X ASSEMBLEA CITTADINA

Milano 6-7-8 febbraio 1970

Relazione di Riccardo Terzi

Compagne e compagni,

apriamo questa assemblea cittadina in una fase di avanzata del movimento operaio, dopo una stagione di lotte entusiasmanti, che hanno fatto giustizia di tutte le chiacchiere sull’integrazione della classe operaia e che resteranno nella storia del nostro paese come uno dei capitoli più significativi.

La nostra città, che è in Italia la più grande metropoli industriale, ha svolto in questi mesi un ruolo politico nazionale, è stata al centro di avvenimenti decisivi, anche drammatici, e sono stati gli operai delle nostre fabbriche, i lavoratori milanesi, i veri protagonisti di tutta la vita politica della città.

Per questo, il nostro dibattito, le decisioni che dovremo prendere, hanno grande importanza, e noi dobbiamo essere consapevoli delle nostre responsabilità politiche, del fatto che gli sviluppi della situazione milanese hanno un peso determinante su tutta la vita nazionale. Tenendo conto di ciò, abbiamo preparato questa decima Assemblea cittadina con impegno e con serietà, organizzando i congressi di tutte le sezioni, territoriali, di fabbrica e di categoria.

È stato questo un momento importante della vita interna del partito, nella città di Milano, e questa discussione congressuale ha significato indubbiamente, per tutto il Partito, una maturazione, una più chiara presa di coscienza dei propri compiti nella fase attuale.

Credo che questo giudizio sia condiviso dalla grande maggioranza dei compagni che hanno partecipato al dibattito nei congressi, un dibattito che è stato un confronto politico reale, condotto con spirito unitario, pur nella diversità delle valutazioni e delle esperienze. E deve anche essere rimarcato, come un dato positivo, il risultato ottenuto nella partecipazione dei compagni ai congressi, che è migliore rispetto ai congressi precedenti.

Naturalmente, tutto ciò non avviene a caso, ed è il segno di una situazione politica nuova, quale è stata determinata dalle lotte dell’autunno, e nella quale nuove prospettive vengono aperte. La vivacità dei nostri congressi, l’impegno politico che li ha caratterizzati, la più larga partecipazione degli iscritti, è questo appunto il riflesso di una situazione più avanzata, che risveglia la passione politica, e che pone problemi nuovi, di grande portata. Le lotte della classe operaia non sono passate senza lasciare una traccia profonda in tutta la nostra società nazionale, ed è questo il momento in cui tutti sentiamo l’esigenza di una valutazione politica delle lotte, dei risultati che hanno conseguito, della situazione nuova che ne deriva.

È evidente, dunque, come in questo momento vi si attenda dal partito politico della classe operaia una risposta chiara a questi problemi, l’indicazione di una prospettiva, di una linea di lotta, che offra ai lavoratori uno sbocco politico corrispondente ai nuovi rapporti di forza che si sono determinati nel Paese. È questo il grande tema del momento.

Questo problema, non occorre dirlo, è tutt’altro che semplice. Sappiamo bene, per tutta la nostra esperienza storica, che non vi è un rapporto meccanico, diretto, fra la lotta economica, rivendicativa dei lavoratori e la lotta politica, la quale ha una sua autonomia, ha una sua dimensione specifica. Abbiamo imparato da Lenin, dalla sua lotta inflessibile contro l’economicismo, a considerare il momento politico come componente essenziale e decisiva della lotta di classe, che va oltre la sfera dei rapporti di produzione nella fabbrica.

Ed è per questo, appunto, per questa nostra corretta concezione leninista, che rifiutiamo le tesi di natura spontaneista e anarco-sindacalista oggi riaffioranti, la tesi cioè che ci si debba affidare alla lotta per la lotta, fine a se stessa, alla radicalizzazione estrema di ogni singola battaglia rivendicativa, quasi che ogni momento della lotta fosse quello decisivo. Ciò è solo in apparenza più rivoluzionario, ed il è in realtà il mezzo migliore per condurre alla disfatta il movimento operaio sul piano sindacale come su quello politico.

Il nostro problema, evidentemente, è un altro: non è quello di correr dietro alle farneticazioni di certi piccoli gruppi estremisti, che si rappresentavano l’autunno sindacale come una specie di prova generale dell’insurrezione, ma è quello invece di agire sul terreno politico, perché la classe operaia, uscita vittoriosa dalle lotte sindacali, possa conquistare, nell’ambito dello Stato, nuove posizioni di forza, perché sia messo in crisi il sistema di potere della borghesia, che si regge mediante gli strumenti repressivi dello Stato e mediante la manipolazione e lo svuotamento della democrazia.

Lo scontro si sposta oggi su questo terreno. Ma, prima di entrare nel vivo di questo problema, occorre definire quali siano stati i caratteri delle recenti lotte operaie, per dare alla nostra discussione tutta la necessaria concretezza.

Il fatto forse più significativo è che sono state smentite e contraddette dalla realtà tutte quelle ipotesi politiche che si prefiguravano un’esplosione spontanea e incontrollata della lotta operaia, tale da sfuggire alla direzione delle organizzazioni sindacali.

Quest’immagine dell’“autunno caldo” come grande ondata rabbiosa, che avrebbe travolto tutti gli argini, a partire da quelli del sindacato e del partito, era abbastanza diffusa, in diversi settori dello schieramento politico. È appunto sulla base di questa ipotesi che hanno definito la loro tattica i vari gruppi estremisti: tutta la loro azione di propaganda era diretta a mettere in crisi il rapporto di fiducia tra le masse operaie e l’organizzazione sindacale, cercando di suscitare fenomeni di esasperazione e di gettare il discredito sui dirigenti sindacali, ed in particolare sui nostri compagni. Lo stesso obiettivo del contratto veniva definito come un obiettivo-truffa, come un compromesso vergognoso, in ultima istanza utile al padronato. Ebbene, noi possiamo dire, sulla base dei fatti, che questa tattica della esasperazione non ha avuto successo, non ha trovato alcuna rispondenza nella coscienza dei lavoratori. Al contrario, nel corso della lotta il ruolo dirigente delle organizzazioni sindacali si è venuto rafforzando, ed i sindacati hanno saputo rendere partecipi i lavoratori, chiamandoli a discutere, nelle assemblee, gli obiettivi e le forme della lotta. Chi cercava di contrapporre le masse al sindacato, la base ai vertici, si è così trovato di fronte ad una forza compatta, decisa a difendere la propria unità, a respingere con energia tutti i tentativi di disgregazione.

Noi ci auguriamo che ciò possa servire di lezione a quei giovani che cercavano il contatto diretto con la classe operaia, avendo degli operai un’immagine libresca e irreale; ci auguriamo che essi abbiano potuto imparare che la lotta di classe non è un gioco d’azzardo, ma è una cosa seria, che interessa la vita di milioni di uomini e che richiede quindi fermezza e realismo.

Resta comunque il fatto politico, il fatto che i gruppi estremisti, quelli di ispirazione maoista come quelli operaisti, sono oggi a Milano ed in Italia, dopo la grande prova delle lotte operaie, più deboli, più isolati ed hanno completamente fallito il loro obiettivo ambizioso di essere la nuova avanguardia della classe operaia. Ciò è anche una conferma della nostra linea di condotta, che partiva dalla necessità di una polemica chiara, aperta, non reticente, con le posizioni avventuristiche, dalla necessità di una denuncia dei pericoli che ne potevano derivare per l’insieme del movimento. Questa nostra posizione si è dimostrata come la più rispondente alla realtà ed alle esigenze della lotta operaia.

D’altro lato, anche le forze di destra agitavano lo spauracchio del disordine, dell’estremismo e della violenza: il loro tentativo era quello di gettare l’allarme nell’opinione pubblica, di presentare le lotte operaie come un fatto eversivo, e quindi di isolare la classe operaia e la sua avanguardia. Per ottenere questo scopo, i gruppi reazionari non hanno esitato a ricorrere alla provocazione, in modo aperto: e la nostra città è stata al centro di una serie di fatti, che sono testimonianza di questa volontà provocatoria dei grandi gruppi capitalistici. La serrata alla Pirelli prima, gli incidenti provocati davanti al Teatro Lirico nella giornata dello sciopero generale, ed infine l’attentato criminale di Piazza Fontana, sono tutti questi anelli di una stessa catena, ed è fin troppo evidente l’obiettivo politico reazionario che li contraddistingue.

Tutta la stampa borghese ha cercato di utilizzare strumentalmente questi fatti, inscenando una speculazione spudorata sulla morte dell’agente di P.S. Annarumma e sull’attentato alla Banca dell’Agricoltura, cercando di far ricadere le responsabilità di questi atti di violenza sul movimento operaio o sui gruppi anarchici ed estremisti. In questo quadro, determinato dalla campagna propagandistica della destra, si colloca anche la mobilitazione dello squadrismo fascista, e la serie di attentati che hanno subito molte delle nostre Sezioni.

Siamo passati, dunque, attraverso situazioni impegnative, che hanno messo alla prova la saldezza del movimento operaio e la sua unità. Ebbene, io credo si possa dire che da questa prova siamo usciti rafforzati, e che i piani della borghesia reazionaria non hanno avuto successo. Il nostro Partito ha saputo reagire alle manovre della destra sviluppando la propria iniziativa unitaria, mobilitando tutte le forze democratiche in un fronte comune, e soprattutto ha impedito che venisse messa in ombra la questione essenziale, e cioè l’unità dei lavoratori ed il pieno successo delle loro lotte rivendicative.

L’unità e la compattezza del movimento, la capacità di respingere sia le provocazioni della destra, sia le suggestioni estremistiche, è stata questa, dunque, la caratteristica saliente delle recenti lotte operaie.

Da questa esperienza viene ad essere rafforzata la prospettiva dell’unità sindacale, che resta per noi uno degli obiettivi fondamentali da conseguire. La costruzione di un grande sindacato unitario, democratico, espressione diretta delle esigenze dei lavoratori e strumento della loro organizzazione sui luoghi di lavoro, ciò costituirebbe un grande passo in avanti per tutto il movimento operaio italiano, ed è nostro compito essere in prima fila nell’iniziativa politica volta ad accelerare questo processo unitario.

Un altro fatto nuovo, di grande valore politico, è lo sviluppo della democrazia operaia, la partecipazione attiva dei lavoratori e delle lavoratrici a tutte le scelte circa gli obiettivi e le forme di conduzione della lotta e la conquista di nuovi diritti all’interno della fabbrica. L’esercizio del diritto di assemblea, la costituzione dei comitati di reparto, di comitati unitari di lotta, tutto ciò ha significato, per l’insieme della classe operaia, un salto di qualità, il passaggio ad una fase più avanzata, nella quale è possibile un’azione più incisiva che colpisca più a fondo il potere del padrone. Naturalmente, si tratta ora di farli funzionare questi nuovi strumenti di democrazia, di respingere tutti i tentativi del padronato di ristabilire le vecchie regole del dispotismo aziendale, e soprattutto si tratta di dare sostanza e ricchezza di contenuti politici all’esercizio della democrazia, evitando così che si produca un logoramento e che si allenti la partecipazione dei lavoratori. Ecco che allora si viene a precisare un aspetto importante della nostra funzione, come partito politico, come avanguardia della classe operaia. L’iniziativa dei comunisti, la loro capacità di indicare ai lavoratori problemi da dibattere e obbiettivi di lotta, è questa una delle condizioni perché la democrazia operaia si sviluppi e si traduca realmente in una crescita complessiva del movimento operaio e della sua coscienza politica.

Dobbiamo considerare questo problema, dei rapporti tra il partito, il sindacato, ed i nuovi strumenti di democrazia, tenendo presente l’intreccio originale che fra questi momenti diversi si viene a costituire nella realtà, evitando di ragionare secondo uno schema astratto. Non possiamo accettare quelle posizioni che considerano le organizzazioni tradizionali della classe operaia come logori strumenti ormai inservibili, e che si affidano soltanto alla spontaneità, al puro esercizio della democrazia assembleare. In realtà la democrazia si difende e si sviluppa là dove esiste un’organizzazione, uno strumento capace di durare anche nei momenti di riflusso, capace di dirigere la lotta secondo una visione degli interessi generali del movimento.

Senza questa organizzazione si va a cadere nel sindacalismo corporativo e si rimane succubi della spontaneità, dello stato d’animo del momento che è cosa instabile e che può condurre anche alla rassegnazione, e nel quale vengono ad essere filtrate tutte le influenze dell’ideologia borghese.

Direzione politica e democrazia dal basso non sono termini fra loro contradditori, ma al contrario sono due elementi indissolubili di un unico processo. È dovere nostro quindi esercitare, in mezzo ai lavoratori, tutta l’azione politica di cui siamo capaci, far conoscere in ogni momento e su ogni questione la parola del partito, combattere apertamente contro tutte le forme di deviazione che possono compromettere le prospettive della lotta operaia. Certo, il ruolo del partito si configura oggi in modo nuovo rispetto al passato, perché la realtà del movimento ha subìto profonde trasformazioni. Non possiamo pensare che la funzione dirigente del partito si realizzi in modo diretto, mediante una semplice trasmissione di direttive, ma dobbiamo guardare alla complessità del movimento, alle sue diverse componenti, e tenerne conto. Il fatto che si vada affermando nella realtà un sindacato di tipo nuovo, con una sua fisionomia originale ed autonoma, impegnato ad elaborare anche un proprio discorso politico sullo sviluppo economico della società, sulle misure di riforma da conquistare, tutto questo costituisce un risultato, di grande valore, cui anche noi abbiamo contribuito con la nostra iniziativa politica e che consideriamo una tappa importante nella storia del movimento operaio. Guai a noi se dovessimo reagire in modo settario, con diffidenza per questa crescita del movimento sindacale. E allora, di fronte a questo fatto nuovo, abbiamo bisogno di riconsiderare attentamente la funzione del partito, in questa concreta fase del movimento di classe.

Dobbiamo avvertire, a questo proposito, il pericolo di posizioni pansindacalistiche, che affiorano in certi settori del movimento sindacale, in particolare all’interno della CISL, e che costituiscono un freno, un ostacolo da superare, perché mettono in ombra l’aspetto politico della lotta di classe.

Noi non abbiamo nessuna intenzione di ridurci ad una funzione di sola solidarietà dall’esterno, non vogliamo essere soltanto un partito che si richiama alla classe operaia. Si tratta allora di sperimentare un rapporto di tipo nuovo, che in questo caso è giusto chiamare dialettico, fra l’azione sindacale e quella politica. Ovvero, l’autonomia reciproca del partito e del sindacato non significa tracciare una linea di demarcazione, fissare le rispettive sfere di influenza, per cui sino ad un certo punto arriva il sindacato, e poi interviene il partito: significa invece che su tutta la complessità dei problemi ciascuna organizzazione opera secondo il proprio angolo visuale, con i propri strumenti, in un confronto continuo e costruttivo delle rispettive posizioni.

Siamo riusciti, nel corso delle recenti lotte contrattuali, a far funzionare nella pratica questo rapporto nuovo, a far vivere l’azione del partito secondo questa concezione? Sarebbe sbagliato pensare di aver risolto d’un tratto un problema così complesso, e proprio per questo dobbiamo essere severi con noi stessi e fare un esame critico, circostanziato del lavoro che abbiamo svolto. Resta però il fatto, incontestabile, che il Partito si è rafforzato, che ha ricostruito le sue strutture organizzative in decine di fabbriche, che una nuova leva di giovani operai, impiegati e tecnici, protagonisti delle lotte, ha fatto la scelta della milizia comunista. Ciò significa che un tratto di strada è stato percorso, che già nel corso di queste lotte abbiamo cominciato a far sentire ai lavoratori con maggior chiarezza che cosa è il partito, perché è necessaria la sua azione, perché bisogna organizzarsi sul terreno politico.

Non possiamo condividere certe visioni pessimistiche, che giungono a negare l’evidenza dei fatti, parlando di crisi storica del partito e dei suoi rapporti con le masse. Queste posizioni sono dettate da ignoranza o da faziosità. In realtà, tutta l’esperienza delle lotte operaie di questi mesi, ci fa ritenere, a buon diritto, che la nostre scelte politiche fondamentali sono state giuste, che la politica del partito ha contribuito in grande misura alla vittoria della classe operaia, e che oggi esistono condizioni più favorevoli per estendere la nostra influenza e rafforzare l’organizzazione. Si tratta allora di far sì che tutto il partito sia impegnato, con convinzione, con tenacia, a realizzare la linea d’azione che ci siamo tracciati al XII Congresso, che siano superati tutti i ritardi e le incertezze, che si produca un impegno generale perché il partito assuma, in modo pieno, il proprio carattere di organizzazione di massa e di lotta, presente in tutti i luoghi dello scontro di classe.

Il carattere di classe del partito lo si difende con l’azione quotidiana, metodica, con il lavoro instancabile nelle fabbriche ed in tutti i luoghi di lavoro. Da questo punto di vista, abbiamo avuto qualche fenomeno di rilassamento, che deve essere combattuto. Dobbiamo ribadire, con molta fermezza, a tutti i livelli dell’organizzazione, che non può esservi buon lavoro se non c’è il collegamento diretto con le fabbriche e con la classe operaia, se non si vivono, insieme con i lavoratori, le loro esperienze, e dobbiamo curare il processo di formazione dei nostri gruppi dirigenti, in modo che anche sotto questo profilo venga ad essere salvaguardato il carattere di classe del partito. È un compito difficile, ma assolutamente indispensabile: non dobbiamo lasciarci trascinare dalla spontaneità, che è spesso soltanto il mascheramento della pigrizia, e considerare come insormontabili gli ostacoli oggettivi che incontriamo nel nostro lavoro. E pertanto, là dove si verifica un’assenza di quadri operai, organicamente inseriti nel lavoro di direzione politica, là noi abbiamo un problema da risolvere, una situazione da correggere.

L’impegno per la costruzione dei consigli operai di quartiere può essere, in questa direzione, uno stimolo importante, ed i primi risultati, pur con i loro limiti, sono di incoraggiamento. Quando parliamo di “consigli operai” vogliamo anzitutto dire l’organizzazione dei comunisti nelle fabbriche, la costruzione di una rete organizzativa che collega fra di loro le grandi e le piccole fabbriche di una determinata zona della città. E in questo lavoro, essenziale per il nostro partito, le organizzazioni territoriali possono svolgere un ruolo di grande importanza, assicurando un forte appoggio politico e propagandistico dall’esterno, collegando i problemi della fabbrica con quelli del quartiere e della città, dando alla classe operaia i mezzi e gli strumenti necessari per esercitare di fatto la sua egemonia sull’insieme della società.

E, per questa via, viene ad essere facilitata anche la formazione di quadri operai, che abbiano una visione generale dei problemi, che siano cioè a tutti gli effetti dei dirigenti politici. Su questa via, dovremo procedere con maggiore rapidità ed energia, mobilitando tutte le Sezioni, moltiplicando il numero dei compagni che in modo sistematico lavorino verso le fabbriche. I consigli operai di quartiere possono anche assumere, come è avvenuto nel caso del Giambellino, un carattere unitario. Ma la condizione perché ciò possa rappresentare un’effettiva esperienza di avanguardia, è che si basi su una solida organizzazione del partito nelle fabbriche, è che i comunisti vi svolgano un ruolo dirigente. Il lavoro unitario non è dunque in contrasto con il lavoro di rafforzamento del Partito: è questa una falsa alternativa perché nella realtà tanto più si possono allargare i nostri contatti unitari con i lavoratori, quanto più è forte e organizzato il nostro partito. Per questa ragione, non serve a nulla inventare dei fantomatici comitati unitari, o di base, se a ciò non corrisponde un’effettiva realtà: ciò è solo motivo di confusione, e non è nel nostro costume nasconderci dietro un paravento. L’unità della classe operaia si fa nella chiarezza delle posizioni politiche: per questo il partito deve essere presente con la sua fisionomia, con la sua struttura organizzata, come componente fondamentale della classe operaia.

In questa valutazione retrospettiva delle recenti esperienze di lotta, un altro elemento deve essere messo in evidenza, perché esso ha per noi un valore di ordine strategico. Ed è il fatto che intorno alla classe operaia si è saldato un sistema di alleanze molto vasto ed articolato. In primo luogo gli impiegati delle grandi imprese ed i tecnici, che in una città come Milano si contano ormai a decine di migliaia, hanno partecipato, per la prima volta nella storia del movimento sindacale, in modo compatto alle lotte, ponendosi così sul terreno dell’unità di classe, che nel passato le manovre del padronato avevano impedito o grandemente limitato. Ciò è il segno di un mutamento profondo intervenuto nei rapporti di classe: nella moderna fabbrica capitalistica vanno perdendo importanza le posizioni di relativo privilegio nel trattamento economico e nella gerarchia aziendale, in quanto tende a prevalere, rispetto a ciò, la generale condizione di sfruttamento e di alienazione nel lavoro, che accomuna tutti i lavoratori, e quindi si riducono i margini di manovra del padrone e le possibilità di corruzione, anche perché gli impiegati rappresentano ormai una grande massa, una forza sociale, con una sua coscienza collettiva, e quindi difficilmente integrabile. Inoltre, in occasione delle giornate di sciopero generale, tutta la popolazione milanese si è stretta attorno alla classe operaia, dando vita ad un movimento di lotta di vastissime proporzioni, che va dagli studenti ai ceti medi commerciali e produttivi.

Per tutte queste molteplici ragioni, le lotte dell’autunno rappresentano per noi un punto di partenza di grande valore. La classe operaia ha acquistato fiducia nella propria forza, nella propria unità, ha fatto crescere il proprio peso specifico nella vita politica nazionale. I risultati conquistati con i contratti di lavoro (dei metalmeccanici, degli edili, dei chimici, dei bancari e di altre categorie) costituiscono un miglioramento sensibile delle condizioni di esistenza di milioni di lavoratori, ed uno scacco per il padronato che a questi risultati aveva opposto una tenace e accanita resistenza. E, dopo la conclusione di questi contratti, altre categorie sono ancora impegnate nella lotta, come i tranvieri, cui va tutta la nostra solidarietà, o si apprestano ad iniziarla come i lavoratori tessili.

Dobbiamo combattere, quindi, contro le posizioni liquidatorie, che alimentano la sfiducia, che minimizzano il valore delle conquiste. Se oggi vi è un contrattacco della borghesia, il tentativo di ristabilire un equilibrio politico arretrato, ed anche una tentazione di carattere autoritario, tutto ciò avviene però nel quadro di una situazione nuova, nella quale i rapporti di forza sono più favorevoli alla classe operaia. La borghesia cerca la rivincita, ma i lavoratori non hanno affatto rinunciato a battersi contro le manovre reazionarie e padronali. Il compito più urgente in questo momento, di ciò abbiamo tutti coscienza, è la lotta contro la campagna di repressione che tende a colpire lavoratori e studenti e che, soprattutto, colpisce i diritti fondamentali di libertà sanciti dalla costituzione.

Quando parliamo di repressione, c’è chi si scandalizza e storce la faccia, e tira fuori la solita favola della speculazione comunista. A dar retta a questi falsi ingenui, tutto sarebbe regolare: ci sono delle leggi, più o meno buone, e gli organi dello Stato e la Magistratura non fanno che applicarle. Ma qui siamo di fronte ad un problema politico, che non si può eludere fingendo un rispetto puramente formale per la legge.

Si tratta di decidere se deve considerarsi un reato partecipare alle manifestazioni operaie, essere in prima fila nella lotta per i propri diritti, e se d’altro lato può considerarsi come legittimo e normale che le forze dell’ordine siano impiegate per scagliarsi contro manifestazioni pacifiche, come più di una volta è accaduto nella nostra città.

È pura ipocrisia appellarsi allo Stato di diritto, alla legalità, quando sono gli stessi organi dello Stato a suscitare il disordine, a fomentare la provocazione, a creare il clima della violenza. E la questura milanese si è particolarmente distinta in questa tattica, con uno zelo degno di migliori cause. Ebbene, quando avviene questo, quando si proibiscono manifestazioni pacifiche, mentre si tollerano invece le gazzarre indegne dei fascisti, quando in modo così palese gli organi dello Stato sono posti al servizio delle classi privilegiate, a tutela dei loro interessi, che altro è questo se non azione repressiva, compiuta in modo cosciente, secondo un preciso disegno politico?

D’altra parte, non è un mistero per nessuno che proprio da alte autorità dello Stato sia stata esercitata, in questo senso, una pressione politica, violando lo stesso principio dell’indipendenza della magistratura; e non è un mistero che alcune forze politiche, in particolare il PSU e la destra democristiana, esasperate dai successi del movimento operaio, fanno di tutto per imporre al paese una soluzione di destra, conservatrice, e a questo scopo alimentano una nuova campagna anticomunista. È da qui, da queste ragioni politiche, che viene la repressione. Altro che difesa della legalità democratica! Ciò che in realtà si vuole difendere sono i profitti della borghesia. A questa azione repressiva antioperaia noi rispondiamo con una grande mobilitazione unitaria di tutte le forze democratiche, degli operai e degli studenti, dei partiti politici della sinistra e delle organizzazioni di massa. Il grande, entusiasmante successo della manifestazione del 31 gennaio ha dimostrato la forza di questo schieramento unitario. Si tratta di una vittoria politica di grande importanza, alla quale noi abbiamo dato, con la mobilitazione del partito, tutto il nostro contributo. Il carattere pacifico e ordinato della manifestazione, la grande partecipazione dei giovani, l’unità che si è realizzata tra operai e studenti, la grande risonanza che si è avuta in tutta la città, tutto questo costituisce una tappa essenziale della nostra politica.

E, soprattutto, si entra in una fase nuova per quanto riguarda i nostri rapporti con il movimento studentesco. Dopo un lungo periodo di difficoltà, di diffidenza e di tensione, dovuto a ragioni assai complesse ed anche a nostri ritardi e incomprensioni, comincia oggi a divenire possibile una collaborazione fruttuosa, che noi dobbiamo favorire e sviluppare, avendo coscienza della grande portata di questo processo, che modifica nel profondo i rapporti di classe nel nostro Paese. Sarebbe assurdo sottovalutare il peso politico di questo spostamento a sinistra di grandi masse di giovani, moltissimi dei quali di origine borghese o piccolo-borghese, e sarebbe miopia vedere all’interno di questo movimento solo quanto c’è di immaturo, solo gli errori di infantilismo.

La nostra posizione è quella di distinguere il ruolo positivo che il movimento studentesco ha, in quanto movimento di massa, dalle posizioni politiche sbagliate che si sono in vario modo manifestate e che sono da combattere. È in virtù di questa nostra posizione, aperta e responsabile, che abbiamo potuto recuperare una nostra funzione politica nel movimento, e avviare, sia pure faticosamente, un processo unitario.

Questa nostra linea ha trovato a Milano condizioni più favorevoli che in altre città. Infatti, il movimento studentesco milanese non si è lasciato ridurre ad un agglomerato di gruppi, in continua contesa fra di loro, ma ha saputo mantenere la sua dimensione di massa, la sua capacità di mobilitazione ed ha parzialmente corretto ed emarginato le posizioni estremistiche e settarie che ne avrebbero provocato la crisi e l’isolamento.

Un grande compito è affidato, in questo lavoro all’interno del movimento studentesco, universitario e medio, alla Sezione universitaria ed alla FGCI: si tratta di favorire quel processo di collaborazione positiva, che già si è avviato, e si tratta di condurre, con intelligenza, una battaglia politica, contro le tesi estremistiche, per la conquista delle masse studentesche ad una giusta concezione della lotta per il socialismo. L’unità tra operai e studenti è parte essenziale di quella più larga unità popolare che noi vogliamo costruire; ed in questo momento politico, nella lotta contro la repressione, tutta la nostra azione deve tendere appunto allo sviluppo di iniziative unitarie, capaci di mobilitare i diversi strati sociali.

Dopo la grande manifestazione del 31 gennaio vi è stato, nella giornata odierna, lo sciopero generale proclamato unitariamente dalle organizzazioni sindacali, momento importante di generalizzazione del movimento, che conferma tutti i nostri giudizi sui caratteri della situazione attuale, sulla maturità e sulla forza del movimento operaio. Si tratta ora di proseguire nella lotta, estendendola ad altre forze, portandola nei quartieri, facendoci noi promotori di una pluralità di iniziative. Perché possa veramente realizzarsi questa estensione del movimento, dobbiamo cercare di caratterizzarlo mediante contenuti positivi, dobbiamo cioè indicare obiettivi di lotta concreti e ravvicinati. Si pone anzitutto il problema della democrazia, del suo sviluppo, e quindi dell’ordinamento dello stato, dei suoi rapporti con i cittadini.

Abbiamo bisogno, su questi temi, di passare all’offensiva, rendendo chiara alle grandi masse la nostra concezione della democrazia, e denunciando le violazioni, i limiti e le distorsioni che essa subisce nell’attuale sistema politico Una nostra iniziativa per l’abrogazione delle leggi fasciste, per la piena democratizzazione dello Stato, del suo apparato amministrativo, dell’esercito, per lo sviluppo dell’autonomia regionale e comunale, per la creazione di nuovi strumenti di democrazia diretta, potrebbe costituire, in questo momento, lo stimolo per movimenti unitari e per una saldatura politica di diverse forze sociali. Le lotte degli operai, degli studenti, dei contadini, e di altre categorie di lavoratori, pongono infatti non solo problemi particolari, relativi alle loro immediate condizioni di esistenza, ma pongono soprattutto un problema di ordine generale, che trova il suo momento unitario in questo bisogno di democrazia, di partecipazione dal basso, di rinnovamento profondo dello Stato. La prossima scadenza elettorale può essere un’occasione per far avanzare questo discorso, per aprire un dibattito politico di massa, ritorcendo così contro i nostri avversari l’idea della democrazia, di cui essi si servono strumentalmente, e dando un contenuto politico generale a questa consultazione democratica, che altri cercheranno di ridurre entro i limiti angusti dei piccoli problemi locali. Si pone poi una seconda questione, che è intrecciata alla prima, e che riguarda l’urgenza e la necessità di profonde riforme della struttura economica, per consolidare le conquiste della classe operaia e modificare più profondamente i rapporti di classe. È questo un terreno di azione complesso, accidentato, nel quale ci muoviamo ancora con qualche difficoltà ed incertezza.

Credo debba essere ormai chiaro il significato generale che noi attribuiamo alla politica delle riforme. Ciò è stato espresso con limpidezza dal compagno Berlinguer all’ultimo Comitato Centrale.

“I tratti che distinguono – dice Berlinguer – la nostra linea da una concezione riformista sono due, ed entrambi decisivi. In primo luogo lo sviluppo graduale, di cui noi parliamo, è l’opposto di quella concezione evolutiva ed evoluzionistica che è la base ideologica e politica del riformismo e che – nel migliore dei casi – si riduce alla proposta ed anche, talvolta, all’attuazione di riforme, le quali si integrano allo sviluppo capitalistico senza intaccarne la logica e le fondamenta. In secondo luogo noi siamo del tutto consapevoli che uno sviluppo graduale, quando si volga su contenuti e per obiettivi che colpiscono la logica del sistema (suscitando quindi la resistenza e la reazione delle classi dominanti) comporta non solo una lotta di classe aspra e tenace, ma un processo continuo di rotture degli equilibri politici e sociali esistenti e di costruzione di equilibri nuovi. E può comportare anche l’ipotesi di fronteggiare con tutti i mezzi necessari, tentativi aperti di schiacciare il movimento operaio e popolare.”

Una volta chiarita questa visione generale, che va discussa per quello che è e non per le sue contrattazioni più o meno interessate, si tratta ora di individuare, con il massimo di concretezza, i momenti particolari di questa linea, i suoi contenuti, e di determinare per ciascun obiettivo quale sia la linea di lotta adeguata.

Mi limiterò ad alcuni esempi, fra quelli più significativi per la nostra città. Prendiamo anzitutto la questione dei prezzi, a cui già abbiamo dedicato un nostro convegno di partito, e che è argomento di discussione quotidiana fra i lavoratori e nelle famiglie. Noi dobbiamo avvertire tutta l’importanza politica di questo problema, in quanto potrebbero farsi strada fenomeni di demoralizzazione tra i lavoratori, che vedono minacciate le loro conquiste senza vedere con chiarezza come vi si possa reagire. La costituzione di comitati popolari per la lotta contro il carovita, è questa una proposta che corrisponde pienamente alle esigenze politiche del momento e a cui dobbiamo dare attenzione.

Partendo dal problema dei prezzi, si vanno ad aggredire tutti i nodi della politica economica, e si dimostra come solo attraverso misure radicali di riforma si può dare stabilità alle conquiste operaie. La lotta contro il carovita si combatte poi affrontando il problema della casa, dei trasporti, della scuola, cioè dei grandi consumi sociali che maggiormente incidono sulle condizioni economiche della classe operaia e degli altri ceti popolari. Abbiamo già, a questo proposito, delle esperienze, e abbiamo ottenuto anche dei successi, come nella lotta degli inquilini delle case popolari e nell’azione per la riduzione delle tariffe tranviarie.

Ma il problema ha ancora dimensioni drammatiche. Le spese dell’affitto, nella città di Milano, arrivano fino al 40% del salario: si tratta di una rapina, organizzata su larga scala, da cui traggono vantaggio ed enormi profitti gli speculatori, le grandi società immobiliari, i proprietari dei terreni. E, di fronte a questo problema gravissimo, vi è l’inerzia completa del governo, che lascia inutilizzati oltre 450 miliardi della GESCAL e che rinvia alle calende greche la riforma urbanistica; e vi è l’impotenza dell’amministrazione locale, che per anni ha lasciato via libera ai peggiori fenomeni speculativi, e che solo di recente, per la pressione nostra, ha adottato alcune misure volte a favorire l’edilizia popolare.

Basterebbe da solo questo dato a dare la misura del benessere capitalistico; ma a questo si aggiungono molti altri elementi, che aggravano ancor di più la situazione dei lavoratori: il costo e la disorganizzazione dei trasporti, la carenza di asili nido e di scuole materne, che costringe migliaia di donne a rinunciare al lavoro, le misure fiscali con le quali il salario operaio viene ad essere ulteriormente decurtato, il costo proibitivo delle scuole superiori, che continuano ad essere monopolio delle classi dirigenti, e così via.

Ed infine, i lavoratori e le lavoratrici sono minacciati nella loro salute, nel loro equilibrio nervoso, per i ritmi di lavoro che giungono al limite della sopportabilità fisica, per gli inquinamenti delle acque e dell’atmosfera, per il disservizio di tutto il sistema sanitario.

Limitiamoci a questa rapida descrizione della condizione operaia: ciò è sufficiente al fine di chiarire come la nostra città, per il tipo di sviluppo che ha avuto, dettato dalla logica del profitto e non dalle esigenze e dai bisogni degli uomini che vi vivono e vi lavorano, richiede con urgenza riforme profonde, trasformazioni radicali, richiede insomma una politica nuova.

È chiaro che l’esito di queste lotte di riforma dipende dall’ampiezza del movimento e quindi occorre considerare le iniziative delle organizzazioni sindacali, e far sì che vi sia un’azione convergente intorno a quei problemi che sono più urgenti e per i quali vi sono maggiori possibilità di successo. In ogni caso, non deve venir meno l’azione autonoma del partito, là soprattutto dove si presentano situazioni di forte tensione sociale. Ad esempio, il grande disagio provocato dallo sciopero dei medici mutualisti, di cui non condividiamo la forma di lotta, deve vedere un nostro intervento, per popolarizzare le nostre proposte di riforma e per organizzare un movimento che vada a colpire le effettive responsabilità dell’attuale situazione di crisi.

Lungo questi due grandi filoni, della lotta per la democrazia e della lotta per le riforme, dobbiamo lavorare nell’immediato futuro, con tutto il nostro impegno, cercando su questo terreno di determinare nuovi spostamenti politici, nuove alleanze, nuove esperienze unitarie. Le forze conservatrici cercano, in questi giorni, di resuscitare il fantasma del centro-sinistra, cercano cioè di dare uno sbocco a tutta la situazione politica che va nel senso opposto rispetto alle esigenze delle masse lavoratrici, uno sbocco arretrato, impopolare, ancora meno giustificabile oggi di quanto non lo fosse nel passato. Volere il centro-sinistra oggi, dopo le lotte unitarie della classe operaia, vuol dire andare a destra e fare ciò che è negli interessi dei grandi gruppi capitalistici, vuol dire cedere al ricatto della DC e dei socialdemocratici.

Ma si illudono le forze conservatrici, se pensano che possa bastare la formazione di un nuovo governo per uscire dalla crisi; si illudono se pensano che un abile compromesso di vertice possa far cessare il grande movimento di lotta che scuote il Paese.

In realtà, l’eventuale formazione di un governo quadripartito non fa che rendere ancor più acuta la contraddizione fondamentale della vita politica italiana, e cioè il contrasto che vi è fra la spinta unitaria esistente nel paese, consolidatasi nelle lotte e, d’altro lato, una formula politica che pretende di chiudere a sinistra, di spezzare questo tessuto unitario.

La debolezza organica del centro-sinistra sta appunto qui, ed è questa la ragione per cui ogni nuovo tentativo di rilancio di questa formula politica non fa che rendere più evidente il suo fallimento. E a questo destino non si sottrarrà certo il nuovo governo, grigia ripetizione di quelli precedenti.

Di questa situazione contradditoria soffre in modo particolare il PSI, soggetto a spinte diverse, alla pressione di interessi divergenti, il cui equilibrio interno è assai precario, instabile, tale da provocare continui sussulti. E, anche in questa occasione, appare chiaro come la soluzione del centro-sinistra faccia pagare ai socialisti un alto prezzo politico, rimettendo in discussione tutto il processo che si è avuto dopo la scissione socialdemocratica. A questa dialettica interna del PSI, non possiamo essere indifferenti, né considerarlo come un mero gioco di potere, ma dobbiamo invece comprenderla nelle sue ragioni politiche e cercare di influirvi con le nostre proposte unitarie, con l’iniziativa e con il dibattito. Proprio perché consideriamo la crisi politica in tutta questa sua ampiezza, come una crisi storica, non ci lasciamo certo intimidire dalle manovre per il quadripartito che hanno il respiro corto, e anzi ci prepariamo a nuove battaglie, cominciando da quella elettorale, che sarà, per tutte le forze politiche, una resa dei conti, un bilancio di quello che hanno fatto e di quello che non hanno voluto fare.

A questa prova democratica, a questo giudizio dell’elettorato, noi andiamo senza aver bisogno delle promesse demagogiche, a cui ricorrono i partiti di governo per far dimenticare il loro passato inglorioso, e senza dover recitare pietose autocritiche dell’ultima ora. Vogliamo essere giudicati per quello che abbiamo fatto, convinti di avere svolto nella vita del Paese un ruolo positivo, di progresso e di avanguardia.

Non ci sarebbero state le lotte d’autunno, non ci troveremmo oggi in una situazione più avanzata, senza la nostra presenza, senza l’azione che con tenacia abbiamo svolto in tutti questi anni. Chi con tanta frettolosità parla di crisi dei partiti, includendovi anche il nostro, dimostra di esser privo di senso politico. Se vogliamo restare sul terreno dell’analisi concreta, e quindi scientifica, occorre esaminare ogni singola formazione politica nel suo rapporto con le classi, con lo Stato, coi problemi della società italiana.

Orbene, perché mai dovremmo accettare il giudizio, di tipo qualunquistico, sulla crisi dei partiti, quando è evidente che noi abbiamo rappresentato, nella vita politica italiana, un’alternativa, un punto di riferimento e di aggregazione per chi si batte contro il regime capitalistico? Non siamo disposti ad assumerci responsabilità che non sono nostre, e non siamo nemmeno disposti ad accreditare quella curiosa interpretazione delle lotte, per cui sarebbero sorte come dal nulla, senza che noi vi avessimo parte.

È appunto da questo esame concreto, circostanziato, che noi traiamo la convinzione di essere parte decisiva e insostituibile del movimento di lotta dei lavoratori, di essere tuttora realmente l’avanguardia della classe operaia. Nella realtà politica di Milano, la presenza e l’azione del partito sono stati determinanti, nel sostegno politico alle lotte, nello sforzo per la creazione di un fronte politico unitario impegnato ad appoggiare gli obbiettivi rivendicativi dei lavoratori, e nell’azione sui problemi della politica comunale, che hanno una diretta incidenza sulle condizioni di vita delle masse. E, in effetti, in questa direzione sono stati ottenuti alcuni risultati importanti: si è riusciti, intorno ad alcuni problemi, a determinare nel Consiglio comunale una maggioranza diversa da quella del centro-sinistra, facendo approvare misure concrete a vantaggio dei lavoratori (lo stanziamento dei 300 milioni per i lavoratori in lotta, le misure urbanistiche volte a favorire l’edilizia popolare, la riduzione delle tariffe tranviarie). Con questa nostra azione, condotta in modo intelligente dal gruppo consiliare, abbiamo accelerato il processo di sfaldamento della maggioranza di centro-sinistra a Palazzo Marino, provocando la rottura con il PSU e mettendo in moto, all’interno del PSI e della DC, una dialettica più ricca, nella quale emergono posizioni interessanti. Naturalmente, si tratta di un processo lento, faticoso, nel corso del quale sono sempre possibili battute d’arresto ed anche dei passi indietro. E, in effetti, una battuta d’arresto c’è stata dopo la votazione sul bilancio, e dopo le dimissioni degli assessori socialdemocratici. Invece che continuare a far funzionare regolarmente i lavori del Consiglio comunale, come noi avevamo chiesto, per proseguire in un’azione positiva che affrontasse i problemi urgenti della città, i partiti della maggioranza hanno scelto la politica dell’attesa e del rinvio, subordinando ogni decisione agli sviluppi politici nazionali, e determinando così una situazione confusa, equivoca, senza che tra i partiti potesse intervenire un chiarimento sulle prospettive politiche immediate.

Tutto ciò finisce per avvilire la funzione del Consiglio comunale, la sua autonomia, e dimostra quanto ancora siano presenti incertezze e anche fenomeni di deteriore tatticismo.

Non ci lasciamo quindi illudere da facili e superficiali previsioni ottimistiche, ma nello stesso tempo siamo convinti della giustezza della linea finora seguita, mediante la quale è possibile ottenere risultati concreti, spostamenti effettivi, cercando la più larga collaborazione con tutte le forze di sinistra.

Al nostro partito guardano con interesse, proprio per la politica unitaria di cui siamo difensori, molte forze anche all’interno dei partiti della maggioranza, un nuovo rapporto è stato stabilito con il movimento aclista milanese, di cui apprezziamo la scelta di autonomia e con il quale abbiamo registrato convergenze significative intorno ad alcuni problemi cittadini, o di carattere più generale. E inoltre, è continuata in modo fruttuoso, pur nell’autonomia reciproca, la collaborazione con il PSIUP, con il Movimento dei socialisti autonomi, e con altre componenti della sinistra milanese.

Sarebbe dunque un errore di valutazione considerare gli schieramenti politici come cristallizzati e immodificabili: ciò ci ridurrebbe in una posizione soltanto negativa, inefficace e settaria. In realtà, le forze politiche riflettono, sia pure con lentezza e con contraddizioni, gli spostamenti che si realizzano tra le forze sociali, ed il nostro obiettivo è appunto quello di tenere aperta una dialettica positiva tra le esperienze delle masse e le forze politiche, per far maturare nuove prospettive unitarie. Così, mentre da un lato abbiamo sempre manifestato, con estrema fermezza, il nostro rifiuto della formula e della politica del centro-sinistra, dall’altro lato abbiamo assunto un atteggiamento duttile ed aperto, che ci consentisse di cogliere tutte le possibili convergenze e di aprire la strada alla formazione di una nuova maggioranza.

È con questa impostazione che noi ci prepariamo alla scadenza elettorale, ponendo l’esigenza di una nuova maggioranza, corrispondente ai processi unitari reali, che hanno contraddistinto le lotte popolari di questi ultimi anni, e ponendo insieme il problema di una struttura democratica più efficace, capace di collegare le forze politiche con la loro base sociale, gli organi di governo con la realtà viva del paese. Quindi, in primo luogo, dobbiamo intendere l’elaborazione del nostro programma come un momento di dialogo con le altre forze di sinistra e con le organizzazioni di massa dei lavoratori, per verificare le convergenze e le divergenze, per stabilire delle intese programmatiche, per ottenere anche la partecipazione alla nostra lista, in modo autonomo, di personalità della vita politica milanese, che siano rappresentative e che ci consentano di mettere in evidenza il respiro unitario della nostra politica.

In secondo luogo, dobbiamo mettere al centro della nostra proposta di programma, come elemento qualificante, la questione dello sviluppo della democrazia e della partecipazione popolare, come condizione per un reale rinnovamento della politica dell’ente locale. Un primo passo è stato compiuto in questa direzione, con la costituzione dei consigli di zona, cui si è giunti in seguito ad una nostra battaglia politica. Già le prime esperienze di questi nuovi organismi ne hanno dimostrato l’utilità: intorno ai consigli di zona, e per loro iniziativa, si è avviato un dibattito popolare sulle scelte politiche comunali, mediante assemblee nei vari quartieri della città, e si è cominciato così a superare il distacco, gravissimo, tra i cittadini e il potere locale.

Su questa linea occorre andare avanti, con molto coraggio. Bisogna anzitutto che i consigli di zona diventino realmente rappresentativi, che siano nominati per elezione diretta, o che almeno la loro composizione sia proporzionale all’effettiva realtà politica della zona, quale risulta dalle elezioni amministrative, e non sia un duplicato artificioso del Consiglio comunale.

E inoltre, per essere davvero dei momenti di partecipazione popolare, devono poter assolvere a delle funzioni reali, e non solo esprimere dei pareri che spesso non sono neppure ascoltati. Non ha senso, infatti, parlare di decentramento, se poi tutti i poteri rimangono accentrati, se tutta la struttura comunale non viene organizzata in modo nuovo, se non si opera un effettivo decentramento delle funzioni. E, accanto ai Consigli di zona, occorre promuovere altre forme di partecipazione e di democrazia diretta, in tutti gli enti comunali, abbattendo le vecchie strutture burocratiche, che scoraggiano ogni forma di attività creativa da parte dei cittadini.

Questa battaglia per lo sviluppo conseguente della democrazia costituisce una discriminante importante tra le forze progressive e quelle conservatrici, le quali sono interessate ad insabbiare ogni esperienza, anche parziale, di democratizzazione del potere locale. Sugli altri problemi del programma elettorale, non è necessario affrontare ora un’analisi di merito dettagliata, dato che un’apposita commissione dovrà lavorare su questo argomento e preparare una prima bozza di programma. Noi dovremo tendere all’elaborazione di un programma organico e realistico, in cui siano chiare le scelte fondamentali, ed in cui si cerchi di tradurre in proposte concrete l’idea di un tipo di sviluppo della città che sia alternativo rispetto a quello attuale.

E quindi in primo luogo si pone il problema di una lotta efficace contro il carattere di classe della città, che si manifesta nella sua stessa struttura urbanistica, contro la degradazione della periferia e dei quartieri popolari, contro la tendenza ad accentuare gli squilibri e ad espellere la popolazione operaia all’estrema periferia o nei Comuni della provincia, per la diffusione ed il decentramento dei servizi sociali e culturali, per un assetto urbanistico che tenga conto delle esigenze umane e che non trasformi la città in una caserma. Intorno a questi obiettivi di lotta si è formato un notevole grado di coscienza, ed una mobilitazione nei quartieri; è quindi possibile impostare un’azione politica di massa, con esperienze originali di organizzazione del movimento, con un fronte di forze politiche e sociali assai largo, un’azione di massa che metta sotto denuncia l’inerzia colpevole delle giunte milanesi, di centro e di centro-sinistra, le quali hanno di fatto assecondato questo sviluppo distorto della città, lasciando via libera all’iniziativa privata capitalistica. Per questo noi diciamo, e non è una forzatura, che le condizioni di sfruttamento delle masse lavoratrici si sono aggravate, anche qui a Milano, nella città che è divenuta il simbolo del progresso capitalistico; si sono aggravate perché tutta l’organizzazione della società è guidata dalla legge del profitto, e quindi, anche fuori dalla fabbrica, il lavoratore viene messo ai margini della vita sociale, e la città in cui vive e lavora si sviluppa contro di lui, contro i suoi bisogni umani, gli rende l’esistenza sempre più insopportabile. È in questo quadro, appunto, che sorge quella grande spinta delle masse alla lotta, ed una partecipazione a questa lotta dei più diversi ceti sociali, perché lo sviluppo monopolistico finisce per colpire gli interessi della grande maggioranza dei cittadini, degli operai e degli impiegati, dei commercianti, degli artigiani, dei lavoratori intellettuali.

Siamo di fronte ad una crisi profonda della società capitalistica, a cui la classe dominante non sa offrire soluzioni, e per questo abbiamo oggi la possibilità di saldare intorno alla classe operaia un vasto fronte popolare, un ampio sistema di alleanze, di collegarci con forze sociali che sino a ieri erano lontane da noi ed ostili alla prospettiva socialista. Tutto ciò deve essere, per noi, la premessa necessaria della nostra battaglia elettorale, per non immiserirla, per farne una grande campagna di orientamento delle masse e per andare a questa prova con grande fiducia nelle nostre possibilità di avanzata. Per questo, noi ci dobbiamo distinguere dalle altre forze politiche anche nel metodo di lavoro, nello stile, rifiutando ogni forma di elettoralismo e di personalismo, e cercando invece un collegamento politico con le masse, con i loro problemi di fondo, con le loro ansie, con le loro prospettive.

I problemi della condizione operaia, delle condizioni di vita delle grandi masse popolari, devono essere al centro di tutta la nostra azione di propaganda, ed è su questo terreno che dobbiamo costringere le altre forze politiche a misurarsi. Alla fine di febbraio, proprio a Milano, si terrà la Conferenza nazionale dei lavoratori comunisti. È questo il modo migliore di prepararci alla campagna elettorale, con una grande assemblea operaia, discutendo i problemi reali del paese, prospettando una linea di lotta per una trasformazione profonda di tutto l’assetto sociale. Mentre i partiti del centro-sinistra lavorano per la costituzione di un nuovo governo quadripartito, per costruire cioè un argine conservatore che si opponga alla spinta del movimento popolare, noi ci rivolgiamo alla classe operaia, a tutti i lavoratori, perché insieme si discuta e si decida una linea di lotta, perché il movimento vada avanti, verso nuove conquiste. In questo modo, noi dobbiamo far capire a tutti i lavoratori il ruolo del partito, come grande forza politica nazionale, che dà alle lotte delle diverse categorie di lavoratori un respiro politico generale, evitando sbocchi corporativi e ripiegamenti, dobbiamo riaffermare con forza questa nostra funzione, sconfiggendo le posizioni qualunquistiche o spontaneiste, che di fatto disarmano la classe operaia e la lasciano indifesa di fronte all’attacco dell’avversario.

È da questo punto di vista che dobbiamo affrontare le questioni della vita interna del partito e del suo rinnovamento, partendo cioè dalla coscienza di quello che siamo e dalla convinzione che non c’è partito rivoluzionario senza un suo legame profondo con le masse popolari.

Quando si discute del partito, di questo nostro partito, si discute di un organismo vivente, e non di uno schema astratto, e se non si capisce questo si rincorrono delle chimere, perdendo di vista la realtà.

Certe proposte di riforma generale del partito hanno appunto in sé questo vizio intellettualistico, come se la vita di un grande organismo di massa possa essere tutta predeterminata e tavolino. Ora, noi dobbiamo invece affrontare il problema teorico del partito in legame con l’esperienza pratica reale, dobbiamo cioè far sì che tutto il partito, nell’insieme dei suoi militanti, si sviluppi, accumulando nuove esperienze, riflettendo su di esse, rinnovandosi nel lavoro e nel contatto con la realtà.

È per difendere questa concezione del partito che abbiamo respinto le posizioni avventurose del Manifesto, che avrebbero compromesso la nostra forza reale, il nostro peso politico nella società.

Noi vogliamo rinnovare il partito perché si rafforzi, perché esso sempre più venga ad essere una forza capace di organizzare la lotta e di dare coesione alla classe operaia ed alle masse lavoratrici. È da questo punto di vista che dobbiamo esaminare il problema.

E allora, il rinnovamento del partito, il suo sviluppo democratico passano anzitutto attraverso una riaffermazione ed una crescita del suo carattere di massa. Negli ultimi anni vi è stato un logoramento della forza organizzata del partito, come conseguenza di complessi fenomeni politici e sociali, che abbiamo cercato di analizzare nel documento sui problemi di organizzazione. Senza ripetere qui quell’analisi, basti ribadire due concetti essenziali. Innanzitutto, che il carattere di massa del partito ha per noi un rilievo strategico, in quanto solo un partito di questo tipo, che abbia radici in tutta la società, può proporsi il compito della trasformazione socialista nelle condizioni di un paese capitalistico avanzato. Infatti in questa società, come già aveva intuito Gramsci, il potere della classe dominante ha tutta una sua complessa articolazione e non si fonda soltanto sui meccanismi repressivi dello Stato: e allora il partito rivoluzionario non può essere solo una battaglia di avanguardia, ma deve saper organizzare le masse, educarle ad una coscienza politica nuova, e far compiere loro delle esperienze reali, attaccando l’avversario di classe su tutti i terreni.

In secondo luogo, tutta l’analisi che abbiamo compiuto della situazione attuale, degli sviluppi politici in atto, ci fa dire che, in questo momento, di grande risveglio della coscienza di classe, è possibile recuperare i ritardi e far compiere a tutta la nostra organizzazione un reale passo in avanti. Ecco quindi una prima scelta: quella di portare nel partito una nuova leva di militanti, dando nuovo impulso a tutto il lavoro di propaganda, all’azione di massa, e adeguando le strutture del partito là dove è necessario, costituendo nuove cellule e nuove sezioni, lavorando nei quartieri popolari, prendendo contatto con quelle forze sociali che sono spinte dalle loro condizioni oggettive, alla lotta; nella deve essere trascurato dalle nostre organizzazioni perché questo sia davvero, come è possibile, un anno di avanzata, di rafforzamento del partito.

Il problema della democrazia di partito deve essere posto in questo quadro. Non si tratta infatti solo di verificare il corretto funzionamento delle regole democratiche, di vedere se il centralismo e la democrazia sono combinati nelle dosi giuste. Non è questo il problema. Noi poniamo oggi, a tutto il partito, un’esigenza di sviluppo della democrazia perché vi è una spinta reale in questa direzione, che si esprime in forme diverse, dentro e fuori il partito, e che è nel suo fondamento una spinta positiva, che è prova della maturità politica delle masse. E avvertiamo che è possibile realizzare un rafforzamento del partito solo se si tiene conto di questa realtà, e quindi si organizza la vita interna del partito in modo che ogni singolo militante possa, con più efficacia, essere parte attiva nel processo di elaborazione delle decisioni politiche.

Ecco dunque una seconda scelta, che già in parte abbiamo cominciato a realizzare, dando vita a nuovi strumenti organizzativi, e che dovrà essere ulteriormente precisata negli aspetti concreti della sua realizzazione. Il problema della democrazia è infatti, tra l’altro, un problema di strutture, di modelli organizzativi che devono essere definiti.

Un contributo potrà venire, su questi temi, dal lavoro della commissione che si occuperà dell’organizzazione del partito, e naturalmente dall’esperienza concreta delle sezioni, ciascuna delle quali si muove entro condizioni oggettive peculiari, che possono richiedere diverse soluzioni organizzative.

È necessario però che, almeno su un punto, vi sia in questa Assemblea Cittadina una discussione ed una decisione chiara. Si tratta infatti di definire quali debbono essere gli strumenti di direzione cittadina, valutando risultati che si sono conseguiti in questo ultimo anno con l’Assemblea dei segretari di sezione.

Io credo che questa scelta debba essere confermata, pur rilevandone certi limiti e certi scompensi. Il limite maggiore è stato quello di un troppo debole legame con altri momenti della vita del partito, altrettanto essenziali, in particolare con il lavoro del gruppo consiliare, con i gruppi di lavoro della Federazione e con le organizzazioni di fabbrica.

Ciò rappresenta, per un organismo dirigente, un limite grave, perché gli impedisce di avere una visione unitaria dei problemi della politica cittadina.

Dovremo correggere questa situazione, studiando opportune misure, ma nello stesso tempo dobbiamo sottolineare il significato positivo che ha avuto l’esperienza dell’Assemblea dei segretari, in quanto ha realizzato un rapporto diretto con tutte le nostre Sezioni, rendendole partecipi delle responsabilità politiche generali, introducendo così nei fatti un nuovo metodo di direzione più fecondo e più democratico.

Infine, una terza scelta fondamentale: quella di operare con coraggio un processo di rinnovamento del partito e dei suoi gruppi dirigenti, chiamando a compiti di responsabilità i giovani, operai e studenti, che sono entrati nelle nostre file, e che chiedono di essere impegnati, di essere a tutti gli effetti dei militanti. Già molte sezioni, con i loro congressi, hanno operato in questa direzione, ma ancora c’è molto da fare, perché il problema è di vaste dimensioni, è il problema di un’intera nuova generazione, con caratteristiche sue proprie, il cui rapporto con il partito è tuttora molto complesso.

Questa nuova generazione ha espresso una volontà di lotta molto grande, ha rifiutato di adattarsi ai modelli di comportamento, ai valori della società borghese. E a questo movimento partecipano, con pari impegno, le ragazze, facendo così compiere un passo in avanti a tutto il processo di emancipazione della donna e ridandogli nuova freschezza.

Il nostro obiettivo è quello di realizzare una saldatura politica, per avvalerci del contributo di idee, della passione e dello slancio di questa nuova generazione, e per evitare che vi sia una dispersione di preziose energie, un riflusso della spinta a sinistra che con tanta forza si è manifestata nel corso di questi ultimi anni, oppure una fuga verso sbocchi estremistici.

Il dibattito che si è svolto nei Congressi ha confermato queste scelte e complessivamente vi è stato un assenso intorno alla linea proposta dal documento preparatorio. Vi sono le condizioni, credo, per affrontare con successo i compiti nuovi, per rinnovare il partito consolidandone il suo carattere di grande forza popolare, di lotta e di massa. E non è necessario, per questo, uno sconvolgimento interno ed una specie di rivoluzione culturale. Il partito, nel suo insieme, ha dimostrato di essere maturo, attento ai processi politici nuovi, capace di rinnovarsi. Noi vogliamo partire da qui, da quello che il partito è, difendendone l’unità che è una delle ragioni fondamentali della nostra forza e del nostro prestigio.

Questa consapevolezza è presente nella grandissima maggioranza dei compagni, i quali hanno respinto l’attacco che veniva portato al regime interno del partito e alla sua politica da parte del gruppo frazionistico del Manifesto.

Il tentativo di introdurre nel partito, nel nome della libertà di dibattito e di critica, la pratica della frazione, e di presentare come sviluppo della democrazia decisioni unilaterali contrarie alle scelte compiute collettivamente dal partito, tutto questo non ha tratto in inganno nostri militanti. Infatti, non è un fenomeno nuovo, ma è una forma di opportunismo contro cui il partito della classe operaia ha dovuto battersi fin dalle origini. Diceva già Lenin nel 1904: «la disciplina e l’organizzazione, che un intellettuale borghese acquista con tanta fatica, vengono assimilate con particolare facilità dal proletariato, grazie appunto a questa “scuola della fabbrica”. La paura mortale di fronte a questa scuola, l’incomprensione assoluta della sua importanza come elemento di organizzazione, caratterizzano appunto il modo di pensare che riflette le condizioni d’esistenza piccolo-borghesi… L’organizzazione del partito sembra a costui [al piccolo-borghese] una “fabbrica” mostruosa: la sottomissione della parte al tutto e della minoranza alla maggioranza gli appare come una “servitù”: la divisione del lavoro, sotto la direzione di un centro, gli fa lanciare strilli tragicomici contro la trasformazione degli uomini in “viti e rotelle”; la sola menzione dello statuto di organizzazione del partito suscita in lui una smorfia sdegnosa e la sprezzante osservazione (diretta ai “formalisti”) che si potrebbe benissimo anche fare a meno dello Statuto… Non è forse ciò anarchismo da gran signore?»

Ebbene, la difesa di questa concezione leninista del partito è per noi una scelta di principio, inviolabile, ed il rinnovamento che noi intendiamo operare non significa certo sovvertire i fondamenti della teoria del partito. Su ciò nessuno può farsi delle illusioni. Noi saremmo colpevoli, in modo grave, verso la classe operaia, se tollerassimo, all’interno del partito, fenomeni di opportunismo, di disgregazione, di violazione della politica del partito.

Una cosa è la libertà di ricerca, lo sviluppo della teoria, a cui i compagni intellettuali possono dare un prezioso contributo, aiutando il partito a vedere meglio il processo storico del nostro tempo, le sue caratteristiche profonde – e questa libertà di ricerca noi l’abbiamo sempre difesa e sorretta – e un’altra cosa è l’anarchismo da gran signore, la presunzione intellettualistica, la pretesa cioè di sovrapporsi al partito, di avere degli speciali privilegi, di sottrarsi al lavoro e alle responsabilità collettive.

Il dibattito sulla questione del Manifesto ha anche dimostrato come il partito sia deciso a respingere quelle posizioni che vanno ad intaccare i principi dell’internazionalismo, posizioni che sono denigratorie verso i paesi socialisti, liquidatrici di tutta l’esperienza storica iniziatasi con l’ottobre sovietico.

Dobbiamo fissare, con molta chiarezza, una linea discriminante fra quella che è una critica comunista, che aiuta il movimento operaio a correggere gli errori, e quella che al contrario è una critica piccolo-borghese, che si spaventa dell’asprezza della lotta di classe, che si disarma di fronte alle difficoltà, e che finisce per perdere di vista la contraddizione fondamentale della nostra epoca, la contraddizione fra il sistema dell’imperialismo ed il sistema socialista mondiale.

Ora, siccome la nostra lotta è parte di questa competizione fra i due opposti sistemi di civiltà, non possiamo concederci il lusso dell’isolamento, ma dobbiamo al contrario lavorare per l’unità sempre più salda del movimento operaio e comunista internazionale. È anche questa una scelta politica di principio, al di là della quale verrebbe compromesso il carattere comunista del partito.

In questo quadro, dobbiamo riconsiderare quali siano, in questa fase, nostri compiti internazionalisti e quali siano le forme di azione più adeguate. Dopo la grande campagna di solidarietà attiva con il popolo vietnamita, nei momenti di più acuta tensione di quel conflitto, che ha rappresentato, a Milano ed in tutto il Paese, un momento di mobilitazione di massa e di crescita della coscienza anti-imperialista, vi è stato poi un certo allentamento del nostro impegno. Non siamo riusciti a tenere viva quella mobilitazione, spostandola su altri terreni, indirizzandola verso nuovi obbiettivi. La lotta per l’uscita dell’Italia dalla NATO non ha avuto quell’ampiezza e quella continuità che erano necessarie, non certo per nostra scelta, ma per ragioni politiche, per le difficoltà di dar vita ad uno schieramento unitario, e per l’urgenza delle grandi lotte sociali, sulle quali si è spostata l’attenzione di tutte le forze politiche.

Tuttavia, questo allentamento della lotta internazionalista e della lotta per la pace, è un limite da superare rapidamente, perché porterebbe, alla lunga, ad un vuoto pericoloso, a lasciare scoperto uno dei terreni fondamentali della nostra politica.

A Milano, che ha conosciuto momenti di alta tensione politica, che è stata protagonista di grandi manifestazioni per la pace e per l’indipendenza dei popoli, noi dobbiamo ridar vita a tutta l’azione unitaria su questi problemi.

Il Vietnam continua ad essere l’esempio più fulgido della lotta contro l’oppressione imperialista; è per l’esempio del Vietnam che migliaia di giovani hanno preso coscienza, hanno rotto con la vecchia cultura borghese, hanno cominciato a conoscere il pensiero rivoluzionario del marxismo. E dal Vietnam ci viene anche una lezione di unità del movimento operaio mondiale, che noi facciamo nostra. Nella lotta che conduciamo in Italia contro l’imperialismo, contro la politica dei nostri governi di asservimento agli Stati Uniti, deve stare al primo posto la denuncia, fermissima, della politica americana nel Vietnam, dei suoi crimini, e la difesa della libertà e dell’indipendenza di quel grande popolo di combattenti.

Il Vietnam dimostra che l’imperialismo, per quanto sia forte ed aggressivo, può essere sconfitto, quando si segue una politica giusta e si ha l’appoggio e la fiducia delle masse, dimostra che il socialismo è all’offensiva e che le sue risorse sono inesauribili. Alla classe operaia, ai lavoratori che si battono nel nostro Paese per modificare le loro condizioni di vita, noi dobbiamo dare il senso della dimensione internazionale della lotta di classe, del grande conflitto storico che oppone l’imperialismo e il socialismo, la vecchia civiltà morente e corrotta, e la nuova civiltà che sorge e che avanza, in mezzo a grandi difficoltà, e che è la ragione del nostro essere comunisti, della nostra lotta, della nostra passione politica.



Numero progressivo: F12
Busta: 6
Estremi cronologici: 1970, 6-8 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -