UN’ANALISI DEGLI INTERVENTI
Continua il dibattito sul documento di novembre
di Riccardo Terzi
Il documento collettivo Un contributo al rinnovamento del socialismo europeo ha aperto, sulle colonne della rivista, un’interessante discussione, e molti interventi, pur nel quadro di una condivisione sostanziale delle linee del documento, lo hanno sottoposto ad un serrato esame critico ed hanno indicato nuove linee di approfondimento e di ricerca.
Credo che la discussione tra di noi debba continuare e che debbano essere precisati e chiariti i punti che possono apparire controversi. I documenti servono a questo, quando servono: sono una base su cui lavorare, e il confronto ci porta sempre oltre il punto di partenza, correggendo quel tanto di eccessivamente assertivo, e talora anche predicatorio o volontaristico, che costituisce il limite corrente di appelli e dichiarazioni collettive, che nascono in un contesto determinato e sono quindi sempre l’espressione di una parzialità.
Avendo partecipato, insieme ad altri, alla promozione di questa iniziativa, proverò a chiarire il mio punto di vista, riesaminando le questioni più rilevanti e più meritevoli di approfondimento che sono state sollevate.
- L’obiezione più radicale viene posta nell’articolo di Fulvio Papi, e riguarda la possibilità stessa di intervenire nel mondo presente con i criteri della razionalità politica. In una società dominata dall’individualismo di massa e da una pratica di relazioni di tipo mercantile, il discorso politico razionale rischia di essere solo l’enunciazione di un astratto dover-essere, senza nessuna effettiva presa sulla realtà.
«Domande: chi fa il progetto? Un nuovo immaginario soggetto onnipotente? Il quale offre, ma come offre? Attraverso il discorso razionale? Chi è il destinatario? Anzi, chi può essere il destinatario? Si dice la società. Ma esiste veramente una società in attesa della formazione di una coscienza collettiva? La società oggi è unificata dalla pratica mercantile, quanto alla sua elaborazione, essa avviene in compagnia di svariate forme immaginarie di autoriconoscimento e di identità».
Può bastare questa citazione per capire l’approccio critico di Papi, il suo rimandarci, al di là delle formule politiche correnti, a domande più radicali che mettono in discussione lo stesso significato di quelle formule. Il problema, in sostanza, è il destino possibile della politica in una società spoliticizzata. Ciò che non può più funzionare, ammesso che abbia funzionato nel passato, è l’idea di un rapporto organico, regolato da una necessità teorica, che unisce società, politica e storia, è la presunzione di un primato della politica, in quanto solo essa sa rappresentare e portare alla coscienza i bisogni profondi della società e il suo destino nell’evoluzione della storia.
Oggi queste connessioni sono visibilmente spezzate, e quindi la politica è solo una pratica sperimentale, non l’inveramento di una teoria, è una delle forme della prassi sociale, che convive e si incrocia con altre forme, senza che vi sia in questo intreccio una superiore astuzia della ragione che predetermina il corso delle cose. Ma davvero abbiamo dato l’impressione, con il nostro modesto documento, di riproporre una filosofia della storia e di pensare la politica come l’esercizio di una razionalità assoluta? Se fosse così, significa solo che le parole hanno travisato il pensiero. Nel nostro linguaggio politico sopravvivono alcune formule teoriche del passato, le quali però sono ormai solo un deposito inerziale, slegato dall’apparato ideologico originario. Così, analogamente, il discorso politico continua ad essere infarcito di espressioni derivate dalla terminologia militare, il che avviene anche nei momenti di ordinata convivenza democratica, e quel linguaggio ha quindi solo un significato metaforico.
Io quindi considero la critica di Papi come una giusta puntualizzazione teorica, la quale però non stravolge il senso del nostro discorso politico, ma piuttosto lo circoscrive e ne chiarisce il contesto. Occorre sapere che il contesto nel quale oggi ci troviamo ad agire è segnato da un processo di individualizzazione e di dissolvimento delle grandi identità collettive, e che dunque la politica deve trovare forme di comunicazione e modalità di linguaggio che siano in grado di interagire con questa realtà.
In questo senso, il problema della politica non è un problema di razionalità, non attiene alle categorie del vero e del falso, ma è un problema di efficacia, di funzionalità pratica, riguarda cioè la capacità di dare forma e rappresentazione a determinati processi che si svolgono nella società. Un’ideologia politica funziona in quanto sa organizzare e mobilitare forze reali: il suo obiettivo non è teorico, ma pratico.
Sotto questo profilo, la destra, proprio per la sua sostanziale indifferenza verso le complicazioni della teoria, ha saputo in modo assai più duttile adattarsi al processo sociale, e dispone di una grande forza di aggregazione, perché sa miscelare, con grande spregiudicatezza pragmatica, una varietà assai eterogenea di interessi, di impulsi, di culture. Essa si è costituita come movimento e non come pensiero, come forza materiale e non come progetto. Accade così che la destra, paradossalmente, ha più chiara consapevolezza del carattere sovrastrutturale delle rappresentazioni ideologiche, e punta all’obiettivo politico concreto, mentre la sinistra troppo spesso si perde in infinite dispute ideologiche, e la discussione politica assume una forma teologica, dogmatica, per fissare il confine tra la verità e l’eresia. E da ciò consegue l’incapacità di tenere insieme le differenze, e quindi la continua spinta alla separazione, alla rottura, proprio perché si pensa che ci sia un’unica verità possibile. Ora, tra una sinistra sacerdotale e una destra machiavellica, l’esito della partita è scontato.
Ma ciò significa solo che dobbiamo avere della politica una concezione più realistica, e non sovraccaricarla di impropri significati filosofici, o etico-morali, o escatologici, sapere cioè che l’azione politica avviene sempre nel campo del relativo e non dell’assoluto: la virtù e la fortuna di Machiavelli, e non l’imperativo categorico di Kant.
Non sarei invece d’accordo con una conclusione più drastica, che ritenesse ormai finito il tempo della politica, perché la moderna società complessa, con il suo groviglio inestricabile di interessi, di corporativismi, di identità parziali, di sottoculture, non può più trovare un proprio filo regolatore, e può procedere ormai solo per assestamenti spontanei, provvisori, in una prospettiva che esclude in via di principio la dimensione politica. Ma non mi sembra che sia questo l’approdo delle osservazioni di Fulvio Papi. Possiamo invece condividere la sua conclusione: «occorre persuaderci che la dimensione politica si manifesta in modo plurale, e ciascuno di questi soggetti deve abituarsi a pensare partendo da questa pluralità, e dalla possibilità di fare passi positivi in direzioni diverse senza ritenere che sia possibile un’armonizzazione complessiva. Il progetto è plurale e contingente».
- Il secondo tema, sollevato da molti interventi, è quello del rapporto tra partiti e movimenti. In generale, le osservazioni critiche al documento, su questo punto, mi sembrano fondate, perché in effetti ci siamo fermati a formulazioni eccessivamente sbrigative, e può essere apparsa, al di là delle intenzioni, una posizione tutta incentrata unilateralmente sul ruolo del partito politico, con una scarsa capacità di rapportarsi con i vari movimenti che, su diversi terreni, si sono sviluppati negli ultimi mesi, e di cogliere la loro portata, le risorse potenziali di cui sono portatori. E, soprattutto, c’è un punto di fondo che va chiarito, e che è posto con grande chiarezza da Enzo Rullani: «Credo che vi sia, nel documento, l’idea implicita che movimenti, partiti (politici) e formazioni elettorali siano tre aspetti della stessa medaglia. E che, dunque, vadano riconnessi (ovviamente convergendo verso il centro, il partito). Ma non è così. Il mondo è diventato abbastanza complesso da dare ai tre momenti uno spazio di sviluppo autonomo». La mia personale opinione coincide con quella di Rullani. Non penso affatto ad un ruolo dominante del partito politico, e che tutto il resto si debba muovere solo nella sua orbita. Le considerazioni svolte in precedenza sulla spoliticizzazione della società e sull’impossibilità di tenere uniti tutti i fili dell’azione sociale in un unico progetto complessivo portano necessariamente ad una conclusione: che in questa società, che vive con difficoltà e con diffidenza il rapporto con la politica, le forme spontanee di organizzazione sociale o di mobilitazione civile debbono potersi sviluppare secondo i propri ritmi, secondo la propria dinamica, senza essere costrette dentro uno schema politico che le condizioni dall’esterno. Se la società si mette in movimento, gli spazi della politica si riaprono. Se viceversa tutto viene pregiudizialmente politicizzato, si atrofizza tutta la dinamica sociale. Insomma, la politica vince se sa riconoscere le autonomie, e perde se vuole imporre il suo dominio.
Il documento, almeno così io l’ho interpretato, non voleva affatto contrapporre partito e movimenti, o stabilire tra loro un rapporto di ordine gerarchico, ma circoscrivere la funzione specifica del partito politico, costruire un suo spazio autonomo, e non affogare questa funzione in una posizione di rincorsa, di accodamento ai movimenti, in un rapporto di tipo strumentale. Il bersaglio polemico, insomma, non sono i movimenti, ma il populismo.
Proprio perché i due piani sono distinti e non sovrapponibili, la funzione politica ha un suo ordine, una sua logica, e la carenza di strategia politica e di elaborazione programmatica non può essere compensata da una scelta di tipo movimentista. Il partito politico non è il tutto, il depositario della sintesi, ma non deve essere neppure il nulla che si dissolve nella spontaneità sociale. E oggi il rischio più concreto, tra questi due estremi, è quello di un partito che si rassegna ad essere il nulla, senza un proprio profilo, senza una propria visibile identità. Per questo abbiamo accentuato il tema del partito politico, perché è questa funzione che è messa a rischio. È una funzione, non esclusiva e non dominante, ma necessaria per un efficace funzionamento della vita democratica, e questa funzione richiede che ci sia uno strumento organizzato, in grado di compiere il suo specifico lavoro di elaborazione programmatica, di coordinamento delle iniziative, di selezione di un gruppo dirigente, di interlocuzione con i diversi soggetti sociali. Se questa struttura si collassa, non ci sono altri soggetti che possono svolgere un ruolo di supplenza.
- Perché non si è costruito in tutti questi anni un moderno partito socialista, capace di riunire tutti i diversi filoni del riformismo italiano? Perché non siamo riusciti a dare al partito una struttura, una forza di attrazione, un orizzonte culturale più aperto, e continuiamo ancora ad essere un progetto incompiuto, una realtà eternamente in transizione, tra un passato solo superficialmente rimosso e un futuro solo vagamente immaginato?
Questa è forse la domanda più difficile e più problematica, ed essa viene posta chiaramente da Silvano Andriani. «A questo punto non possiamo semplicemente riproporre per la quarta volta l’obiettivo di costituire un partito social-democratico, bisogna cominciare a chiederci perché non ci siamo riusciti.»
La risposta di Andriani ci riporta al tema precedente: usare il movimento per rinnovare il partito, come è accaduto nel PCI di Longo e Berlinguer negli anni settanta. C’è un’altra possibile risposta, che più volte è stata affacciata nel dibattito politico: che l’impresa è semplicemente impossibile, perché ormai si è esaurita la funzione della cultura socialista, legata alla storia e ai conflitti del Novecento e non più proponibile dopo la fine di quel mondo e delle sue rappresentazioni ideologiche. Il tema, si dice, non è più oggi il socialismo, ma il riformismo, nelle sue diverse varianti, e si rende perciò necessaria un’operazione di larga contaminazione culturale, inglobando in una nuova sintesi i prodotti più avanzati del pensiero liberale e di quello cattolico-democratico. La sinistra del futuro si costituisce quindi andando decisamente oltre i confini della tradizione socialista.
Una terza tesi, ancora più radicale, considera ormai inutilizzabile lo strumento-partito, perché siamo nell’epoca della comunicazione di massa e della società individualizzata, per cui ciò che conta è solo la costruzione di una leadership e la sua capacità di affermarsi attraverso i circuiti della comunicazione, saltando tutte le vecchie strutture organizzative.
Proviamo ad analizzare queste diverse tesi e a sondarne il loro impatto concreto nella realtà politica attuale. La tesi di Andriani mette in luce un dato permanente, il movimento di circolazione che sempre avviene tra le strutture politiche consolidate e il movimento sociale. La vitalità di un partito politico è sempre il riflesso delle condizioni generali della società civile, ne segue le oscillazioni, i cicli di espansione o di ripiegamento.
«Il cambiamento reale del partito non può essere fatto in modo autoreferenziale, senza alcun rapporto con una società in movimento. E di movimento, negli anni novanta, a sinistra, ce ne è stato ben poco. Ora le cose cominciano a muoversi, stanno crescendo movimenti di vario tipo. Trovo stucchevole che si ricomincino le antiche distinzioni tra partito e movimento, come se i partiti esistenti non fossero nati essi stessi da movimenti nella società».
Fin qui, nulla da obiettare. Ma, ripeto, questa è solo una verità generale, e ci dice poco sulla specificità del momento politico attuale. Ci dice solo che la ripresa di un movimento sociale può creare condizioni più favorevoli per l’azione politica. Ma la politica non è solo il collegarsi con i movimenti reali. L’esempio prima richiamato del rapporto tra il movimento del Sessantotto e il PCI diretto da Luigi Longo è illuminante, proprio perché non si è trattato solo di una capacità di ascolto, ma di una complessa relazione, di dialogo, di confronto, di chiarificazione politico-culturale, nella quale il partito non si è certo adattato ad essere solo il portavoce dei movimenti. In sostanza, i movimenti sono una risorsa, ma non sono in sé la soluzione del problema.
E dovremmo anche distinguere, all’interno della categoria astratta del movimento, ciò che è solo manifestazione immediata, contingente, e ciò che invece è costruzione non effimera di legami sociali, di strutture di rappresentanza, di forme sociali capaci di durare nel tempo. Una politica di sinistra deve tendere a costruire stabilmente una rete sociale, un tessuto associativo, che abbia una sua permanenza, un suo radicamento. Qui si inserisce tutto il tema, oggi decisivo, del sindacato e della sua autonomia, del suo essere cioè una struttura di rappresentanza che ha in se stessa la sua legittimazione e che perciò rifiuta di essere il braccio operativo al servizio di un progetto politico, quale che sia. Questa distinzione tra il piano sindacale e quello politico-partitico non risulta oggi affatto chiara: ci sono troppe incursioni, sovrapposizioni, col rischio di una trasformazione della natura del sindacato, da struttura di rappresentanza e di negoziazione a struttura di militanza politica. È sotto questo profilo che la situazione attuale va analizzata, vedendo i possibili processi di consolidamento dei movimenti sociali e il rapporto che si può costruire, nella reciproca autonomia, tra azione politica e azione sociale. Ora, questo processo è solo agli inizi e presenta ancora un elevato grado di fragilità. Considero quindi anch’io essenziale il rapporto coi movimenti, ma questo rapporto va attentamente costruito, in un quadro strategico consapevole: è uno dei compiti della politica, non è di per sé la risposta alla crisi della politica.
Quanto alla seconda tesi, sul superamento dell’orizzonte socialista, mi limito ad osservare che è stata proprio questa impostazione a caratterizzare, in prevalenza, tutta l’esperienza politica del Pds-Ds, da Occhetto a Veltroni, per cui mi sembra assai azzardato vedere in questa linea l’uscita dalla crisi, essendo essa piuttosto la ragione della nostra crisi. Non si è costruito un partito socialista per il semplice fatto che questo non è stato l’obiettivo e si è puntato ad altro, con un’operazione velleitaria e confusa, che ha tagliato le nostre radici senza costruire un nuovo fondamento. Il risultato è stato un partito senza identità. Solo con il Congresso di Pesaro si è corretta questa tendenza. Il lavoro, dunque, è solo agli inizi. Ed è questo lavoro di ricostruzione e di rinnovamento del pensiero socialista l’orizzonte nel quale ci sembra utile e interessante lavorare, in un rapporto stretto con le correnti più vitali del socialismo europeo.
Infine, la tesi che sostiene l’avvenuto divorzio tra leadership e partito mi sembra essere semplicemente infondata. Non solo non è auspicabile, da un punto di vista di sinistra, una torsione personalistica della vita politica, che restringe gli spazi della partecipazione democratica, ma questa riduzione della politica alla forza carismatica del leader è una lettura del tutto superficiale della dinamica politica che caratterizza le società contemporanee. Non ci sono leader senza un retroterra organizzato, senza una struttura politica che abbia una sua forza di radicamento sociale e di rappresentanza.
I partiti personali sono brevi meteore che finiscono rapidamente nel nulla, o si adattano a ricoprire uno spazio del tutto marginale. Citiamo alcuni esempi: le liste personalizzate di Mario Segni, di Antonio Di Pietro, di Lamberto Dini. E anche gli inventori di questa formula, i radicali con Pannella prima e con la Bonino poi, hanno avuto risultati del tutto aleatori. In tutti questi casi, si tratta di esperienze di corto respiro, che sfruttano una situazione contingente di popolarità, ma non hanno nessuna base su cui costruire una reale prospettiva politica.
E Berlusconi? Dietro Berlusconi c’è una forza organizzata, una struttura, un partito, anomalo nelle sue forme, ma capace di organizzare un blocco di forze e di esprimere una classe dirigente. Lo stesso discorso vale per la Lega di Bossi, che ha costruito la sua fortuna su un tessuto di militanza e di radicamento territoriale, ed anche su una fortissima motivazione ideologica e simbolica. Non siamo alla fine dello strumento-partito, ma piuttosto ad una sua complessa trasformazione. Pensare di andare allo scontro senza una forza organizzata, solo con l’immagine accattivante di un leader che occupa gli spazi televisivi, è una ridicola ingenuità. Ciò che avviene nel mondo è esattamente il contrario: non decidono i capitani di ventura, ma le grandi strutture, e i leader sono tali solo se rappresentano queste strutture. Il problema del partito politico quindi non può essere aggirato, né con una linea di accodamento ai movimenti, né tanto meno con il lancio pubblicitario di una nuova leadership.
- Venendo all’ultimo problema, alla situazione attuale del partito dei Democratici di Sinistra, condivido l’auspicio formulato da Marco Cuniberti di un superamento delle divisioni interne e delle contrapposizioni emerse al congresso di Pesaro. Non possiamo certo accontentarci della stanca riproposizione dell’antica querelle di riformismo e massimalismo, perché si tratta di concetti ormai logorati, che hanno bisogno quanto meno di essere riattualizzati e ridefiniti nella nuova situazione.
Ma un processo di superamento delle nostre interne divisioni presuppone che vi sia almeno un accordo preliminare circa la necessità di ricostruzione del partito politico. A questa ricostruzione può concorrere il pluralismo delle idee, delle analisi, delle proposte, nella misura in cui il pluralismo è interno ad una comune prospettiva di partito. Se viceversa si tratta di ipotesi politiche che puntano al superamento dello strumento-partito, verso il suo annullamento nell’Ulivo o verso una nuova forma di populismo, se si ritiene che il partito sia un impaccio, una struttura residuale che costituisce ormai un ostacolo, una remora, allora non ci può essere evidentemente nessuna base comune di accordo.
In questo senso, abbiamo usato la vecchia formula, un po’ desueta, della lotta sui due fronti, facendo riferimento ai pericoli di dissoluzione del partito. E un processo alle intenzioni? No, è la risposta ad alcune esplicite prese di posizione, come quella, per citarne solo una, di Michele Salvati, che considera la mediazione unitaria nel partito come la ragione fondamentale della nostra crisi, da cui consegue logicamente che solo una rottura, solo la netta separazione tra riformisti moderati e riformisti radicali può restituirci un senso e una prospettiva. Se il pluralismo interno è paralizzante, non resta da far altro che mettere fine a questa finzione. Ma anche a sinistra abbiamo sentito analoghe contrapposizioni ideologiche tra moderati e radicali, tra due anime della sinistra ormai non più componibili. Le tesi di Asor Rosa sono specularmente convergenti con quelle di Salvati.
Esiste concretamente la possibilità di respingere queste spinte centrifughe, esiste cioè una posizione centrale sufficientemente solida? Il dubbio, manifestato nell’intervento di Rullani, è legittimo. Ma voglio chiarire che qui non si tratta affatto di ricondurre ad una linea univoca il pluralismo delle posizioni politiche, ma di ricondurre questo pluralismo sul terreno dell’organizzazione collettiva del partito. Il problema non è il ritorno ad un regime interno centralizzato, non è il taglio delle ali a vantaggio di una posizione centrale, ma è la piena valorizzazione delle differenze in una prospettiva di ricostruzione e non di dissoluzione del partito politico.
Può essere un’impresa non facile, ma è un’impresa assolutamente obbligata, perché se essa fallisce significa che ci prepariamo ad essere travolti dagli eventi. E in questo caso, come si dice nel documento, «è tutta la situazione politica italiana che precipita in un marasma senza sbocchi».
Busta: 8
Estremi cronologici: 2003, aprile-maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, aprile-maggio 2003, pp. 19-23