridistribuirle e razionalizzarle, ma solo sui “costi”, sugli sprechi, con la soluzione, semplice nella sua grossolanità empirica, di tagliarne la metà, senza nessuna verifica delle condizioni complessive di efficienza e di funzionalità delle strutture amministrative. Le provincie si possono anche abolire, in toto, ma solo se si definisce un nuovo e più coerente quadro istituzionale. Si è invece voluto un gesto solo propagandistico, per dare qualcosa in pasto ad una opinione pubblica affamata.

E naturalmente tutta la pesante struttura burocratica delle prefetture non viene affatto messa in discussione, perché essa fa parte della strumentazione al servizio del Governo, e l’obiettivo è la governabilità, è il rafforzamento del centro di comando. Ora, il progressivo svuotamento della dimensione locale e il ripristino di una fortissima centralizzazione, dei poteri e delle risorse, impedisce qualsiasi sviluppo della sussidiarietà, che per sua natura si svolge nello spazio locale, nella vita concreta di una comunità territoriale. Per l’attuale Governo tecnico, il ruolo dei cittadini è solo quello di segnalare un problema, o di suggerire una soluzione: diteci dove stanno gli sprechi, e noi interverremo. È la democrazia dei sondaggi d’opinione. Si rafforza così la verticalizzazione della politica, il suo essere tutta giocata al centro, mentre a livello locale c’è solo la politica dei tagli e dei sacrifici.

 

4) L’autonomia sociale

La sussidiarietà è lo spazio in cui agiscono, nella loro autonomia, i soggetti sociali organizzati. È anche il nostro spazio, e di questo non abbiamo preso coscienza fino in fondo. Il sindacato, a ben guardare, è una figura esemplare della sussidiarietà, perché svolge una funzione pubblica e concorre all’interesse generale, con i servizi, con la contrattazione, con l’impegno a dare risposte ai problemi della nostra vita collettiva.

Anche in questo campo, nel sistema delle relazioni sociali, è evidente la rottura che si è operata, in via di fatto con Berlusconi, e ora anche in via di diritto, con il ripudio esplicito e dichiarato del metodo della concertazione, vista come una impropria intromissione delle parti sociali nel campo riservato alla politica e come un cedimento alla pressione corporativa degli interessi costituiti. Secondo questa visione, tutte le rappresentanze sociali sono solo particolaristiche, corporative, non una risorsa per lo sviluppo, ma un freno, un inciampo, e il Governo, che è l’unico legittimato a interpretare l’interesse collettivo, deve procedere per la sua via, senza farsi condizionare. Ci possono essere solo momenti informativi, o di ascolto, ma mai una pratica di tipo negoziale.

Non è un cambiamento di poco conto, ed esso muta tutto il quadro delle relazioni. È esattamente il rovescio dell’impianto costruito anni fa dal governo Ciampi, che proprio sull’accordo con le parti sociali aveva puntato per realizzare una condivisa strategia di risanamento e di sviluppo. Liquidata la concertazione, resta il decisionismo politico, il quale presuppone una condizione di generale corporativizzazione del corpo sociale, e in realtà è proprio il decisionismo ad alimentare le posizioni corporative, proprio perché non c’è più uno spazio pubblico in cui si cerca una posizione di sintesi, di armonizzazione tra i diversi interessi.

Il principio della sussidiarietà si regge su una premessa del tutto opposta: che pubblico non significa statale, e che privato non significa corporativo, che dunque il bene comune è il risultato della convergenza e della collaborazione di tutti, in uno sforzo di integrazione, e quindi anche necessariamente di concertazione tra i diversi soggetti. Si rompe il dualismo, che contrappone la funzione pubblica dell’amministrazione alla dispersione particolaristica della società civile, e si cerca di costruire un ponte, una relazione tra questi due momenti, rendendo più aperta e democratica l’amministrazione, e più matura e consapevole l’iniziativa autonoma dei soggetti sociali. D’altra parte, è tutta la nostra Costituzione che è, nella sua ispirazione di fondo, “concertativa”, con il riconoscimento del pluralismo politico e sociale e con l’affermazione dei diritto dei lavoratori ad assumere un ruolo di responsabilità nella gestione della vita economica.

 

Conclusioni

Se questa è la situazione, se c’è questo esito di schiacciamento, che rende del tutto asfittiche le prospettive della sussidiarietà, si tratta allora di costruire un’azione combinata su tutti i terreni che abbiamo indicato. È chiaro che qui è in gioco non solo qualche aspetto di dettaglio, ma il modello politico complessivo, e noi dobbiamo render chiaro un modello alternativo, le cui essenziali coordinate sono il rilancio dello Stato sociale, la partecipazione democratica, la riforma dello Stato, la concertazione sociale. E intanto vanno usati e forzati tutti gli spazi possibili, anche parziali, anche limitati, nella convinzione che non ci sono mai situazioni del tutto chiuse, e che la realtà è sempre ricca di contraddizioni, di potenzialità che possono crescere, di conflitti. Realismo, determinazione e coerenza, di questo abbiamo bisogno, per l’oggi e per il domani, per reggere l’urto con le posizioni oggi dominanti, e per preparare una nuova prospettiva.

E soprattutto credo che dovremmo di più lavorare su noi stessi, ed esplorare fino in fondo tutte le possibilità di fare agire il sindacato come un protagonista della sussidiarietà. Vedo in particolare tre possibili direzioni. In primo luogo, il sindacato può essere un motore decisivo nei processi di partecipazione, e tutta la nostra attività negoziale deve essere costruita così, come un momento di mobilitazione collettiva e di verifica democratica delle decisioni. Non possiamo rompere la gabbia del decisionismo autoritario se non immettiamo nella realtà una fortissima pressione dal basso, democratica e popolare. Il sindacato stesso deve ripensare le sue forme organizzative e il suo stile di lavoro, in modo da essere un punto di riferimento aperto, al servizio di un processo democratico più ampio e allargato. Va quindi approfondito tutto il problema delle procedure e delle forme organizzative in cui si svolge l’attività negoziale nel territorio, in modo da render chiaro chi rappresenta chi, quale è il mandato, quale la piattaforma, quale la legittimazione di tutti gli esiti negoziali.

In secondo luogo, potremmo considerare nuovi possibili campi di intervento, oltre a quelli già consolidati, così da allargare la nostra funzione sociale, il nostro essere al servizio dell’interesse collettivo: formazione, mercato del lavoro, un uso intelligente e non truffaldino della bilateralità, istituzioni di welfare locale, servizi alle persone nei settori del credito e della casa. Non faccio nessuna proposta concreta, ma penso sia utile aprire una discussione senza pregiudizi e senza inutili rigidità. L’obiettivo è il rafforzamento del ruolo “generale” del sindacato, come un protagonista attivo che interviene non solo nel rapporto di lavoro, ma anche nella più complessiva condizione sociale dei lavoratori e dei pensionati.

Infine, è tutto il campo della nostra collaborazione con il terzo settore che può avere nuovi straordinari sviluppi, non solo con l’Auser, ma con una più vasta rete sociale, con tutte quelle forze che sono vitalmente interessate a fare della sussidiarietà lo strumento e l’occasione per un diverso sviluppo e per una nuova qualità della nostra organizzazione sociale. C’è una diversità di ruoli, di funzioni, ma c’è soprattutto una sinergia da costruire, superando le reciproche rigidità, le gelosie, le tensioni conflittuali. Nel campo della sussidiarietà, se vogliamo davvero coltivarlo e farlo crescere, c’è spazio per una molteplicità di iniziative e di soggetti, e c’è la necessità di una loro forte alleanza.



Numero progressivo: D5
Busta: 4
Estremi cronologici: 2012, novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 247-257, col titolo “Sussidiarietà“