UGUAGLIANZA – INTOLLERANZA

Le passioni e gli interessi dei localismi economici e politici. Convegno CGIL Lombardia dell’11 marzo 1991

Comunicazione di Riccardo Terzi

Siamo alla conclusione di un decennio.

Negli anni ‘80 si è consumato un ciclo storico, con profondissimi effetti politici, sociali ed economici. Sono gli anni della ristrutturazione capitalistica, che ha investito non solo l’apparato industriale, ma l’intero assetto sociale, e in questo nuovo contesto sono cambiati radicalmente i riferimenti culturali, i modi di pensare, le ideologie.

L’involucro concettuale che dà ragione delle tendenze in atto non è, come si usa dire, l’individualismo (magari fossimo in presenza di individualità forti ed autonome), ma piuttosto il particolarismo, il restringimento dell’orizzonte di vita in cui ciascuno si realizza, e quindi l’infiacchimento dell’individuo. Come già aveva colto acutamente Adorno «Lo stato di cose in cui l’individuo sparisce è insieme quello dell’individualismo scatenato», il particolarismo comporta la messa in crisi di ogni criterio regolatore di tipo universalistico, la destrutturazione quindi dei valori di eguaglianza, di solidarietà su cui si fondano le ragioni della sinistra.

Il localismo è una possibile variante di questo fenomeno, anche se esso può assumere connotati diversi, non sempre necessariamente regressivi.

La riscoperta delle proprie radici può anche essere, infatti, il punto di partenza per una comprensione più larga.

Al termine di questo ciclo, lo scenario politico si presenta sconvolto, e pesano sul futuro alcune incognite di difficile decifrazione.

Le elezioni dello scorso anno hanno segnato con nettezza questo mutamento di clima, con l’esplosione del fenomeno leghista, con la Lega Lombarda secondo partito della regione che si vanta di essere la più progredita d’Italia, con le varie forme di frammentazione e di corporativizzazione della rappresentanza politica.

Non c’è stata, nel corso di quest’anno, una reazione adeguata, una capacità nuova di comprensione, di comunicazione con la società, di rinnovamento della politica.

Sembrano prevalere due atteggiamenti, entrambi errati e ciechi.

Il primo è l’atteggiamento di rimozione del fenomeno: la vita politica e istituzionale riprende i suoi ritmi, nei partiti si gioca l’eterna partita che regola gli equilibri interni del potere, come se nulla nel frattempo fosse accaduto, nell’illusione che si tratti di un incidente di percorso, di un episodio di folclore destinato ad essere prima o poi riassorbito.

Non si vede la rottura che si è aperta nel sistema politico e perciò non si ha la capacità di preparare nessuna soluzione per il futuro, lasciando che la situazione marcisca.

Il secondo atteggiamento si manifesta nella retorica e nella banalità del comizio antileghista, a difesa delle istituzioni e dell’unità nazionale, contro i “nuovi barbari”, contro la loro incultura e rozzezza.

Ogni comizio di questa natura allarga gli spazi della Lega perché dimostra l’ottusità del sistema politico, la sua forza d’inerzia e l’incapacità di recepire e selezionare le domande della società. A noi sembra necessario un altro e più impegnativo approccio: cercare di capire com’è cambiata, e come sta cambiando, la società italiana, nei suoi aspetti sociali e culturali, e collocare in questa analisi più ampia il fenomeno politico del leghismo, che risulta altrimenti incomprensibile, e che è uno degli elementi di questo quadro, rilevante in quanto segnale di sommovimenti profondi che si sono prodotti nella vita sociale e nella coscienza collettiva.

E per questa via si tratta di elaborare una strategia politica d’insieme, che sia capace di rispondere alle incognite e di costruire il futuro, con l’iniziativa riformatrice, e non con le frasi ad effetto e a buon mercato che non servono ormai più neppure per un comizio di paese.

D’altra parte, e sempre una buona regola prendere sul serio avversario l’avversario se lo si vuole efficacemente combattere. E di “avversario” si tratta, perché la risposta localistica non è il superamento della crisi del sistema democratico, ma il compimento di questa crisi, la chiusura di ogni orizzonte possibile di trasformazione, il ripiegamento in un quotidiano privo dl “anima” e di idealità.

Come detto nel rapporto di ricerca, “le passioni diventano piccole e fredde passioni”. Abbiamo pensato a questa ricerca, l’abbiamo costruita insieme con l’equipe di AAster come un progetto di lavoro politico che impegna e coinvolge direttamente il sindacato e i suoi gruppi dirigenti.

Lo scopo non è solo conoscitivo. È il sindacato stesso che è in questione e che deve definire nuove linee di azione; perché nella crisi delle forme di rappresentanza siamo pienamente coinvolti, e anche il quadro sindacale è spesso avvertito come “ceto politico”, distante dai bisogni reali dei lavoratori, di cui si assume una funzione di rappresentanza, che è solo presunta, non verificata, talora del tutto arbitraria.

È una ricerca, dunque, che ci mette in questione, ci compromette, che parla anche di noi, del nostro lavoro, della nostra cultura.

Ma prima di affrontare alcune questioni di linea sindacale, vediamo se è possibile rimettere a fuoco il “cuore politico” della ricerca.

Essa mette in luce la società lombarda (ma, come sappiamo, le tendenze non riguardano solo la Lombardia) attraversata da un profondo malessere.

Non è il malessere dell’arretratezza, dei bisogni primari insoddisfatti, dell’emarginazione. C’è anche questo, naturalmente, negli interstizi della società. Ma si tratta di disagio che è legato che è legato al processo di modernizzazione, della sofferenza e della crisi con cui il moderno viene vissuto.

È un fenomeno complesso, non riducibile ad un unico ordine di motivazioni.

C’è l’effetto di sradicamento prodotto da una società e da un tipo di sviluppo che provoca omologazione, livellamento, appiattimento degli stili di vita: c’è l’angoscia di chi non riesce a controllare e a dominare il nuovo e che cerca rifugio nei valori di una “tradizione locale” la quale pero ormai sopravvive solo come stereotipo o come artificio, c’è la voglia di affermazione dl un nuovo ceto che ha conquistato livelli alti di benessere materiale e che pensa di affermare una sua leadership anche nel terreno politico, ma che e incapace di elaborare un progetto politico ricco e resta al livello della rappresentanza corporativa; c’è una società civile che è cresciuta e che entra in collisione con le forme della politica, con lo stato centralizzato e burocratico, e con le oligarchie chiuse di partito; c’è anche la grettezza di chi vuole difendere coni denti il suo pezzetto dl benessere, di sicurezza, il suo “particolare” e costruisce una trincea di difesa contro nemici reali o immaginari; c’è per tutto questo insieme di ragioni, un accumulo di frustrazione e aggressività, che dà luogo ad urla situazione esplosiva.

Anche l’intolleranza razziale è un elemento di questo quadro, anche se non quello determinante. E d’altra parte un fenomeno tipico lo scaricarsi dell’aggressività repressa nell’intolleranza per il diverso e nel sacrificio del capro espiatorio.

Su questi sentimenti, di paura e di rancore, si può innestare |un’azione politica apertamente di destra, e anche questa è un’eventualità del futuro da non trascurare.

Il quadro è inquietante, ma non credo che dobbiamo trarne delle conclusioni solo negative o disperate.

La società lombarda sta cercando nuove vie, nuove ragioni di identità, e noi dobbiamo essere capaci di prospettarle, di dare a questo travaglio uno sbocco democratico e razionale, scongiurando il rischio che esso finisca impantanato in forme regressive e reazionarie. Dobbiamo quindi guardare alla realtà senza veli ideologici, e senza moralismi per coglierne tutte le potenzialità, per individuare le possibili dinamiche e per cercare di governarle.

Anche noi dobbiamo fare i conti con la modernità, e non rifugiarci nel mito, nell’idealizzazione del passato.

A ben guardare, anche alcuni “rifondatori” appartengono a buon diritto al quadro che abbiamo delineato, perché anch’essi fuggono la realtà e si costruiscono una casa abitabile, una tradizione mitica in cui riconoscersi.

Il movimento da fare è l’opposto: è l’apertura più coraggiosa verso il nuovo, verso la sperimentazione di nuove forme di vita assumendo la modernità, con il suo immenso apparato tecnologico, come uno strumento potente da mettere al servizio di una politica “di liberazione” per riconquistare il controllo sulla propria vita e sul proprio lavoro.

Di fronte al fenomeno del localismo, come ripiegamento nell’usuale, nel quotidiano, noi ci proponiamo decisamente di andare controcorrente; di parlare non il dialetto di una comunità che non sa comunicare con l’esterno, ma il linguaggio dei valori universali, che è il solo linguaggio possibile per una forza di sinistra.

Abbiamo per questo intitolato il presente convegno al principio dell’“uguaglianza”, all’istanza di universalità del diritto contro i privilegi delle oligarchie e contro tutte le forme di intolleranza, di razzismo, di rifiuto del diverso.

Occorre però aggiungere che l’universale, per non essere astratto e vuoto, deve pure radicarsi nella concretezza della realtà. E in questo senso le identità e le appartenenze parziali hanno un valore, a condizione che esse non siano esclusive e intolleranti.

Se la sinistra è in crisi, e il suo sistema di valori sembra inattuale, fuori tempo, ciò e dovuto, in parte, al ruolo astratto in cui questi valori si sono affermati, e anche al fatto che la sinistra non è stata coerente con le sue stesse premesse, che essa troppo spesso, per un calcolo di realismo opportunistico, ha tralasciato di combattere battaglie che dovevano essere date, ha seguito la tattica tortuosa dell’adattamento più che quella della battaglia aperta per l’affermazione di nuovi valori. I risultati che emergono dai questionari nei luoghi di lavoro parlano di queste nostre debolezze e incoerenze, perché mostrano una classe operata che ha subito, in questo decennio, i colpi pesanti della ristrutturazione, che si sente insicura, fiaccata da un lavoro sempre più intenso e che si sente sempre più “marginale”, non riconosciuta socialmente, priva di una identità politica, e perciò esposta anch’essa, come l’insieme della società, alle angosce del moderno e alle suggestioni della subcultura leghista.

Il controllo dell’innovazione e dei ritmi di lavoro appare la questione centrale. Ne viene una domanda di azione collettiva, di azione sindacale.

Il sindacato resta un interlocutore, ma nei suoi confronti c’è come una sospensione di giudizio, una riserva critica, che potrà essere sciolta solo con la verifica dei fatti.

E se la verifica è negativa, altre forme di organizzazione e di rappresentanza potranno essere imboccate.

I motivi fondamentali di disagio che vengono sollevati sono legati alla concretezza della prestazione di lavoro, e ci confermano quindi nell’indicazione dell’azione contrattuale de centrata, nei luoghi di lavoro, come il nuovo necessario baricentro di una strategia sindacale che sappia incidere nel vivo delle trasformazioni.

Ed appare evidente anche il limite che il sindacato ha avuto sul fronte dell’occupazione, la mancanza di una politica che affronti organicamente i processi di mobilità e di riqualificazione professionale; per cui i lavoratori finiscono per vedere l’occupazione solo all’interno della loro realtà aziendale e misurano solo con questo metro sia le loro prospettive sia lo stato di salute dell’azienda.

Più in generale, in questo distacco critico nei confronti del sindacato, e nella denuncia di un eccesso di “politicizzazione”, non c’è solo il primitivismo di una posizione corporativa, che non sa cogliere gli obiettivi più generali del movimento sindacale, c’è anche l’esigenza di un sindacato “rappresentante sociale”, autonomo, non invischiato nel sistema politico.

Sono temi che dovremo porre con forza al congresso della CGJL: l’autonomia, il decentramento, la costruzione di un’effettiva rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro, una politica rivendicativa che metta al centro la qualità del lavoro.

E la CGIL può contribuire alla ricostruzione di una cultura di sinistra, dando concretezza all’idea di eguaglianza con una politica dei diritti, ovvero dell’uguaglianza delle opportunità per tutti i lavoratori e per le lavoratrici, riconoscendo la specificità e la differenza delle loro esigenze soggettive.

Tutto ciò comporta un nuovo stile di lavoro, attento alle condizioni reali di vita dei lavoratori e una capacità di dialogo, di confronto, con i soggetti che vogliamo rappresentare, con le loro ansie e le loro contraddizioni, oltre i miti di un’unità di classe di natura ideologica.

C’è un lavoro immenso di ricostruzione di identità politica dei lavoratori, per rimettere in moto non solo la difesa degli interessi, ma le passioni, il coinvolgimento emotivo in un’azione collettiva che si ponga fini ambiziosi di trasformazione sociale.

La crisi del sindacato è solo un aspetto di un problema più ampio che riguarda le forme della rappresentanza democratica. Si sono ostruiti i rapporti tra società civile e politica.

La politica tende a costituirsi come sfera separata, e di conseguenza nella società prevalgono logiche corporative, venendo meno la funzione di mediazione e di sintesi di una leadership politica autorevole.

Ciò è in modo particolare evidente nella nostra regione, che non sa esprimere, ormai da tempo, una classe dirigente, capace di decidere intorno alle scelte strategiche fondamentali, le quali sempre più dipendono da altre sedi, lontane, dal Governo centrale, o dalle multinazionali o dall’apparato di potere del gruppo FLAT.

Anche la borghesia lombarda ha perso il suo ruolo e la sua influenza politica.

Questa situazione di “debolezza politica” della Lombardia è sicuramente uno degli elementi che incoraggia la protesta localista, e si tratta di una debolezza che pesa sugli equilibri nazionali e che rende fragile l’assetto politico del paese.

D’altra parte con l’integrazione politica ed economica a livello europeo non e più accettabile la struttura centralistica dello Stato nazionale, e i nuovi decisivi punti di riferimento sono l’Europa e le Regioni.

Una riforma in senso regionalista dello Stato è quindi un’esigenza insopprimibile. Ciò comporta una redistribuzione dei poteri tra Stato centrale e autonomie locali e una riforma dei meccanismi fiscali che dia alle regioni e agli enti locali un’effettiva autonomia finanziaria. In questa direzione può essere opportuna una riforma del bicameralismo con la formazione di una camera delle Regioni.

Intorno a un rinnovato potere della Regione si può ricostruire un sistema di governo e un’identità politica della Lombardia

Non tratto qui tutti gli aspetti della necessaria riforma istituzionale. Possono esserci diverse ipotesi, ma è comunque certo che radicali riforme sono necessarie per restituire ai cittadini quella sovranità politica che appare oggi “sequestrata” da centri di potere non trasparenti e non responsabili; e gli stessi partiti, senza indulgere alla facile polemica sulle partitocrazie, non sono più uno strumento efficace di comunicazione fra il potere politico e la società, non sono la democrazia di massa che si organizza.

Bisogna perciò tendere a un più diretto intervento dei cittadini: con nuove leggi elettorali e anche con forme di elezione diretta.

Ma non è solo una questione di natura istituzionale: si tratta, più in generale, delle forme dell’agire politico.

Se i partiti non saranno capaci di autoriforma, non si ferma l’ondata della protesta e non si costruisce un nuovo, più maturo, ordine democratico.

E i tempi sono ormai per tutti tempi strettissimi. In che direzione deve andare questo sforzo di riforma? Ne vogliamo discutere qui con alcuni autorevoli esponenti di partito.

Non voglio fare la propaganda alla rete di Orlando, ma penso che il concetto di “rete” può rappresentare un approccio fecondo, perché esso significa la rottura del modello gerarchico e burocratico, dell’organizzazione chiusa, dell’appartenenza esclusiva, e indica il percorso di una presenza articolata, differenziata, aperta, calata nella società, nei suoi conflitti, ed espressione della società.

Penso a quanto emerge dalla ricerca, al fatto che la più significativa reazione alla chiusura individualistica è il cosiddetto privato sociale, quell’esperienza cioè molteplice di impegno civile e di volontariato che si esprime in un tessuto assai vario di associazioni e di movimenti finalizzati ad obiettivi di solidarietà sociale.

È appunto una rete.

Non è possibile allora pensare alla politica in questa ottica, come una forma di organizzazione che ha le sue radici in questo tessuto e che valorizza le numerose risorse umane e civili disponibili?

La costruzione di questa rete di solidarietà attiva e la risposta alle Leghe: non la difesa retorica delle istituzioni, non l’arroganza della politica, ma l’impegno attivo di un contatto diretto con la società e i suoi bisogni.

Sarà un lavoro lungo, e occorre anche saper andare controcorrente; e combattere una difficile battaglia culturale per affermare l’idea di una società aperta che riconosce e realizza l’eguaglianza dei diritti.

È un compito che spetta a tutti, al sindacato, ai partiti, alla cultura.

Per quanto ci riguarda, questa è la conclusione che noi ricaviamo dal lavoro di ricerca.

E la ricerca è quindi l’inizio di un lavoro, di una presenza sul territorio, è la costruzione di una prima “rete” di quadri sindacali che sappiano agire in quest’ottica, con questa nuova capacità di dialogo con la società.

In questo senso, penso a questo convegno come a un momento importante di preparazione del congresso della CGIL e l’insieme dei materiali – la ricerca, i seminari di formazione, il convegno – saranno la base di una riflessione e di un approfondimento che dovranno impegnare i nostri quadri e i nostri gruppi dirigenti.



Numero progressivo: A20
Busta: 1
Estremi cronologici: 1991, 11 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nota settimanale della CGIL Lombardia”, n. 6, 18 marzo 1991, pp. 1-4