TRASFORMAZIONI SOCIALI E QUESTIONE DELLE ALLEANZE

Intervento di Riccardo Terzi decontestualizzato

1) Si sottolinea spesso nell’analisi della società moderna e della sua evoluzione, il grado crescente di complessità sociale.

Con questo concetto si vuole rappresentare una situazione nella quale l’articolazione dei diversi gruppi sociali, dei loro interessi e dei loro conflitti, non è riconducibile ad un unico fondamentale antagonismo di classe. C’è una pluralità di soggetti sociali, e una tendenza di ciascuno di essi ad organizzarsi in forme autonome e a far valere le proprie specifiche esigenze. In questo senso si parla anche di corporativizzazione della società, ed è in questo medesimo contesto che matura la crisi della politica in quanto essa si riduce ad una continua e logorante pratica di mediazione e stenta a ritrovare finalità generali, valori unificanti, obiettivi intorno a cui mobilitare e organizzare un intero blocco di forze sociali.

Tendenze di questo tipo si presentano soprattutto nelle grandi aree urbane, all’interno delle quali la dinamica sociale è stata in questi anni ed è tuttora assai marcata, dando luogo a trasformazioni profonde. Un’ulteriore accelerazione è determinata dalla crisi economica, dagli sconvolgimenti sociali che interessano ormai anche le aree più forti e più strutturate, dai processi di riconversione che si rendono necessari in tutto l’apparato produttivo.

La crisi, come è evidente, accentua la tendenziale corporativizzazione e spinge ogni gruppo sociale a ricercare una propria linea di difesa. Anche all’interno della classe lavoratrice le contraddizioni si fanno più acute e più difficilmente componibili. Si modifica d’altra parte, a ritmi accelerati, la stessa composizione di classe: il processo di ristrutturazione porta ad uno spostamento di forza-lavoro dall’industria al terziario, e anche all’interno dell’industria ad uno spostamento nel rapporto tra operai, impiegati, quadri e tecnici. Cresce nell’insieme della società il peso del lavoro intellettuale, sia per lo sviluppo dell’industria culturale e della ricerca, sia per effetto della scolarizzazione di massa e per la forte pressione che ne deriva sul mercato del lavoro.

Da questi processi discendono ideologizzazioni non accettabili, secondo le quali l’avvenire della società italiana è tutto affidato all’espansione del terziario e ai nuovi ceti emergenti. Si tratta di una operazione politica strumentale, che tende ad emarginare la classe operaia, e quindi anche a ridimensionare il peso e il ruolo del nostro partito.

Tuttavia, al di là di queste forzature ideologico-propagandistiche, ci sono cambiamenti reali che vanno attentamente valutati, e che pongono a noi problemi nuovi e complessi. Il quadro d’insieme, nei grandi centri urbani, è caratterizzato da una struttura sociale fortemente differenziata, in cui si offusca l’antagonismo di classe fondamentale e acquistano un rilievo crescente, sotto il profilo sociale e politico, ceti intermedi di varia natura.

Entra obiettivamente in crisi lo schema teorico-politico basato sull’idea di “centralità operaia”, sull’idea della classe operaia come classe generale, in quanto la sua condizione materiale e suoi interessi oggettivi sono in ultima istanza rappresentativi delle esigenze generali della società.

Da ciò viene, per il partito, un problema complesso di identità. Da un lato sta il rischio di un radicamento sociale troppo ristretto, di una cultura di tipo operaistico che appare chiaramente inadeguata rispetto alla complessità della società moderna. Dall’altro lato si presenta il rischio di smarrire una propria specifica identità sociale, di essere, non diversamente da altre formazioni politiche, uno strumento di mediazione neutrale.

Un tale problema può essere risolto solo sul piano della proposta politica. Sono le scelte programmatiche del partito che possono definire e selezionare un determinato sistema di alleanze sociali.

Occorre quindi una più forte capacità propositiva. Solo a questa condizione il movimento operaio può sottrarsi alla spirale di emarginazione e corporativizzazione e può continuare a svolgere un ruolo politico centrale.

 

2) Nei ceti medi urbani si registra una tendenza a nuove forme di presenza organizzata, una più nitida coscienza del proprio ruolo e delle proprie specificità.

Mi riferisco, parlando di ceti medi urbani, a una gamma di figure sociali molto vaste, comprendendo anche quegli strati del lavoro dipendente (tecnici, quadri, ricercatori), che si distaccano dalla massa dei lavoratori sia per il loro ruolo obiettivo nella produzione e per i livelli di professionalità, sia più in generale per la collocazione che hanno nell’insieme della vita sociale.

C’è una proliferazione complessa di associazioni professionali, di sindacati autonomi, e anche di fenomeni associativi di tipo culturale. Tutto ciò può essere inteso come l’effetto della frantumazione corporativa della società. Ma una tale interpretazione sarebbe riduttiva, e ci porterebbe a conclusioni politiche errate.

Articolazione sociale, organizzazione pluralistica dei diversi interessi e delle diverse identità sociali non significa necessariamente corporativismo. È questo comunque un portato necessario della società moderna e della sua evoluzione, e per questa via importanti gruppi sociali che nascono da una condizione di individualismo passivo e cercano le forme di un proprio impegno sociale e collettivo.

È sulla base di questa impostazione che abbiamo guardato, ad esempio, al movimento dei quadri con interesse, con volontà di positivo confronto. Tendenze di tipo corporativo certamente esistono all’interno di questo movimento, ma esse non stanno nel fatto organizzativo, ma piuttosto in alcuni orientamenti e obiettivi politici, e potranno quindi essere sconfitte solo attraverso un confronto serrato in cui si va al merito delle questioni.

Uno sforzo analogo a quello che si sta compiendo verso i quadri e tecnici andrebbe esteso ad altri gruppi sociali e alle loro organizzazioni: dirigenti, professionisti, piccoli imprenditori, intellettuali, ecc.

Questa maggiore attivizzazione sul terreno sociale conduce ad un allentamento dei vincoli politici tradizionali con il sistema di governo democristiano, in quanto a un meccanismo di pura delega si sostituisce un impegno diretto e una autonomia di organizzazione e di iniziativa. Si tratta naturalmente di una linea di tendenza, ma già ne sono visibili alcuni effetti: è proprio nei ceti medi urbani che si sono verificati negli ultimi anni, i più forti spostamenti elettorali, e anche in occasione dei referendum è apparsa chiara una loro netta indipendenza di giudizio rispetto alla morale tradizionale di stampo cattolico.

Questo processo può essere inteso come tendenza alla laicizzazione dei comportamenti politici, come caduta di efficacia delle motivazioni di tipo ideologico, il che conduce ad una accentuata mobilità elettorale.

In questo contesto, i partiti dell’area laico-socialista si trovano nelle condizioni più favorevoli per rappresentare questi ceti, sia per il loro carattere più programmatico e meno ideologico, sia per la loro collocazione mediana, il PSI in particolare ha cercato di sfruttare questa situazione favorevole, ponendosi l’obiettivo della costruzione di una terza forza politica, fortemente autonoma rispetto ai due maggiori partiti. Vi è qui una corrispondenza abbastanza stretta con lo stato d’animo e con le aspirazioni degli strati intermedi i quali cercano di salvaguardare un proprio spazio e di non finire schiacciati nello scontro sociale tra grande borghesia e classe operaia.

Gran parte delle posizioni politiche e delle elaborazioni teoriche del nuovo PSI possono essere spiegate in questa chiave: le teorie sul “merito”, la rivalutazione di posizioni liberistiche, l’immagine del PSI come partito pragmatico e riformista.

A gruppi sociali che sono in movimento, alla ricerca di una propria identità, si vuole offrire l’approdo di un partito che è anch’esso in formazione e che può crescere in sintonia con i processi di modernizzazione della società.

 

3) Per quanto riguarda il sistema di valori e le posizioni ideologiche presenti nei ceti medi urbani, possiamo distinguere, con una certa approssimazione due tendenze generali. Vi è una tendenza moderato-conservatrice, basata sui valori di autorità, di ordine, di efficienza produttivistica, e che si muove quindi nel senso di una restaurazione.

Vi è in secondo luogo, una tendenza democratico-radicale basata sui valori della libertà individuale, sulla difesa dei diritti civili e della qualità della vita, sulla valorizzazione del privato. Sono due tendenze distinte, ma non del tutto contrapposte, che spesso si combinato e si intrecciano.

In entrambi i casi, entra in crisi il rapporto tradizionale con la politica e con i partiti. Possono agire impostazioni tecnocratiche (il governo degli esperti, al di fuori del controllo dei partiti) o radicali (restituire al controllo diretto dei cittadini le scelte politiche, con l’uso dei referendum e con nuove forme di associazione che spezzino il monopolio dei partiti; il punto di unificazione è dato da una messa in discussione del rapporto politica-società, da una spinta alla valorizzazione autonoma della società civile.

In questo senso lato, il tratto distintivo e prevalente è un atteggiamento culturale di tipo radicale, di cui è incerto e ambivalente l’esito politico, essendo possibile sia una evoluzione in senso progressista, sia una di segno contrario.

 

4) Un aspetto che andrebbe considerato in modo specifico è quello che riguarda la realtà giovanile, in cui tutti questi elementi e queste tendenze si presentano in forme accentuate.

Nella condizione giovanile è infatti il segno più chiaro dei processi di crisi che investono la società italiana nei suoi punti di più avanzato sviluppo. Ma è questo un tema che ci porterebbe lontano. Basti qui osservare che nella discussione sui nuovi ceti urbani, proprio in quanto si tratta di vedere ciò che di nuovo si sviluppa, ciò che emerge, molte indicazioni possiamo trovare a partire dal mondo giovanile, dal suo travaglio, dalle sue forme di coscienza.

 

5) In queste nuove condizioni, quindi, come si può configurare la politica delle alleanze sociali? A me sembra che le tendenze in atto, che ho cercato sommariamente di richiamare, possano essere fatte agire positivamente all’interno di una linea che punta alla costruzione di una alternativa politica.

L’attivizzazione sociale, il declino tendenziale dell’egemonia democristiana, la messa in discussione delle forme attuali della politica, le esigenze di libertà e di progresso, tutto questo costituisce un potenziale su cui è possibile operare.

Rispetto alla politica del compromesso storico, c’è una correzione di rotta da compiere. Allora il tema delle alleanze sociali si poneva all’interno di una proposta di intesa politica con la Democrazia Cristiana, vedendo in questo partito l’espressione politica necessaria di un complesso di strati sociali intermedi, di forze moderate, di settori di borghesia, e vedendo nell’interclassismo democristiano l’espressione ideologica conseguente di tutte queste forze.

Ora è proprio questo punto, questo giudizio sulla DC ad essere messo in discussione.

E la politica di alternativa democratica che punta a disarticolare il blocco sociale democristiano, è messa anzitutto alla prova sul terreno delle alleanze sociali, e può camminare solo alla condizione che si realizzi uno spostamento profondo di forze reali, che si acceleri tutto il processo di organizzazione autonoma di quelle forze sociali che hanno rappresentato nel passato il sostegno passivo del sistema di potere.

Per questa ragione, il tema delle alleanze, ovvero della costruzione di un nuovo blocco sociale, è davvero parte integrante ed essenziale di una politica di alternativa.

L’esperienza delle giunte di sinistra nelle grandi città, dal ‘75 ad oggi ha rappresentato sotto questo profilo, un laboratorio assai interessante. Vi sono molti esempi positivi che dimostrano come l’obiettivo di una disarticolazione del blocco dominante e di un allargamento delle alleanze sociali della sinistra è un obiettivo realistico e praticabile. Abbiamo certo potuto sfruttare un prolungato stato di smarrimento della DC, che si è trovata colpita nel suo ruolo essenziale di partito di governo e che ha faticato a ricomporre una propria identità e a definire, nella nuova situazione, una adeguata tattica politica.

Ora la DC tende a una riorganizzazione delle proprie forze e sembra trovare, con la linea della nuova segreteria, una maggiore sicurezza di sé. La partita è ancora aperta e per questo sarebbe di grave pericolo ogni tendenza alla routine, all’ordinaria amministrazione, perché anzi si tratta di tenere alto il profilo della nostra iniziativa, e di utilizzare i punti di forza che abbiamo nelle grandi città, per porre, in tutta la sua attualità e concretezza, l’obiettivo dell’alternativa.

 

6) Il terreno su cui è necessario avanzare è soprattutto quello della definizione di una chiara proposta programmatica. La possibile convergenza tra il movimento operaio e i ceti intermedi dipende essenzialmente da questa condizione, dalla capacità nostra di indicare, sia nelle singole realtà locali sia in quella nazionale, delle precise opzioni politiche che diano sostanza al progetto di alternativa.

Le questioni di fondo mi sembrano essere due. La prima è quella dello sviluppo, della ripresa produttiva, del risanamento dell’attuale stato di dissesto dell’economia italiana. Su questo terreno, vi sono forze economiche e sociali decisive che possono essere impegnate e mobilitate, contro i pericoli di decadimento e di emarginazione, per uno sforzo costruttivo unitario che valorizzi tutte le risorse del paese.

La seconda questione essenziale è quella del rinnovamento democratico, del rapporto partiti-società civile, dell’allargamento degli spazi di partecipazione e di libertà. Su questi temi, dopo una campagna propagandistica che ci ha visti impegnati intorno alla parola d’ordine del “nuovo modo di governare”, abbiamo segnato il passo. Restano da affrontare e risolvere questioni difficili e complesse: la moralizzazione della vita pubblica, il sistema delle nomine, le forme di controllo democratico, l’allargamento dei diritti civili, ecc.

 

7) Le trasformazioni in atto nelle grandi città pongono il partito di fronte alla necessità sempre più urgente di una innovazione profonda delle strutture organizzative e dello stile di lavoro.

In generale, con gli strati sociali intermedi non abbiamo un rapporto politico organizzato, non svolgiamo in questo campo una attività permanente, anche se il nostro elettorato è in realtà assai composito e comprende larghe fasce di ceto medio. Il rischio è che le potenzialità che si sono espresse negli anni ‘75-’76 vengano rapidamente riassorbite, che in mancanza di un nostro impegno politico organico e prolungato, la mobilità elettorale di questi ceti imbocchi altre direzioni, restringendo così la nostra influenza. E già sintoni di questo tipo si sono manifestati almeno in alcune città.

Il problema da affrontare è anzitutto quello degli strumenti di organizzazione, essendo evidente che la rete organizzativa delle sezioni territoriali, allo stato di cose attuale, non consente un collegamento con questi ceti, se non in una misura assai limitata.

Si tratta sia di riesaminare il funzionamento e il ruolo delle sezioni, sia di portare a un livello decisamente più alto tutti gli strumenti e le articolazioni del lavoro delle Federazioni (gruppi e commissioni di lavoro, strumenti culturali e di ricerca, mezzi di comunicazione, ecc.).

Occorre anche vedere come possiamo organizzare una nostra presenza nelle organizzazioni sociali delle diverse categorie, una presenza che non sia solo una collocazione individuale di singoli compagni.

Una difficoltà è data certamente dalla carenza delle nostre forze, ma in molti casi abbiamo energie non utilizzate, compagni che vengono lasciati a se stessi e che potrebbero essere investiti di un importante ruolo politico. C’è una quantità notevole di specialisti, di tecnici, di dirigenti che il partito non responsabilizza, non utilizza per le loro competenze professionali e per le loro conoscenze.

Ciò vale per il partito e vale più in generale per la gestione della cosa pubblica, in cui i canali di decisione sono troppo spesso ristretti agli apparati politici.

Singole misure organizzative rischiano però di essere inefficaci se non riusciamo ad andare al fondo politico del problema, ad aprire su questo arco di problemi una discussione approfondita che metta alla prova l’orientamento generale del partito, i suoi riferimenti culturali, la sua “immagine”, la sua tradizione.

Uno sforzo attivistico approderebbe a scarsi risultati se non ci impegniamo in una più generale azione di rinnovamento.



Numero progressivo: F28
Busta: 6
Estremi cronologici: s.d
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -