A TRENT’ANNI DALLA SCONFITTA DELLA FIAT
Dossier a cura di Tiziano Rinaldini in cui si analizza la sconfitta del sindacato alla Fiat nel 1980 e sulla situazione degli anni 2000 e 2010. Con interventi di Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Francesco Garibaldo, Tiziano Rinaldini, Riccardo Terzi.
La ricorrenza dei trent’anni dalla lotta dei 35 giorni alla FIAT / 1980 avviene, a differenza delle ricorrenze precedenti, in una fase in cui il modello sociale ed economico che si è venuto affermando negli ultimi decenni (anche in virtù di quella sconfitta) è in grave difficoltà, mentre nel contempo assistiamo all’apparente paradosso che le risposte nettamente prevalenti a questa crisi confermano e persino radicalizzano i connotati di fondo di questo modello, in particolare sul terreno sociale e del dominio unilaterale del lavoro. Inoltre è oggi finalmente da tutti riconosciuto il carattere di sconfitta sancito con l’accordo che concluse quella lotta, dopo che per lungo tempo all’interno dello stesso sindacato ciò non veniva riconosciuto, inibendosi così la piena comprensione della portata della vicenda, limite quindi evidentemente presente anche durante lo scontro che allora si determinò. D’altra parte ancora attualmente accade a volte di imbattersi in riflessioni che accompagnano una tardiva ammissione della sconfitta con il tentativo di addebitarla a “forme di lotta sbagliate” o addirittura alla sua inevitabilità in quanto la ragione era dalla parte della Fiat (di Romiti). Tutto ciò nonostante siano ormai anche emerse chiaramente informazioni di protagonisti sia sul versante sindacale che padronale che pongono legittimi interrogativi sulla inevitabilità dell’accordo a cui si pervenne rispetto alla possibilità di una qualche seria mediazione in particolare sul punto chiave della rotazione. Comunque nel passato non molte sono state le riflessioni che si sono cimentate con spirito di verità sull’andamento di quella vicenda e sulla portata dell’esito che si determinò. In particolare vogliamo qui ricordare il lungo saggio di Adele Pesce uscito in questa rivista poco dopo la vicenda Fiat (e ripubblicato nel numero di gennaio-marzo di quest’anno) e il dialogo di Claudio Sabattini (uno dei principali protagonisti) con Gabriele Polo, pubblicato nel libro uscito nel 2000 (Edizioni Manifesto) e di cui quest’anno è stata fatta una nuova edizione (“Restaurazione italiana”, Edizioni L’ancora del Mediterraneo).
Per tutte le ragioni che abbiamo qui ricordato nell’intreccio tra quella vicenda e la fase che stiamo attraversando, pare oggi possibile una riflessione che sappia guardare a quella fase del passato ed ai problemi di quella attuale in modo utile, sia sul piano della profondità dell’analisi sul passato sia sul piano della risposta agli inquietanti interrogativi a cui siamo richiamati da una realtà profondamente cambiata come quella attuale. A questa riflessione Inchiesta porta il suo contributo coinvolgendo su cinque domande personaggi di varia e diversa esperienza con differenti responsabilità, spesso su posizioni diverse e anche non raramente contrastanti, ma accomunati dall’aver attraversato gli anni ‘70 ed i decenni successivi sempre restando partecipi profondamente delle vicende sociali, politiche e sindacali (T. R.).
In quegli anni Fausto Bertinotti era segretario generale della CdL di Torino (attualmente Presidente della Fondazione Camera dei Deputati) , Sergio Cofferati dirigente nazionale della FILCEA CGIL (attualmente deputato europeo), Francesco Garibaldo Dirigente della FIOM CGIL di Bologna (attualmente ricercatore indipendente, sociologo industriale), Tiziano Rinaldini coordinatore nazionale del settore auto e della Fiat per la FIOM CGIL (attualmente apparato del dipartimento contrattazione della CGIL Emilia Romagna), Riccardo Terzi dirigente della Federazione del PCI di Milano (attualmente dirigente dello SPI CGIL Nazionale).
Domanda: Come valuti oggi le diverse letture che allora furono date sulla vicenda FIAT: dall’inevitabilità di quella svolta, derivante dal processo di riorganizzazione e ristrutturazione che doveva essere realizzato, alla pregiudiziale scelta di stroncare una fase che si era venuta affermando dalla fine degli anni ‘60, connotata dalla presenza di un forte e partecipato sindacato dei consigli, dei delegati e delle assemblee?
Fausto Bertinotti
Nella realtà sociale ogni lettura di un fatto, di un’azione o di una scelta operata da uno dei protagonisti è, per sua intima natura, politica. I punti di vista sono difatti caratterizzati dalla posizione che si occupa nella contesa. Ciò non significa che essi siano deterministicamente derivabili dalla condizione sociale di chi li esprime e neppure dalla scelta di quale collocazione assumere nel conflitto. Esistono e pesano le culture accumulate, il percorso attraverso il quale si giunge all’analisi del fatto, il rapporto che in esso si determina tra l’esperienza sociale e la ricerca scientifica, le determinazioni politiche. Ma non deve essere considerata solo una boutade la formula di Marx secondo la quale le idee dominanti sono le idee della classe dominante. Nello scontro di classe provocato dalla decisione della Fiat (per la prima volta nella sua storia dell’intero dopoguerra) di ricorrere a licenziamenti di massa, la tesi secondo la quale essa era, al fondo, proposta dalle condizioni materiali in cui si era venuta a trovare l’azienda, in una fase di necessaria ristrutturazione del settore dell’auto a livello internazionale, apparteneva a questa categoria, quella dell’egemonia delle idee della classe dominante. La mistificazione consisteva nel rendere oggettivo ciò che non era. Era vero che la Fiat aveva accumulato ritardi nell’innovazione e nelle politiche industriali che costituivano una reale difficoltà; era vero che l’industria dell’automobile si stava avviando ad una feroce riorganizzazione nella quale non tutti i grandi produttori sarebbero sopravvissuti; era vero che il settore dell’auto cominciava ad essere un settore maturo. Non era affatto vero, cioè non erano affatto obbligate le conseguenze operative che il gruppo dirigente della Fiat si apprestava a trarre. Queste erano di natura squisitamente politiche e sociali. Come lo era stata la linea di resistenza, e al fine di rifiuto, opposta dalla Fiat alle innovazioni proposte e provocate dall’iniziativa del sindacato dei consigli sia a livello di organizzazione del lavoro che di politiche industriali. Anche su quest’ultimo tema, infatti, il sindacato aveva avanzato delle proposte con le quali affrontare la maturità dell’auto lungo una linea di ripensamento del sistema di mobilità delle persone e delle merci. La Fiat nell’ ‘80 sceglie invece di affrontare le difficoltà della fase e l’incertezza della prospettiva riguadagnando il comando in fabbrica e cancellando il soggetto che lì dentro dava vita ad un contropotere democratico e partecipato, il sindacato dei consigli. L’altro obiettivo è stato quello, complementare al primo, di mutare con i licenziamenti (o con la cassa integrazione a zero ore) la composizione sociale della popolazione lavorativa mettendo fuori inidonei, invalidi, conflittuali così da plasmare una nuova disciplina di fabbrica quale precondizione alla flessibilità della forza lavoro. Chi ha sostenuto questa tesi insieme al popolo dei presìdi ha perso, ma aveva ragione. I fatti gli hanno dato ragione. Anzi, aveva più che ragione. La radicalità della tesi era semmai criticabile per difetto. La scelta della Fiat di mettere fine, in Italia, al ciclo dei rapporti sociali segnato dalla storia del sindacato dei consigli (cioè della partecipazione conflittuale, cioè dell’autonomia dei lavoratori) si inscriveva in un cambiamento dei rapporti di classe in tutto l’Occidente capitalistico: Romiti era la traduzione italiana di una lingua che negli USA era rappresentata da Reagan e in Gran Bretagna dalla Thatcher. Erano gli anni ‘80. Poi sarebbe venuta la globalizzazione capitalistica.
Sergio Cofferati
Se escludiamo l’opinione estrema ma pur presente nel dibattito di chi urlava ideologicamente resistenza della crisi aziendale (e del prodotto auto) e che dunque rifiutava qualsiasi confronto di merito, nelle restanti valutazioni e nei conseguenti giudizi penso fossero presenti segmenti di verità confermati poi dall’evoluzione delle politiche del gruppo dopo l’accordo. Voglio dire che esisteva senza dubbio una fortissima difficoltà produttiva e finanziaria della FIAT, quella crisi poteva essere affrontata solo attraverso una riorganizzazione diffusa e un salto di qualità nel prodotto e nel processo. Le intenzioni riorganizzative dell’azienda e le loro pesantissime ricadute occupazionali furono subito evidenti mentre il tema della qualità del prodotto e di una nuova organizzazione del lavoro non ebbero mai cittadinanza in quel tempo. D’altra parte per poter introdurre nuove ed impegnative forme di organizzazione del lavoro sono necessari rapporti sindacali solidi ed improntati al reciproco riconoscimento di ruolo, rapporti mai esistiti in FIAT. Anche per questo l’azienda ha utilizzato le vicende di quella fase per ridurre i già fragili e modesti livelli di partecipazione introdotti dalle dinamiche sociali e sindacali dei due decenni precedenti.
Francesco Garibaldo
Contrariamente a quanto sostenuto dalle confederazioni e dal sistema politico nel suo insieme, con l’eccezione di Berlinguer e non del PCI, lo scopo della FIAT non era la realizzazione di un necessario e inevitabile processo di ristrutturazione per guadagnare produttività e flessibilità ma liquidare l’esperienza degli anni ‘70 attraverso la liquidazione del “Consiglione”, cioè dell’insieme dei delegati FIAT. Non era, infatti, impossibile, come risulta dai documenti sindacali, costruire un accordo sindacale su produttività e flessibilità, ma ciò sarebbe avvenuto sotto il costante controllo di un potere di coalizione dei lavoratori autonomo dalle decisioni aziendali. Il carattere specifico, infatti, di quell’esperienza sindacale era costituito dal fatto che il potere negoziale del sindacato dipendeva esclusivamente dal suo radicamento nella fabbrica, reso possibile dalla rete di delegati, eletti e revocabili dai gruppi omogenei di lavoratori. Si dice, anche da parte di autorevoli ricerche storiche che così facendo si mescolavano in un miscuglio senza senso spinte anarcoidi e spesso corporative, come dimostrerebbe la pochezza dei risultati tangibili realizzati. Vi sono sicuramente stati momenti siffatti ma è difficile negare che il risultato complessivo di quell’esperienza fu la costruzione di una capacità di controllo sulla propria condizione lavorativa -come dimostrano “il tabellone” e gli accordi sulla saturazione – che fu oggetto di studio in tutta Europa e una spinta all’innovazione per l’azienda – LAM, Digitron, ecc. indotta da tali lotte; certo era un’innovazione tutta di processo ma questo non per colpa delle lotte sindacali. Ciò che la FIAT si proponeva non era un accordo per risolvere i suoi problemi di produttività e flessibilità, per i quali esistevano modelli in tutta Europa, ma la volontà di avere un controllo assoluto e non negoziabile su tutte le decisioni di governo della fabbrica. Specularmente, nel movimento sindacale e nel sistema politico, non suscitava alcun entusiasmo l’idea che nella più grande fabbrica manifatturiera italiana il sindacato dovesse discutere dettagliatamente ogni decisione, anche quelle strategiche, come la lotta per gli investimenti al Sud, con i rappresentanti di ogni gruppo di lavoro e che solo la conquista del loro consenso, non dimenticando che ognuno di loro poteva essere revocato dal gruppo, consentiva di procedere. Un’impostazione siffatta contestava alla radice il cosiddetto modello dell’EUR, cioè l’accordo realizzato tra le confederazioni sindacali e benedetto dal sistema politico nel suo insieme, che subordinava la difesa dell’occupazione e il miglioramento della condizione lavorativa e salariale a degli obiettivi macroeconomici, decisi dal sistema politico e negoziati con le confederazioni. Si trattava della politica “dei due tempi”, che ha come retroterra ideologico e culturale la teoria neoliberista per la quale la priorità delle politiche pubbliche non deve essere, come teoricamente era stato dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’occupazione ma la crescita economica, da cui deriverà poi l’occupazione; teoria sintetizzata nella espressione che” quando la marea sale tutte le barche salgono”. Teoria che sosteneva, in concreto, la necessità di una forzatura costante degli investimenti, con un marcato carattere tecnologico. Per questa via, infatti, cresce la produttività e quindi dovrebbe espandersi la produzione ed infine l’occupazione e quindi migliorare le condizioni di lavoro. Dietro vi era l’idea di una crescita senza limiti che, a fronte al suo non realizzarsi, si tramutò nella pratica di ristrutturazioni continue con conseguenti cali occupazionali, un aumento costante del carico di lavoro su chi restava e infine nello sviluppo di processi di de-verticalizzazione delle imprese, con la creazione di reti di subfornitura e la conseguente disarticolazione del mondo del lavoro.
Tiziano Rinaldini
Le diverse letture che furono date durante e dopo la vicenda FIAT originavano da una diversa valutazione e considerazione assegnata al protagonismo sociale, ed in particolare operaio, degli anni ‘60 e ‘70. Un po’ schematicamente, ma non troppo, la riassumo in due piani. Una lettura nasceva dal considerare inevitabile una rottura rispetto a quel protagonismo come conseguenza della esigenza ritenuta inderogabile di accedere alla ristrutturazione così come posta dall’impresa. Alla base di questa lettura credo vi fosse la convinzione, ereditata dalla esperienza del ‘900, che si trattava della (seppur dolorosa) necessità di governare l’interruzione di un ciclo a cui poi, trascorso un po’ di tempo, ne sarebbe comunque succeduto un altro. Ritengo che questo modo di pensare risentiva della persistenza di tradizionali culture ed esperienze che si erano affermate nel movimento operaio del passato (sia nella versione moderata che radicale) non più di tanto scosse dalla novità del protagonismo operaio degli anni ‘70.
Un’altra lettura invece, sia durante quella vicenda sia anche dopo, riteneva che, per il sindacato in particolare, non potevano esserci alternative ad un compromesso che salvaguardasse continuità di fondo (pur da innovare) al protagonismo operaio degli anni ‘70. Quindi l’unica conclusione sindacale perseguibile doveva essere comprensibile dal soggetto sociale interessato come una, seppur sofferta, riconferma. A questo vincolo andava commisurata una pur necessaria riorganizzazione e politica industriale per la FIAT, che vedesse i lavoratori ed il loro potere negoziale come una risorsa e non un ostacolo da abbattere.
In questa lettura c’era la convinzione che il protagonismo sociale ed operaio aveva aperto la possibilità di profonde innovazioni rispetto alla esperienza storica, sindacale e politica, del confronto fra capitale e lavoro e nel contempo c’era la convinzione che l’esperienza storica del passato in tutte le sue pur diverse prevalenti versioni avesse ormai esaurito il proprio contributo. Con l’annullamento del protagonismo operaio nella contrattazione collettiva sulla e a partire dalla condizione di lavoro ci si metteva quindi in un vicolo cieco e in una situazione dove sempre più il capitale diveniva “dominus” assoluto nel governo del lavoro. È opportuno aggiungere poi che occorre tener conto che in quel periodo per tutte le letture era difficile (e forse impossibile) avere piena consapevolezza che si stava andando ad una vera e propria rottura della storia del ‘900 nel modello sociale, economico e politico di dominio sul lavoro che si sarebbe affermato sotto il nome di “globalizzazione” (la cui affermazione è avvenuta anche attraverso e grazie a vicende come quella della FIAT, e poco dopo dei minatori inglesi e soprattutto dei controllori di volo negli USA). Appare però a me evidente che la seconda lettura conteneva quegli elementi di consapevolezza della portata della sconfitta (con la chiusura alle straordinarie novità degli anni ‘60 e ‘70) che meglio predisponevano a capire la successiva situazione che si sarebbe determinata, senza le illusioni consolatorie e le negazioni su cui a lungo ci si è attardati.
Riccardo Terzi
Le due interpretazioni richiamate nella domanda sono tra loro intrecciate e complementari. C’è un dato tecnologico e c’è un dato politico. La Fiat aveva la necessità di avviare un nuovo ciclo produttivo, per evitare una prospettiva di declino, e questa necessità è stata usata per ripristinare un sistema di comando centralizzato e per segnare una netta rottura nelle relazioni sindacali, rimettendo in discussione tutta l’esperienza del movimento dei Consigli. L’aspetto politico, vale a dire la questione del potere, delle strutture di comando e di controllo, è probabilmente l’elemento di fondo che orienta tutta l’azione della Fiat in quella congiuntura. Basti ricordare l’utilizzo che viene fatto del movimento dei quadri, i quali rappresentavano lo strumento operativo al servizio della struttura gerarchica, e la successiva liquidazione di questo tipo di funzione, non più compatibile con le nuove esigenze produttive. È lo stesso Romiti che annuncia la svolta della “qualità totale”, indicando il modello di un sistema di fabbrica che non si regge più sulla gerarchia, sulla trasmissione del comando dall’alto verso il basso, ma sulla partecipazione consapevole e sull’ autonomia responsabile dei lavoratori. Ciò vuol dire che l’innalzamento del livello tecnologico dell’impresa non ha come sua necessaria conseguenza lo scontro frontale col sindacato e la negazione della soggettività del mondo del lavoro, ma al contrario sembra farsi strada l’idea che la nuova tecnologia può dare il massimo di sé solo se ai lavoratori viene riconosciuto uno spazio di autonomia e di partecipazione. Queste nuove teorie non producono però nessun vero cambiamento, e restano nel campo delle esercitazioni astratte, perché il sistema imprenditoriale non è disponibile a mettere in gioco le strutture di potere, ad avviare un minimo di democratizzazione dei processi decisionali. E la Fiat, che ha sempre avuto un ruolo di guida nel fronte delle imprese, conduce con estrema fermezza e determinazione la sua battaglia nella vertenza del 1980, indicando così a tutto il padronato la prospettiva di una rivincita, di un riscatto, di un rovesciamento dei rapporti di forza. Ed è proprio questo obiettivo politico che viene raggiunto. Non ho strumenti di conoscenza sufficienti per valutare se c’erano margini di manovra per il sindacato, se c’erano possibili alternative. Resta il fatto che quella vicenda segna l’inizio di una nuova fase, e che è stata vissuta dai lavoratori come una sconfitta strategica: non un episodio nella vicenda altalenante delle relazioni sindacali, ma un momento di rottura, da cui esce mutato tutto il quadro dei rapporti sociali.
Domanda: Quale rapporto si può oggi ricostruire tra quella sconfitta e il modello sociale, economico e politico che si è venuto a determinare nei decenni successivi?
Fausto Bertinotti
Gli anni ‘80 inaugurati dalla sconfitta dei 35 giorni alla Fiat sono, oggi lo si vede bene, gli anni della grande transizione; si potrebbe dire gli anni in cui la borghesia italiana esercita la sua pars destruens, quella dell’attacco ai fondamenti del ciclo precedente e, in particolare, delle conquiste degli anni ‘70. Perciò, in questa lunga fase, la resistenza operaia ha costituito un fatto importante nella contesa politica più generale. Rispetto ad esso si è giocata anche tanta parte delle sorti della sinistra italiana di fine secolo. Esse erano già state duramente compromesse da ciò che può essere simboleggiato nella solitudine della Primavera di Praga e poi della incapacità di cogliere il potenziale di trasformazione sociale straordinario accumulato nell’ascesa sulla scena pubblica dell’operaio comune di serie e dello studente di massa, portatori di un nuovo egualitarismo. L’incomprensione della valenza strategica della lotta dei 35 giorni e poi della resistenza operaia, si pensi per tutte alla vicenda della scala mobile, e la progressiva assunzione da parte della sinistra dei parametri dell’impresa e del mercato hanno desertificato il terreno dell’alternativa di società, hanno fatto venir meno, sulla scena della politica, il tema di un diverso modello di sviluppo (chi, cosa, come, dove, per chi produrre). Un mutamento strisciante ha investito i principali soggetti del cambiamento (partiti, sindacati) facendo venir meno l’antagonismo. Il terrorismo che, oltre alla terribile tragedia umana provocata, aveva reso molto più difficile il cammino delle lotte sociali e offerto del materiale per inquinarne il terreno del conflitto, giunge con l’assassinio di Aldo Moro, all’atto che simboleggerà la fine del dopoguerra. Mentre la democrazia subisce una torsione che avvia il cambio regressivo della sua natura, rispetto all’idea di democrazia progressiva e integrale dei Costituenti. Al posto del potere diffuso, accusato di produrre ingovernabilità e resistenza alla modernizzazione, si invoca il decisionismo del potere accentrato nello Stato e nell’impresa. Prende corpo un revisionismo costituzionale che porterà al maggioritario e alla centralità dell’esecutivo. Ma quel che diventa decisivo sono i colpi di piccone al modello economico e sociale. La centralità della questione sociale, in questa fase, gli anni ‘80, in Italia, è particolarmente evidente. Qui più dura è l’offensiva capitalistica perché più avanti nel cambiamento del modello di sviluppo era andata la storia sociale e democratica che il conflitto di lavoro aveva operato. Il caso italiano doveva essere chiuso e la chiusura doveva passare per la sconfitta operaia. Il nuovo modello nasce su questa sconfitta.
Sergio Cofferati
L’effetto negativo di quella vertenza e di quella conclusione è stato assai vasto, per ragioni di merito accentuate da un uso mediatico molto forte da parte dell’impresa e delle forze politiche conservatrici. Anche se penso che i condizionamenti per quanto pesanti non sono durati a lungo nel tempo. Subito dopo la crisi della FIAT, altre crisi come quella della siderurgia e quelle della chimica vennero affrontate con ben altra disponibilità da parte delle imprese e gli stessi governi affrontarono o accompagnarono i negoziati con esplicito intendimento di evitare drammi sociali. Per questo, secondo me, non si impose il modello autoritario della vertenza FIAT (anzi delle sue conclusioni).
Francesco Garibaldo
Un rapporto forte anche se questa è una, non l’unica, delle radici dell’attuale situazione. Bisogna considerare, infatti, come radici materiali dell’oggi sia la strategia dell’EUR e la prassi che ne derivò, sia la sconfitta del 1980 alla FIAT, sia il crollo del muro di Berlino del 1989 con la conseguente dissoluzione dei cosiddetti “paesi socialisti”, che il trattato di Maastricht del 1992, che creò la cornice macroeconomica e sociale della Unione Europea, che l’accordo sul sistema di Relazioni Industriali del 1993, e, infine, l’ingresso della Cina nel WTO, l’11 Dicembre del 2001. Vi sono poi le rivoluzioni politiche della Thatcher, in special modo con lo scontro con il sindacato nel 1983, e di Reagan nel 1981 con la sua “Reagan economics”, basata sulla politica dell’offerta, la riduzione delle tasse, il “ritirarsi dello Stato” sia nell’economia sia nel sociale. Già si è detto sull’EUR e il 1980 alla FIAT. La caduta del muro di Berlino rappresenta certamente il fallimento di quell’esperienza come alternativa credibile al capitalismo e quindi, indirettamente una sua legittimazione non solo per le grandi masse occidentali ma anche per il sistema politico nel suo insieme. Inizia, paradossalmente da lì “l’eclisse della socialdemocrazia”, magistralmente analizzata da Berta in un aureo libretto, e, con essa, la progressiva liquidazione di ogni partito che esplicitamente si consideri, in primo luogo, rappresentante del mondo del lavoro. In Italia questa tendenza generale europea ha un decorso rafforzato nell’ingenua idea del vecchio gruppo dirigente del PCI, in una sua larga parte, di conquistare un nuovo accreditamento assumendo acriticamente il mercato come principio regolatore di ogni scelta. La scelta di Maastricht, frutto della impostazione di Delors, definì il quadro macroeconomico europeo secondo il seguente schema:
i. investimenti contro consumi;
ii. più tecnologie per aumentare la competitività;
iii. uno strutturale ritardo della crescita dei salari rispetto a quella della produttività (un punto in meno) per remunerare adeguatamente gli investimenti;
iv. una espansione ed un miglioramento delle infrastrutture europee, funzionale alla costruzione di un sistema produttivo integrato, in grado di competere al nuovo livello; la stabilità macroeconomica con la stabilità dei cambi e la moneta unica, la stabilità macroeconomica richiede inoltre deficit statali contenuti onde evitare che l’espansione generi inflazione.
In questa impostazione l’occupazione è il risultato diretto della crescita generale, un suo frutto e non un obiettivo specifico e vincolante di tale crescita. Si abbandona cioè, anche culturalmente, l’obiettivo della piena occupazione. La Germania, è stata il campione eponimo di tale impostazione. Tale strategia, chiaramente debitrice del pensiero economico allora dominante, venne progressivamente depurata da ogni “orpello” a favore di una chiara politica economica di alti investimenti, alta tecnologia e alti profitti. In ogni passaggio era riconfermata l’ideologia corrente che quello specifico provvedimento era funzionale alla diffusione, a posteriori, dei benefici dello sviluppo.
La deverticalizzazione delle imprese e l’impressionante crescita di veri e propri sistemi di produzione a rete, e le scelte delocalizzative, hanno prodotto una disarticolazione del mondo del lavoro che si è ristrutturato, seguendo le reti produttive, segmentandosi in aree con condizioni lavorative molto diverse e con una progressiva polarizzazione attorno a due poli e la riduzione delle situazioni intermedie. L’accordo del 1993, a prescindere dalle diverse opinioni espresse in proposito, era dunque un tentativo molto ambizioso, dopo il 1980 e l’elaborazione e realizzazione delle politiche di concertazione, nel pieno di un’inflazione e di una drammatica crisi dei conti pubblici, di dimostrare che esistevano i termini possibili di uno scambio contrattuale, nonostante la liquidazione, avvenuta l’anno prima, dell’istituto della contingenza. La teoria dello scambio è una teoria chiave per analizzare i sistemi di Relazioni Industriali, ma l’applicazione italiana è stata peculiare perché si giocò tutto su maxi-accordi fortemente centralizzati, a differenza di quanto avvenne in altra parte dell’Europa dove gli accordi neo-corporativi puntavano ad un flusso continuo e distribuito di scambi. Nella versione italiana i maxi-accordi dovevano alleggerire il sistema industriale dalla pressione salariale e rivendicativa e concentrare gli sforzi, in modo concertato, sull’aumento della produttività; a quel punto, infatti, il sistema sarebbe cresciuto e avrebbe distribuito, “per li rami”, la ricchezza così prodotta. L’inflazione veniva considerata una conseguenza della crescita salariale, di qui quindi la moderazione salariale come manovra antinflattiva.
L’accordo del 1993 fu firmato contestualmente a una forte svalutazione competitiva della lira che portò, alla fine dell’anno, a registrare un boom delle esportazioni con un attivo record di 32 mila miliardi di lire.
Quattro erano i capitoli principali dell’accordo: la politica dei redditi e dell’occupazione; gli assetti della contrattazione collettiva e la rappresentanza sindacale in azienda; le politiche del lavoro; il sostegno al sistema produttivo. Lo scambio doveva avvenire tra quanto regolato nei primi due, quindi la subordinazione della dinamica salariale alla lotta all’inflazione, per mezzo della politica dei redditi, e alla crescita della produttività e della competitività, con quanto definito nei secondi due. La subordinazione della dinamica salariale avvenne tramite la definizione dei tassi d’inflazione programmati, punto di riferimento per la contrattazione nazionale. I risultati disastrosi di tali politiche, basate sullo scambio, sono sotto gli occhi di tutti. In realtà, infatti, i vari Governi hanno solo proceduto, per l’occupazione, alla sua precarizzazione in omaggio alla teoria dell’OCSE che ciò avrebbe aumentato l’occupazione. Per quanto concerne il sistema delle imprese esse hanno quasi subito, superata cioè l’impasse del 1992, messo in moto una nuova strategia complessiva nella quale non vi era alcuno scambio da fare ma solo una radicale messa in discussione del ruolo del Lavoro e del movimento sindacale in Italia. La forza lavoro globale disponibile, le persone cioè economicamente attive, nel mondo erano 960 milioni nel 1980, non considerando, perché non integrate nel mercato globale, Cina, India e i paesi del blocco Sovietico; nel 2000 questa cifra era aumentata a 1460 milioni ma nel frattempo erano entrati nel mercato globale i lavoratori di India, Cina e dell’ex blocco Sovietico con un numero di lavoratori pari a 1470 milioni; in sintesi la forza lavoro globale si è raddoppiata. Questa forza lavoro globale può essere considerata come un tutt’uno poiché le rispettive economie si sono largamente integrate. Bisogna ribadire che la distinzione tra i settori esposti alla concorrenza internazionale e quelli non rimane, così come quella tra settori con diverse ragioni di scambio, le cifre quindi vanno interpretate come ordini di grandezza che illustrano un fenomeno nuovo, ad evitare interpretazioni naif, come quelle di Scalfari, o volutamente estremizzate, come quelle di Marchionne, che traducono il tutto in un sistema idraulico di vasi comunicanti liquidando contemporaneamente ogni mediazione delle Istituzioni, dei sistemi legislativi e sociali, delle politiche pubbliche, ecc.
Freeman (2004: 5) fa notare che, a causa di questo raddoppio, il rapporto tra il valore del capitale disponibile e il numero di lavoratori (K/L), si è ridotto, a causa dell’unificazione dell’economia globale, tra il 55% e il 60%, che è come dire che il numero di lavoratori che compete per essere utilizzato dalla stessa unità di capitale è cresciuto quasi del doppio. Il potere di mercato si è quindi spostato strutturalmente verso il Capitale, a scapito del Lavoro. Nel frattempo, specialmente la Cina ha fatto investimenti enormi nella formazione di una leva di persone con alti livelli di formazione e la capacità di svolgere lavori specializzati, sia tipicamente industriali ma anche di ricerca tecnologica e scientifica, allo stesso livello di qualità ed efficienza dell’Occidente. Sono le due cose assieme a rappresentare una vera e propria rivoluzione nella struttura tradizionale del mercato mondiale; esso, infatti, non è più costituito da un gruppo di paesi che detiene un oligopolio delle conoscenze e della tecnologia e dal resto del mondo che li insegue; da questo punto di vista la vicenda della concorrenza internazionale sui treni ad alta velocità, da un lato, e quella della costruzione di uno stabilimento vicino a Colonia da parte della Sany, dall’altra, sono emblematiche.
Questa rivoluzione maturata negli ultimi due decenni ha aggiunto alla pressione competitiva un elemento drammatico dato che i nuovi mercati, considerati una possibile valvola di sfogo per la cronica situazione di sovra-produzione d’interi settori industriali in Europa e negli USA, sono sempre meno disponibili per le esportazioni occidentali, mentre lo sono per investimenti diretti che trasferiscano tecnologie sofisticate. Di qui la crescita di una feroce guerra competitiva generale tra imprese e/o paesi in un quadro di generale sovra capacità produttiva; di qui una delle radici della crisi. La pressione sui salari e sulle condizioni di lavoro in Occidente è una pressione al ribasso; l’effetto globale può essere particolarmente destabilizzante, senza adeguate politiche pubbliche. Una delle conseguenze con la quale conviviamo da qualche tempo è la crescita di una fetta sempre più ampia di lavoratori e lavoratrici in condizioni precarie. Siamo in presenza di un nuovo esercito salariale di riserva, di una quota cioè di lavoratori strutturalmente eccedenti da utilizzare in chiave anticiclica e per abbassare il valore medio delle retribuzioni, come è per l’appunto appena avvenuto. L’accordo separato del Gennaio 2009, e quello attuativo di Aprile, sul sistema di Relazioni Industriali, firmato da CISL e UIL e, ultimamente, quelli separati per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici e per lo stabilimento di Pomigliano rappresentano una nuova svolta, una soluzione di continuità.
Tiziano Rinaldini
Con quella sconfitta si riapre la strada al comando unilaterale dell’impresa sul lavoro nel lavoro, proprio ciò che era stato messo in discussione negli anni ‘70 con la conquista di un ruolo della contrattazione anche su questo terreno e che, a partire da questo, aveva aperto spazi alla contrattazione collettiva e quindi al sindacato per un ruolo non subalterno nei confronti delle imprese, dei partiti e dello Stato sulle politiche industriali, sulle riforme sociali, sui diritti e la democrazia.
La produttività poté così, anche sulla base di quella sconfitta essere ricondotta in primo luogo al costo e all’intensità del lavoro. Si affermò e venne riconosciuto il primato dell’impresa sul lavoro. Non è difficile quindi cogliere la relazione tra quella sconfitta e l’affermazione nei decenni successivi del modello sociale, economico e politico con la cui crisi oggi facciamo i conti.
Non voglio così stabilire una schematica relazione di causa/effetto, né vedere in quella sconfitta l’unica ragione con cui spiegare dove siamo arrivati oggi e com’è messa la stessa FIAT.
Altre cose concorrono, a cominciare dalla incapacità del sindacato e della sinistra di riconoscere subito la portata di quella sconfitta per finire con le caratteristiche che è venuto man mano assumendo nel mondo il processo di strutturazione del capitalismo.
Quella sconfitta però mise fuori gioco uno degli ostacoli principali (credo, il principale) alle risposte specifiche che in Italia si determinarono all’interno del modello di competitività che si andava affermando nel mondo, con le imprese sempre più volte a competere sul piano dei costi invece che sulla qualità, senza una spinta per una condivisa politica industriale, dedite spesso più ai vantaggi della finanza o delle attività” protette” che a investimenti innovativi e non principalmente mirati a togliere lavoro.
Così come sul piano sociale si favorì l’avviamento di una fase di svalorizzazione del lavoro, inducendo ognuno a ricercare risposte al proprio sviluppo individuale fuori da uno sviluppo solidale da ricercare insieme ai propri compagni di lavoro con la critica per cambiare il lavoro e i lavori più duri (da lasciare, appena possibile ad altri). Sullo stesso terreno redistributivo, chiusa la strada di aumento reale dei salari e avviata prima la loro compressione e poi la discesa, per un lungo periodo il messaggio trasmesso per aumentare il reddito non è stato più riferito al lavoro, ma ad investire i risparmi nei titoli di stato e poi nella speculazione di borsa.
Sul piano sindacale viene meno il propulsore decisivo del processo unitario, e cioè il suo fondamento nel protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici nel lavoro, sul terreno della loro condizione e del governo del lavoro, come oggetto primario della contrattazione collettiva su cui l’esercizio del loro potere e della loro responsabilità costruisce una soggettività per la quale non dominino le appartenenze di organizzazione.
Si interrompe quindi una dialettica, e torna il predominio dell’appartenenza, scarsamente influenzata dal basso.
Nel contempo le appartenenze sono sempre meno in grado di ritrovare in sé le ragioni storiche per cui era indiscutibile per le due grandi culture sindacali della tradizione l’idea di dover rappresentare un punto di vista autonomo dal capitale (a costo di pagare prezzi durissimi come fu il caso della CISL alla FIAT nel 1958). L’apparente paradosso è che questo piano inclinato invece che avvicinarle, le porta sempre più ad una competizione fra di loro in cui è lasciata alla controparte la scelta su chi premiare e chi punire.
I lavoratori e le lavoratrici sono esclusi, clienti e non più titolari del fare sindacato.
Riccardo Terzi
L’obiettivo della Fiat era assai ambizioso, perché puntava a un totale ripristino della discrezionalità unilaterale del comando nel sistema delle imprese. Questo obiettivo è stato raggiunto? In gran parte sì, anche se in una realtà produttiva estremamente differenziata come quella italiana restano presenti diverse linee evolutive, a seconda dei settori o delle realtà territoriali.
Certo, non è casuale che proprio a partire dagli anni ‘80 prenda forza un’offensiva ideologica e culturale orientata all’ affermazione di una forma radicale di liberismo, ovvero all’idea che alla regolazione politica si deve sostituire la regolazione spontanea del mercato, e che tutte le possibilità di crescita e di sviluppo dipendono esclusivamente dalla nettezza con cui questa scelta viene compiuta. È un’offensiva che penetra in profondità nel senso comune, nella coscienza collettiva del paese, dando luogo ad un vero e proprio salto di egemonia. Tutta la storia politica italiana si incammina su una nuova traiettoria, e il berlusconismo non è altro che il coronamento di questo processo. Non se ne esce, quindi, solo con gli strumenti della tattica e della manovra politica, ma occorre un lavoro più in profondità, sociale e culturale, per tentare di scalzare il pensiero egemonico dominante.
Domanda: Alla luce dell’attuale crisi e della stessa vicenda FIAT quali sono le tue riflessioni sull’attuale situazione del sindacato e della politica, a partire dalla condizione sociale che si è determinata?
Fausto Bertinotti
La crisi del capitalismo finanziario globalizzato ha investito l’intero occidente capitalistico. La crisi è profonda e strutturale. L’instabilità e l’incertezza sono ai livelli massimi. Il capitalismo continua a mostrare tutta la sua straordinaria vitalità nella capacità di innovarsi ormai incurante delle conseguenze che genera in termini di crisi della coesione sociale, di aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze. Se la democrazia diventa un ostacolo se ne fa a meno. Il blocco sociale dominante, guidato da un governo di impronta tecnocratica, vede il variegato partito borghese sostenere il nucleo essenziale della sua proposta per l’Europa del futuro: l’Europa dell’affermazione del mercato quale sovrano assoluto. Se i suoi assi, nelle politiche sovranazionali e statuali, sono la riduzione del deficit e il perseguimento della competitività a qualunque costo (cancellazione dell’ordinamento costituzionale compreso), a livello dell’impresa, il perseguimento della competitività aziendale a qualunque costo comporta la demolizione della democrazia e dei diritti dei lavoratori, l’individualizzazione del rapporto di lavoro e la morte del contratto collettivo. Quel che dev’essere cancellato è il sindacato quale soggetto autonomo di organizzazione del conflitto, di contrattazione e di rappresentanza autonoma di tutti i lavoratori. L’affondo della FIAT di Marchionne su Pomigliano d’Arco ne è un terribile banco di prova. Nessuna ipocrisia di regime può nascondere, a chi vuol vedere, che si tratta di una regressione storica: la cancellazione del sindacato e della contrattazione in azienda. Se lo si connette alle leggi in approvazione sul mercato del lavoro e agli accordi sulla produttività il cerchio si chiude, e con il cerchio si chiude un’epoca storica. La filosofia che viene imposta è semplice ed implacabile, vale per il salvataggio di un paese come di un’impresa: le misure sono obbligate, dunque indiscutibili (a meno di voler essere considerati pazzi). È la morte della democrazia, della politica e della sinistra. La democrazia in cui vive la politica (e il clivage tra destra e sinistra) è data dalla possibilità di scelta. Se non c’è, non c’è la democrazia, e la politica diventa inutile (o, solo, fonte di competizione e di selezione tra i ceti politici dirigenti). Il problema che si pone a chi voglia opporsi a questo nuovo corso del capitalismo europeo è di come si possa rompere questa costrizione, questa prigione. Il dramma che ha investito la sinistra in Europa si rivela proprio nella constatazione che esso, nel suo insieme, non si pone la domanda e non cerca, per davvero, una risposta. Galleggia ora sulla crisi, come prima aveva galleggiato sulla globalizzazione. Dove è resistita, malgrado i rovesci, una forza che almeno ha continuato a definirsi di sinistra, questo le ha consentito, di fronte alla crescita del conflitto sociale, di marcare una presenza. Non in Italia dove il clivage destra-sinistra rischia di essere soppiantato da un conflitto tra il basso e l’alto della società divisa tra oligarchia e populismo. Del sindacato è impossibile ormai (e speriamo per ora, soltanto) parlare in termini d’insieme, unitari. La CISL porta alle estreme conseguenze la istituzionalizzazione del sindacato, sostituendo il soggetto contrattuale con il riconoscimento di una funzione di partecipazione al governo dell’impresa e con l’attribuzione al sindacato della gestione di servizi. È il rovesciamento definitivo della storia unitaria del sindacato dei consigli, a partire dalla negazione della “partecipazione conflittuale”. L’ambiguità e la non scelta della: CGIL lascia la sola FIOM ad esprimere una linea sindacale fondata sull’autonomia contrattuale e sull’ organizzazione della soggettività critica della coalizione lavorativa. Eppure ciò che riprende a muoversi, anche con tutti i limiti evidenti, in alcuni paesi europei a sinistra, socialmente e politicamente, dice che l’esito della sfida radicale, che ha per posta in gioco il modello sociale europeo e la democrazia, non è affatto deciso.
Sergio Cofferati
Oggi il problema principale mi sembra la mancanza di attenzione politica verso il lavoro. Si tratta a mio parere di una distrazione grave che rischia di produrre guasti molto seri. Nella deformante società della comunicazione i cittadini sono interpretati come consumatori e assai raramente mostrati nella loro veste di produttori, così il lavoro diventa prevalentemente occasione di reddito e quasi mai di realizzazione sociale della persona. Entra così in un cono d’ombra il valore sociale del lavoro. È un processo grave ancor più preoccupante quando coinvolge la sinistra politica. Nel mercato globale vivono due modelli competitivi, uno basato sulla conoscenza, sulla qualità del prodotto, del processo e del lavoro, l’altro invece si fonda sulla prevalente o esclusiva riduzione dei costi mettendo in discussione le condizioni materiali di chi lavora e riducendo le loro protezioni sociali ed i loro diritti. Una parte del sistema delle imprese europee (non quelle tedesche) è attratto da questo secondo modello nonostante l’Unione abbia indicato a Lisbona già nel 2000 il primo, scegliendolo per sé e indicandolo orgogliosamente quale sfida ai soggetti che operano nel mercato globale. Anche la FIAT, ormai parte minoritaria di un agglomerato più grande, sceglie la strada della competizione bassa. Non sorprende, è in continuità con la sua storia. Sorprende invece l’incapacità di una parte della sinistra di leggere le scelte di queste imprese o di giustificarle con un improprio stato di necessità. Semplificando rozzamente si può dire che da un lato c’è Siemens e dall’altro c’è FIAT. Come trent’anni fa c’era la Volvo con i suoi modelli di organizzazione del lavoro a fare da contraltare alla rigidità tayloristica della linea di montaggio. Non è però casuale che intorno ad ogni modello di cultura imprenditoriale ci sia stato e ci sia un diverso modello sociale e una diversissima coesione sociale.
Francesco Garibaldo
In realtà nella nuova situazione si stanno delineando due strategie padronali convergenti, ma differenti, anche se probabilmente si salderanno in un’unica iniziativa. Sia la strategia dell’accordo del 2009 sul sistema di relazioni industriali, sia quello del contratto dei metalmeccanici dell’ottobre 2009, che quello di Pomigliano puntano a un ridimensionamento e svuotamento del contratto nazionale, ma mentre nel primo caso la tecnica chiave è la deroga a seconda dell’interesse della specifica azienda mantenendo formalmente un unico contratto nazionale, nella seconda si vuole sostituire il contratto nazionale con un contratto di settore – l’auto e tutta la sua componentistica -che non ammette alcuna deroga, alcuna interpretazione ed alcuna contrattazione in itinere.
Il quadro sottostante è comune. Le trasformazioni del capitalismo europeo hanno reso, per il sistema delle imprese, superate le politiche concertative e neo-corporative europee. Il problema non è più quello di un disciplinamento salariale nazionale attraverso la politica dei redditi, ma la conquista, azienda per azienda, di un vantaggio competitivo specifico per mezzo di una subordinazione effettiva e diretta della condizione complessiva di lavoro alle esigenze tattiche e strategiche di quella specifica impresa; la dinamica salariale diventa solo una delle componenti. Di qui, come dice l’accordo (separato) interconfederale di Aprile, lo sviluppo, nei principali paesi europei negli ultimi venti anni: di una generale tendenza a favorire un progressivo decentramento della contrattazione collettiva. La tendenza cui spingono le imprese è l’aziendalismo secondo il principio che non vi è salvezza per i lavoratori se non si salva l’impresa; essi quindi devono ritenersi in guerra contro tutti assieme all’impresa e comportarsi di conseguenza. In questa prospettiva si comprende anche come il contratto nazionale possa al più recuperare l’inflazione mentre deve essere possibile, in ogni momento derogare, in peggio, alle sue clausole per cogliere delle opportunità o per affrontare delle difficoltà. La FIAT, come nel 1980, non è interessata in sé alla soluzione specifica di un problema gestionale, sia esso la flessibilità o la produttività, ma al fatto che la soluzione deve essere unilaterale e di esclusiva potestà dell’azienda, senza alcun vincolo di un potere contrattuale autonomo dei lavoratori. Pomigliano ha reso evidente che, nonostante tutto e in condizioni di estremo ricatto, vi è una parte non piccola di lavoratori che pretende un ruolo negoziale; questo non è ammissibile. Non lo è non per ragioni ideologiche ma perché si vuole realizzare, in Italia, una condizione lavorativa apertamente alternativa a quella finora esistente come valvola fondamentale con la quale affrontare un lungo periodo nel quale la FIAT non ha una capacità competitiva sulla gamma di modelli, ha una esposizione debitoria significativa ed una scommessa, la Chrysler, che non può essere persa. Non si può escludere per altro che si consideri anche la possibilità di vendita di pezzi che risulterebbe molto facilitata, nei mercati internazionali, dall’averli bonificati da ogni “inquinamento sindacale”. Di qui il rilancio di Marchionne, oltre la deroga, per l’esigibilità forzosa di ogni accordo, anche se sottoscritto da organizzazioni minoritarie tra i lavoratori e la conseguente necessità di liquidare la natura di diritto del lavoratore e non delle organizzazioni, previsto per il diritto di sciopero dalla nostra Costituzione, all’articolo 40.
La modernizzazione di Marchionne, di cui straparlano i politici, compresi quelli soi disant di sinistra, consisterebbe quindi nello smantellamento autoritario di ogni negoziato che non sia puramente funzionale all’attuazione delle decisioni aziendali, l’opposto cioè di un potere contrattuale del sindacato basato sul suo radicamento tra i lavoratori e le lavoratrici. È una modernità che riporta l’orologio della storia a prima del 1875, se si guarda all’Inghilterra, o, se in omaggio a Marchionne guardiamo agli USA, a prima del Wagner act del 1935.
La posta in gioco non è quindi quella di favorire o no, e in che misura maggiore flessibilità e produttività delle imprese ma l’accettazione piena e integrale che la condizione lavorativa e la condizione sociale del lavoro, occupazione e welfare, sono derivate dirette della competitività delle imprese e delle condizioni di equilibrio macroeconomico dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri e non, viceversa, gli obiettivi cui piegare i modelli di business e le politiche macroeconomiche. Data la natura “bellica” della competizione – si ricordi il “siamo in guerra” di Marchionne – chi non accetta tale subordinazione è fuori dalla legittimità politico-sociale, la lotta di classe è non solo un residuo storico ma chi la agita o la promuove è un “nemico della patria” e va represso. Non è difficile comprendere il contenuto autoritario generale di tale impostazione; come ci insegna la storia, la repressione del conflitto sociale getta un’ombra lunga su ogni forma di conflitto e libertà nella società.
A proposito di aziendalismo corporativo occorre distinguere quello materialmente concreto, alla tedesca, nel quale ad un gruppo ristretto di lavoratori viene garantito il lavoro – accordo Siemens – senza data di scadenza e/o una regolamentazione delle modalità lavorative favorevole -Volkswagen -, da quello immaginario della CISL e della UIL che garantisce non i lavoratori ma le organizzazioni firmatarie che dovrebbero divenire protagoniste di una gestione congiunta con le imprese del sistema di welfare pubblico.
Tiziano Rinaldini
Le risposte a questa domanda sono già in parte presenti nella risposta precedente. Stiamo in questa fase assistendo al tentativo (in parte già realizzato) di sancire organicamente, anche quindi sul piano formale (legislazione, diritto, struttura e vincoli delle relazioni sindacali, revisione dello Statuto), la riduzione a merce della persona/individuo che lavora, nel lavoro. È un tentativo che si fa forte della crisi economica e occupazionale e della destrutturazione/frantumazione del mondo del lavoro (i cosiddetti lavori); si fa forte inoltre di una situazione storica nuova per il sindacato in quanto le forze politico partitiche significative riferiscono immediatamente la loro rappresentanza ad una sorta di interesse generale e non più ad un interesse di parte su cui poggiare un punto di vista generale.
Per concludere questo processo le Organizzazioni Sindacali allo stato attuale da un lato sono ancora un problema aperto, dall’altro di fatto si limitano prevalentemente ad accompagnarlo. La tendenza è globale, con particolare evidenza laddove la tradizione sindacale è più storicamente radicata. Per stare al nostro paese e ai due filoni storici fondamentali, la CISL rinuncia esplicitamente alla contrattazione collettiva sulla condizione di lavoro (considerandola impercorribile) in cambio di un ruolo all’esterno (dal mercato del lavoro a servizi vari) in congiungimento con la controparte ed in accordo con qualsiasi governo ci si trovi dinanzi purché portatore sul piano sociale di un ritiro dell’intervento diretto pubblico e universalistico; la CGIL dichiara di opporsi, ma poi prevalentemente subisce o si adegua accettando di fatto lo stesso terreno di confronto sulla base della logica del minor danno e della necessità di non perdere di vista i rapporti unitari. Nel contempo resta però aperto un contrasto molto significativo al cui centro c’è la FIOM, che non casualmente è la più contrattualista delle categorie e il cui riferimento contrattuale è una struttura industriale non riducibile a settore merceologico e meno colpita di altre dalla destrutturazione della forma impresa.
Nell’attuale quadro la FIOM è come il dito che indica la luna. C’è chi vorrebbe tagliare il dito perché non vuole vedere la luna, e chi lo vorrebbe tagliare proprio perché la vede.
La riflessione centrale di fondo che ritengo necessaria è a partire da due aspetti.
Il primo si riferisce al fatto che se da un lato siamo di fronte alla pretesa che l’unico conflitto consentito sia quello tra le imprese in quanto fisiologia del sistema, mentre il conflitto tra capitale e lavoro sarebbe patologia, dall’altro questa pretesa nell’affermarsi colpisce al cuore la democrazia e nel contempo il dinamismo del capitalismo. La pretesa del dominio sul lavoro priva il capitalismo della dialettica fondamentale impostagli dal lavoro che spinge all’innovazione il capitalismo stesso. Il secondo è l’assenza di realismo per il sindacato e per la sinistra se assume (paradossalmente in nome del realismo) l’idea di poter affrontare il quadro descritto accettandone le compatibilità e cioè riducendo la decisiva attività di contrattazione collettiva (cioè il terreno decisivo di verifica della reale autonomia sindacale) alle compatibilità definite all’interno dell’attuale modello di competitività globale.
Si pongono quindi alcuni versanti di fondo a cui riferire le risposte nella ricerca per aprire la possibilità e un futuro ad un’idea di sindacato al servizio dei lavoratori e delle lavoratrici.
La capacità di qualificarsi con rivendicazioni e contrattazione di valore generale e solidaristico, di unificazione dei lavoratori e del loro interesse autonomo e quindi alternativo alla tendenza attuale; e la scelta comunque di preservare integralmente la libertà del sindacato nel poter interloquire positivamente con le possibilità che si aprono o si apriranno di volta in volta tra i lavoratori e le lavoratrici.
A ciò si aggiunge il versante della ricerca e dell’iniziativa per un modello sociale ed economico alternativo, per una diversa idea di progresso e di compatibilità, a ciò riconducendo politiche industriali, sociali e intervento sulla finanza.
Nel sistema globale e integrato che si è affermato mi pare infatti priva di consistenza l’idea di risolvere il problema nella individuazione di variazioni interne da imitare (dalla Germania alla Svezia agli Stati Uniti) inevitabilmente organiche al modello complessivo.
La ricerca che invece si impone è quella di un progetto che sappia proporsi come alternativo sul piano globale.
È anche per questo che su tutti questi piani è imprescindibile la ricerca di una dimensione almeno europea, in alternativa a ciò che è stata sinora l’Europa.
Nell’affermare ciò, anzi proprio per questo, voglio però chiarire che muoversi verso questo orizzonte richiede che su nessuno dei vari aspetti qui delineati si applichi un’azione di segno opposto giustificandosi che ciò sarebbe inevitabile per la debolezza su altri aspetti.
La dimensione dei problemi evocati interessa sia le organizzazioni sindacali che la sinistra politica e democratica, sui propri distinti piani.
A me pare però decisiva la capacità del sindacato non certo nell’essere autosufficiente, ma di aprire nuove strade alla politica, ben più di quanto purtroppo possa in questa fase fare la politica nei confronti del sindacato.
Al centro infatti della riapertura innovata del filo interrotto si negli ultimi decenni, c’è l’unificazione del mondo del lavoro nella capacità di intervenire sulla propria condizione di lavoro affermando con la contrattazione collettiva il proprio essere soggettività e non merce. Il resto ne può derivare, non viceversa.
Riccardo Terzi
Il modello liberista ha provocato una gravissima crisi mondiale. Si può aprire quindi lo spazio per una diversa impostazione, per un progetto politico di tipo nuovo che cerchi di delineare una diversa regolazione del potere, su scala mondiale e nelle singole realtà nazionali. Non intendo qui affrontare questo problema, ma mi sembra chiaro che il compito che ci sta davanti è quello, impegnativo, di aprire un nuovo orizzonte, imprimendo una netta svolta rispetto alle politiche che sono state dominanti nei decenni passati.
Su questa esigenza di cambiamento sembra esserci una convergenza abbastanza larga, e sotto questo profilo è interessante l’ultima enciclica “Caritas in veritate” che è molto esplicita nel rifiuto di un modello sociale regolato solo dal mercato. Ma il problema è che tutte queste posizioni rischiano di essere solo predicazioni teoriche, a cui non corrisponde nessun movimento reale. Per questo, dico che è in gioco una questione di egemonia, perché si tratta non solo di elaborare posizioni teoriche, ma di attivare le forze reali che siano in grado di determinare un effettivo cambiamento delle prospettive. E la situazione attuale, sotto questo profilo, è ancora molto arretrata, perché la condizione sociale, di precarietà e di insicurezza, in cui si trovano le grandi masse, ha prodotto un indebolimento dei livelli di coscienza e di mobilitazione politica. Il panorama sociale è ancora profondamente segnato da forme di corporativismo, di passività, di localismo, fino all’ esplosione di uno spirito di intolleranza e di razzismo, in tante aree del paese.
Insomma, la situazione è tale da reclamare il cambiamento. Ma le forze reali che devono sostenere questo cambiamento sono tutt’altro che mature. Se è così, c’è bisogno di una politica che prenda in mano questa contraddizione, e che si ponga seriamente il problema di una rappresentanza politica del mondo del lavoro.
Non ci saranno cambiamenti o aggiustamenti spontanei, al contrario tutto sembra indicare che dopo lo choc della crisi le cose tendono a tornare agli equilibri precedenti, alle stesse regole e alle stesse politiche che sono state all’origine della crisi. In particolare in Italia, questa è la tendenza del tutto prevalente.
Il tema della politica e del sindacato, sui loro rispettivi versanti, è quindi quello dell’organizzazione di un campo reale di forze, in assenza del quale tutto rischia di impantanarsi in una disputa fatta solo di parole.
Per questo, è importante ancora una volta il caso Fiat, perché alla vicenda di Pomigliano viene attribuito il valore emblematico di un nuovo modello sociale, dove tutto deve potersi adattare, senza residui, alle esigenze della competitività globale. Niente conflitto, niente negoziazione collettiva, niente soggettività del lavoro: i lavoratori sono solo l’ingranaggio di un sistema sul quale non possono esercitare nessuna influenza. È una sfida, alla quale occorre saper rispondere, non solo con il conflitto, ma con una capacità di proposta che si faccia carico dei nuovi problemi indotti dalla globalizzazione.
Le risposte che sono venute sono, finora, deboli e incerte. E non mancano, anche a sinistra, quelli, accecati dall’ideologia, che vedono in Marchionne il profeta di un nuovo riformismo. Tutto questo conferma che il nostro campo è tutt’ora disorientato, attraversato da una babele di linguaggi. La Fiat ci pone di fronte ad alcuni dilemmi cruciali. È compito di tutta la sinistra cercare le risposte, e non scaricare solo sulla FIOM tutto il peso di questa nuova situazione.
Domanda: In questo quadro come vedi oggi il problema della democrazia e della rappresentanza?
Fausto Bertinotti
Non è inutile, credo, tornare a riflettere, mentre si affronta un tema cruciale per il sindacato quale quello della democrazia e della rappresentanza, sull’esperienza unitaria del sindacato dei consigli. Non ci sarebbe neppure bisogno di dire che non si può trattare certo di una riproposizione di una grande esperienza, ma indubbiamente collocata nel suo tempo storico. Quel che invece è utile è capirne la lezione che travalica quel tempo, proprio quando la democrazia dei lavoratori è sistematicamente sospesa, ignorata e negata. Quel che dovremmo aver imparato è la precisa consapevolezza che la possibilità dei lavoratori di partecipare, attraverso la democrazia, alla determinazione delle scelte e dei comportamenti delle loro organizzazioni è il risultato di un processo complesso. Per un lavoratore partecipare alle scelte del suo sindacato, da una parte, è un diritto, ma, dall’altro, affinché esso venga inverato abbisogna di una costruzione politica. È a questo che bisogna porre mano, se si vuole riuscire a ritornare la parola ai lavoratori, a cui oggi è negata. C’è un rapporto, infatti, tra le forme di organizzazione e di rappresentanza che il sindacato si dà e la composizione sociale di classe, la struttura materiale della coalizione lavorativa. E c’è un rapporto tra entrambe e le scelte rivendicative del sindacato. Il sindacato dei consigli, che ha le sue radici nel biennio ‘68-’ 69, è una costruzione politica generatasi nel ciclo fordista-taylorista, ma, questo è il punto che vorrei sottolineare, è anche e fortemente, il frutto di una scelta politica, di un’idea della democrazia e della rappresentanza sociale e del conflitto, quella che Baglioni ha chiamato della “partecipazione conflittuale”. La conferma della tesi la si trova nel fatto che l’organizzazione della produzione aveva lo stesso assetto in Italia, Francia, Stati Uniti ma solo in Italia si è prodotta l’esperienza dei consigli e con essa ha preso corpo un ciclo di lotte di quasi un intero decennio, un ciclo di lotte così significativo, sia sul terreno del controllo sociale del processo di lavoro che sul terreno del cambiamento, da configurare quel che è stato chiamato il caso italiano. Oggi ne viviamo il drammatico rovesciamento in una nuova conformazione del capitalismo. La diversità della realtà materiale e soggettiva non potrebbe essere maggiore. Ma c’è una lezione della storia sociale che dovrebbe aiutare ad affrontare l’attuale crisi radicale della rappresentanza e della democrazia sindacale. Essa può essere riassunta in due proposizioni. Senza democrazia e partecipazione i lavoratori vengono deprivati della loro autonomia dall’impresa e dal suo comando (come, più in generale, dal mercato). Quel che viene impedito (o, almeno, ciò che si tende a impedire) è l’emergere dei bisogni delle popolazioni lavorative, la rappresentazione della propria condizione e la loro trasformazione in una politica rivendicativa e contrattuale autonoma. Con il conflitto e la sua legittimazione politica e culturale viene negata la contrattazione che, per esercitarsi, richiede la constatazione, condivisa, dell’esistenza, nell’impresa, di due punti di vista, quello della proprietà e/o della direzione manageriale, da un lato, e dal lavoro esecutivo, dall’altro. Quando Marchionne dice ai sindacati che non c’è nulla da trattare, ma solo prendere o lasciare, rivela questo aspetto fondamentale della questione. Alla sua base c’è la nuova, si fa per dire, idea di una fabbrica intrinsecamente autoritaria. La sua contestazione, pratica e teorica, si lega, perciò, alla lotta per riconquistare, nella nuova condizione e dunque anche con diverse forme concrete, la rappresentazione diretta democratica dei lavoratori e il loro diritto all’esercizio del voto e della partecipazione su tutte le scelte del sindacato. Senza voto, cioè senza consenso, non c’è contratto.
Sergio Cofferati
La mancata soluzione dei problemi della democrazia connessa alla rappresentanza rischia di snaturare il ruolo dei sindacati confederali e di indebolire la loro capacità negoziale. Bisogna attuare la Costituzione e per farlo serve una legge che stabilisca chi rappresenta chi, come viene registrata la rappresentanza e come si validano le soluzioni contrattuali perché siano efficaci. Il principio maggioritario non può essere dato da frasi o da una convenzione tra una parte dei soggetti interessati ma solo dal voto certificato dei lavoratori. Le vicende sindacali degli ultimi anni confermano l’esigenza non più rinviabile di ripensare alla rappresentanza sia quella dei lavoratori sia quella delle imprese che è bene non scordarlo è particolarmente erratica e contraddittoria.
Francesco Garibaldo
Data l’evidente esistenza di diverse e contrastanti strategie sindacali nell’affrontare la crisi del precedente sistema di Relazioni Industriali e l’iniziativa della FIAT, della Confindustria e della Federmeccanica l’unica possibilità non autoritaria, per il sindacato ma anche per il sistema politico istituzionale, è quella di affidarsi a un’autentica democrazia di mandato. I lavoratori e le lavoratrici devono essere muniti di un diritto esigibile all’approvazione delle piattaforme e degli accordi, a tutti i livelli, compresi quelli confederali. La rappresentanza, a livello aziendale, dovrebbe basarsi su organismi eletti direttamente dai lavoratori e dalle lavoratrici, senza liste di organizzazione.
Tiziano Rinaldini
Le considerazioni sviluppate in precedenza ci aiutano a cogliere la straordinaria importanza che viene ad assumere oggi la questione della democrazia sindacale, non solo in quanto problema sindacale, ma anche come problema essenziale nella ricerca delle risposte alla evidente crisi della democrazia in generale.
Allo stato attuale la rappresentanza sindacale è totalmente riferita a logiche di appartenenza o di consenso nei confronti delle organizzazioni sindacali in una relazione con i lavoratori e le lavoratrici in cui l’unica dialettica possibile è costituita dalla concorrenza tra le organizzazioni. L’articolazione della rappresentanza non è quasi più costruita sui luoghi di lavoro rispetto a come è organizzato il lavoro nelle imprese, ma è subordinata alle esigenze di rappresentanza di ciascun sindacato, senza una relazione diretta e vincolante dal basso, a partire dalla concreta relazione tra i lavoratori nel lavoro.
Nel contempo alle controparti è assegnato il potere di scegliere tra le posizioni sindacali sostenute dalle organizzazioni sindacali quelle con cui fare accordi (che ricadono inevitabilmente su tutti i lavoratori, compreso la vincolante struttura formale delle relazioni sindacali) e quelle da respingere ed emarginare senza che i lavoratori possano avere voce in capitolo.
Come è possibile non vedere la gravità del sopruso antidemocratico che si determina e l’inquinamento delle basi di una possibile rappresentanza sindacale democratica? La particolare evidenza del problema di fondo che emerge nel nostro Paese, determinata dalla presenza di un pluralismo di organizzazioni sindacali e dalle loro divisioni, non credo possa essere nascosto dietro a retorici appelli all’unità, né inseguendo regole fondate sul misurare periodicamente le appartenenze ed i consensi ai vari sindacati con forme caricaturali di imitazione delle forme più in crisi della politica istituzionale. La questione che si pone in tutta evidenza è se stabilire regole che, a partire dall’affermazione di diritti inviolabili del cittadino anche sul lavoro, riconoscano ai lavoratori e alle lavoratrici la titolarità della contrattazione collettiva, e cioè degli accordi e delle piattaforme, sancendo da un lato la possibilità dei lavoratori di intervenire decisivamente col voto tanto più in presenza di posizioni diverse, dall’altro un ruolo delle organizzazioni sindacali in grado di avere una relazione con i lavoratori misurata da una dialettica reale, non prevaricante, in un equilibrio che possa sottrarre la rappresentanza alla strumentalizzazione da parte delle controparti e del governo (qualsiasi governo) e nel contempo affermarne la credibilità nelle relazioni sindacali e nei confronti del sistema democratico.
È un passaggio di grande innovazione rispetto ad una tradizione, in cui ha quasi sempre prevalso più una concezione di sostegno alle organizzazioni da cui derivare i diritti dei lavoratori che una concezione per cui i diritti del lavoratore siano la base per l’affermazione dei diritti e del ruolo delle organizzazioni.
Se guardiamo agli stessi anni ‘70 credo che uno dei limiti fu proprio quello di non utilizzare appieno il protagonismo operaio costruendo e affermando regole democratiche vincolanti, anche sul piano legislativo in grado di strutturare in modo duraturo un nuovo equilibrio tra rappresentanza e forme di democrazia diretta e determinare una effettiva possibilità di democrazia di mandato.
Ritengo che questo limite costituisca una delle ragioni della regressione in caduta libera che si è via via prodotta sul piano delle relazioni sindacali, dei diritti e della condizione del lavoro.
Riccardo Terzi
Il referendum di Pomigliano è un esempio di democrazia truccata, dove l’alternativa è tra diritti senza lavoro e lavoro senza diritti. Non sempre i nodi possono essere sciolti da una verifica democratica, perché quando sono in gioco i diritti fondamentali non ha nessuna legittimazione una decisione di maggioranza che porti alla loro negazione. Più in generale, è evidente che tutta la complessità della contrattazione sindacale non può essere affidata solo a meccanismi di tipo referendario, ma richiede un processo più complesso, di confronto, di mediazione, di costruzione delle possibili soluzioni convergenti. La mia opinione è che dovremmo valorizzare di più gli strumenti della democrazia rappresentativa, dando effettivi poteri decisionali alle rappresentanze unitarie nei luoghi di lavoro.
Il problema della democrazia si accentua nel momento in cui si confrontano strategie sindacali tra loro divaricate. È indispensabile trovare un metodo di regolazione delle differenze. Data l’incapacità fin qui dimostrata dalle organizzazioni sindacali di darsi un codice efficace di autoregolazione, diviene indispensabile una legislazione sulla rappresentanza e sulla democrazia, che possa certificare, con regole chiare, la validità degli accordi sottoscritti.
Domanda Per quanto riguarda il piano sindacale, come vedi il problema dell’unità sindacale e quali prospettive pensi abbia la CGIL?
Fausto Bertinotti
L’unità sindacale è un’aspirazione di fondo dei lavoratori che si organizzano, quando matura in essi la consapevolezza del problema cruciale dei rapporti di forza tra la classe o almeno di quelli tra loro e le controparti. L’unità è in primo luogo una risposta al problema di dare efficacia alla propria azione nella contesa industriale, che può crescere e politicizzarsi fino a diventare, in certe condizioni, quelle più favorevoli, un progetto politico. È stato così per il sindacato dei consigli, con l’obiettivo di un sindacato confederale democratico e di classe, autonomo dai padroni, dai governi e dai partiti, soggetto politico originale e unitario. Del resto è evidente che l’unità sindacale è la condizione più disposta all’organizzazione della democrazia sindacale, anche se non sempre la determina o, più semplicemente, la accetta. Il prolungamento, oltre ogni ragionevole accettabilità, della concertazione ha lavorato a fondo sulla natura del sindacato italiano, fino a cambiare, in linea generale, il suo rapporto con i lavoratori: da protagonisti a tutelati (parzialmente e male). La ricerca della legittimazione si è progressivamente spostata dai lavoratori al governo e alle controparti e ha prodotto una crescente istituzionalizzazione del sindacato. Il venir meno della centralità del rapporto sindacato-lavoratori ha fatto emergere il primato dell’organizzazione e non c’è bisogno di aver letto Michels per capire che quello diventa il tempo della burocrazia. La CGIL, in alcuni momenti, per composizione, storia e cultura in essa diffusa ha provato a resistere alla tendenza. La CISL, che ha una indubbia propensione a cavalcare il nuovo, è diventata la locomotiva del processo, insieme sindacato di riferimento nel negoziato e centro promotore del nuovo scambio sia tra impresa e sindacato che tra Stato e sindacato. La politica disastrosa degli accordi separati ne ha inverato i presupposti. La crisi economica e l’assolutizzazione nell’economia del tema della competitività ha fatto precipitare tutto; tutto mettendo in discussione, persino i simulacri della contrattazione. La CGIL ha perso, nell’ultimo suo congresso, l’occasione estrema che le si presentava di avanzare una proposta alternativa di sindacato sulla base della quale farsi protagonista della sfida. Tutto era ormai squadernato davanti al sindacato. Non aver voluto vedere, per rifugiarsi nella tattica e nella speranza, che, chissà perché, qualcosa sarebbe cambiato nei suoi interlocutori, l’ha condannato all’afasia. La FIOM è così stata lasciata sola a contrastare la demolizione del modello contrattuale e di ciò che di esso aveva resistito, come il contratto nazionale di categoria e qualche autonomia contrattuale a livello aziendale, per esempio la negoziazione degli orari. La FIOM ha saputo dimostrare che si può resistere all’onda di piena e, quando anche non ti riesca di vincere oggi, seminare per la ripresa dell’iniziativa dei lavoratori guadagnando intanto la loro fiducia. È già capitato ieri, può ricapitare domani. Non ci sarebbe stata la ripresa dell’unità d’azione degli anni ‘60 e poi il dispiegarsi del tema dell’unità, se alla fine degli anni ‘50 la CGIL non avesse resistito anche alla discriminazione padronale anche da sola e non avesse essa stessa avviato la svolta di una nuova politica sindacale che incontrò, allora, la ricerca, pur diversa, della CISL. Ma c’è, è vero, un subito. Non si tratta di realizzare l’impossibile congiunzione delle sole due strategie sindacali esistenti, quella della CISL e quella della FIOM, ma di far vivere subito la democrazia sindacale e in essa, e con essa solo giudice e arbitro, chi ha più filo tesserà più tela. E chissà che si risveglino altri possibili protagonisti.
Sergio Cofferati
Sono convinto sia in atto un cambiamento profondo del sindacalismo confederale, ho la sensazione che sia poco percepita questa trasformazione e ancor meno consapevolmente gestita. C’è una forte rinuncia alla propria funzione negoziale con l’incremento-dipendenza di quella di erogatore di servizi. Questo spostamento di asse riduce automaticamente l’autonomia delle organizzazioni. Il fenomeno riguarda tutte le confederazioni, anche se incide, per ragioni dimensionali, di più sulla CISL e sulla UIL. Una efficace ripresa di politiche unitarie è possibile a mio parere soltanto se si risolve il problema della democrazia e della rappresentanza e se le confederazioni affronteranno il tema della loro “trasformazione”. Diversamente saranno condannate ad oscillare tra la difesa dei presidi unitari rimasti e la tentazione di riproporre identità che dividono.
Francesco Garibaldo
L’unità sindacale è sempre un obiettivo importante, poiché la rottura dell’unità indebolisce il movimento sindacale. Ciò premesso il punto è stato, è e sarà sempre stabilire l’unità in nome di chi e per che cosa. Il movimento sindacale può perseguire obiettivi generali se il suo potere è autonomo dagli altri poteri poiché deriva dall’adesione attiva e consapevole dei lavoratori e delle lavoratrici; se viceversa esso cerca legittimazione, quindi una fonte di autorevolezza e potere, dagli altri poteri costituiti e, a partire da ciò, cerca un consenso tra coloro che lavorano, allora non può avere che obiettivi di puro adeguamento delle condizioni date e a decisioni prese da altri, altrove in rappresentanza di altri interessi. La seconda opzione trova giustificazione solo se si presuppone non solo che non esista più il conflitto di classe ma neppure una strutturale diversità di interessi tra chi lavora e la proprietà e il management delle imprese. Il che è per l’appunto la posizione di Marchionne e del Ministro del Lavoro; in questa ipotesi allora la coalizione dei lavoratori perde di senso, anzi come dicevano i giudici inglesi dell’800 è un ingiustificato monopolio contrario alle regole della concorrenza, e appare perfettamente giustificata la riduzione del rapporto di lavoro a rapporto individuale e del welfare a servizio individuale privatistico, facendolo uscire dalla sfera dei diritti sociali.
Il carattere ideologico e irrealistico di tali assunzioni è evidente; basti pensare alla crescente denuncia anche da parte di ambienti liberaldemocratici del peso crescente di condizionamento dei poteri economici sulle istituzioni politiche. Ne discende che qualora un’organizzazione sindacale le assumesse a base del suo operare, come sta accadendo in Italia, essa si candiderebbe a un ruolo di disciplinamento dei comportamenti di chi lavora in nome e per conto d’interessi altri.
L’unità sindacale quindi o è basata su un confronto democratico aperto con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici, oppure è, come si vuole fare oggi, il risultato di accordi tra gruppi dirigenti, senza alcun rapporto con chi si pretende di rappresentare. Per la stessa democrazia italiana, anche nella più classica concezione dei contropoteri alla Galbraith non avere un effettivo contropotere, cioè non solo una lobby ma delle opzioni generali sulla società, rispetto allo strapotere delle imprese e delle loro rappresentanze significa immiserire lo spazio effettivo democratico disponibile per tutti. La CGIL ha rifiutato un’analisi di realtà nel suo ultimo congresso perseguendo, oltre ogni ragionevolezza, l’obiettivo di una ricomposizione unitaria del sindacato nel mentre gli altri smantellavano, tappa su tappa, la possibilità stessa di un sindacato generale. Si tratta oggi di prendere atto della realtà e ricostruire nel paese un rapporto di forza, oggi realisticamente realizzabile, che rovesci quell’impostazione, costringendo il quadro complessivo delle forze sociali, delle Istituzioni e delle forze politiche a fare i conti con un altro disegno. Non si tratta di chiudersi in un fortilizio ma, all’opposto di riprendere un’iniziativa generale che consenta di costruire nel paese alleanze con altre forze di opposizione, a livello sociale, culturale e politico; così si ricostruisce una possibilità unitaria per il movimento sindacale. Un’iniziativa generale non può ridursi alla saggezza di “bucare il palloncino” oppure “andare a vedere il bluff”, non a caso tutte espressioni usate nel 1980 a proposito della cassa integrazione, finita come si sa. Il problema è lottare per un diverso sentiero di sviluppo del paese, di cui ormai ci sono infinite tracce ed abbozzi, cui manca un punto di aggregazione, una forza sociale autorevole che le persegua ed unifichi.
Tiziano Rinaldini
Il problema dell’unità sindacale non si presta a vuota retorica. Viene spesso evocato per occultare i termini reali con cui oggi si presenta. La riapertura di relazioni positive tra le organizzazioni sindacali e la riapertura di una prospettiva per l’unità sindacale passa attraverso lo scioglimento del nodo democratico nel senso prima delineato. In assenza di ciò i rapporti resteranno connotati o da accordi separati (e cioè decisi dalle controparti con alcuni sindacati con l’esclusione dei sindacati che non li condividono) o dall’accettazione del ricatto da parte dei sindacati dissenzienti per non correre il rischio di essere esclusi.
Per questo ritengo molto preoccupante il fatto che la CGIL non assuma ciò come la questione centrale delle relazioni sindacali e del problema democratico del nostro paese, con la necessaria radicalità e coerenza in tutte le sue articolazioni.
Ne trovo conferma nella debole risposta all’accordo quadro e agli accordi separati e nella mancanza di chiarezza nel merito delle regole da esigere lasciando quasi intendere che potrebbero bastare regole che ci allontanino ancora di più dal vincolo da affermare della titolarità dei lavoratori e delle lavoratrici nella validazione di accordi e piattaforme e su eventuali diverse posizioni.
È grande in questo la responsabilità di cui è richiamata la CGIL in quanto è la forza maggiormente in grado (forse l’unica in questa fase) di tentare di mettere il tema al centro delle dinamiche sociali e politiche, impedendo che si stabilizzi nella stessa CISL la deriva in atto e contrastando il fatto che la politica continui a considerare le questioni sindacali in una chiave strumentale aggravando l’inquietante crisi della stessa politica.
Lo straordinario coraggio innovativo nel porre il tema e nel muoversi coerentemente da parte in particolare della FIOM tiene aperta la possibilità di uno sviluppo. È paradossale che molti, troppi non colgano che ciò che viene indicato non è un problema di un’organizzazione, ma il problema del rapporto tra i lavoratori e la democrazia senza risolvere il quale il quadro democratico complessivo (non solo quello sindacale) del nostro paese nel mondo attuale è esposto a paurose prospettive.
Riccardo Terzi
La situazione sindacale è molto compromessa e inquietante, ma credo che dobbiamo evitare posizioni che sanciscano in modo irreversibile lo stato attuale di rottura. La realtà sindacale è sempre una realtà mobile, in evoluzione, e non c’è mai una linea divisoria definitiva, ma tutto può essere rimesso in discussione. Il problema attuale mi sembra essere essenzialmente quello dell’autonomia del sindacato rispetto al sistema politico. Il sindacato non è riuscito a tenere la sua posizione di autonomia, il suo essere un soggetto sociale che entra sempre in un rapporto dialettico con la politica, e ha subìto un processo di politicizzazione, con una crescente invadenza delle ragioni della politica nel campo dell’autonomia sociale. La politica bipolarizzata, semplificata nella competizione di due schieramenti contrapposti, tende a bipolarizzare l’intera società civile, a perdere di vista la complessità sociale e l’autonomia dei corpi intermedi, per sistemare il tutto nella logica e nel meccanismo dello scontro bipolare. Un sindacato di governo e un sindacato di opposizione: ci stiamo avvicinando pericolosamente a questo esito disastroso. La scommessa da fare è sull’autonomia. E anche la CGIL deve interrogarsi sulle sue scelte, sui suoi comportamenti, sui criteri di selezione dei suoi gruppi dirigenti. L’autonomia è spesso solo proclamata, ma i processi reali sono guidati da altre logiche, esterne alle ragioni della rappresentanza sociale. L’unità sindacale si potrà rimettere in cammino solo così, per effetto di un processo sociale, e non certo come il risultato di un’operazione politica. La CGIL può dare un contributo, se riesce a sottrarsi al rischio di farsi trascinare sul terreno dell’opposizione politica, e se sta rigorosamente al merito delle questioni sociali che interessano il mondo del lavoro, in tutta la sua complessità. Mi rendo conto che questo confine tra il sociale e il politico è di difficile definizione, che siamo in presenza di una politica che contiene in sé, oggettivamente, una sfida a tutte le ragioni della solidarietà sociale. Penso quindi che i nodi che sono oggi aperti nel rapporto tra le confederazioni non si potranno sciogliere facilmente e a breve termine. Serve la tenacia e la pazienza di un’azione sindacale rigorosa. Ma è comunque importante aver chiara la bussola dell’autonomia del sindacato, contro ogni forma di collateralismo politico.
Busta: 5
Estremi cronologici: 2010, ottobre-dicembre
Autore: Tiziano Rinaldini
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Con bozza
Pubblicazione: “Inchiesta”, ottobre-dicembre 2010, pp. 59-77. Il contributo di Terzi è stato ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Da Romiti a Marchionne: lotta operaia e autonomia del sindacato”, pp. 91-96