IL LAVORO E L’IMPRESA

Conflitto sociale, cooperazione, democrazia

Convegno alla Casa della Cultura di Milano, 23 novembre 1990.
Conclusioni di Riccardo Terzi, Segretario generale della Cgil Lombardia (pp. 87-95)

Il punto di partenza della nostra riflessione e della nostra ricerca è il documento «Per una costituente del lavoro», pubblicato nel luglio del 1990, e sottoscritto insieme da dirigenti sindacali e da esponenti della cultura scientifica, il quale intendeva tracciare i presupposti e le grandi coordinate di una nuova elaborazione politica intorno ai temi dell’impresa e del lavoro.

Con questo incontro alla Casa della cultura, con le relazioni di Michele Salvati, di Giorgio Ghezzi e di Claudio Sabattini, che erano tutti firmatari di quel documento, abbiamo compiuto qualche passo in avanti, abbiamo cominciato ad esplorare più a fondo il tema dell’impresa e della sua possibile democratizzazione. Si è confermata cosi la fertilità di un approccio culturale nuovo, il quale cerca di tematizzare l’impresa fuori dagli opposti luoghi comuni, dagli opposti schematismi ideologici, vedendo l’impresa nelle sue contraddizioni e nel suo movimento, come campo aperto a diverse possibili linee di evoluzione. Rifiutiamo cioè sia l’assunzione di una posizione di totale antagonismo, sia l’accettazione subalterna della cultura d’impresa come unico possibile regolatore dell’intera dinamica sociale.

Si tratta, com’è evidente, di una discussione di grande rilievo politico, e così l’abbiamo fin dall’inizio pensata, non come una riflessione neutra, ma come una parte decisiva dell’elaborazione di una nuova cultura politica della sinistra. Sullo sfondo ci sono dunque le vicende della sinistra, il dibattito congressuale nel PCI e i caratteri che può assumere una nuova formazione politica.

Fino ad ora ci sembra insufficiente l’elaborazione dì un nuovo quadro programmatico. Non sono ancora ben focalizzate le idee-forza su cui si può ricostruire una nuova identità politica della sinistra, e questo ritardo pesa sul prossimo congresso del PCI. La stessa Conferenza programmatica è stata per molti aspetti un’occasione mancata. Rischiano così di prevalere gli ideologismi, le formule retoriche, le parole magiche, in assenza di una definizione rigorosa di un nuovo asse programmatico e strategico.

Penso, ad esempio, alla discussione tutta simbolica che si è aperta intorno al carattere di “antagonismo” che la politica del partito deve riaffermare o superare, discussione che rischia di essere del tutto vana e meramente ideologica se non si mette in chiaro quali sono i terreni concreti dello scontro, quali le forze in campo, quali dunque gli obiettivi specifici di trasformazione che si intende perseguire. Se l’antagonismo è solo una categoria filosofica, si può fare intorno ad essa una discussione interminabile e del tutto inconcludente.

Lo stesso carattere di astrattezza finisce spesso per investire la discussione intorno al «riformismo», nel momento in cui esso si riduce alla proclamazione di un principio ideologico, ovvero all’assunzione simbolica di un elemento di identificazione, senza che sia chiarito in nessun modo di quale programma di riforme si tratti. E il riformismo ridotto a ideologia, slegato da qualsiasi indicazione pragmatica degli obiettivi e dei mezzi per raggiungerli, è l’idea politica più insipida che si possa concepire.

Potremmo continuare, perché il dibattito politico nella sinistra è tuttora dominato dagli elementi simbolici, dal carattere sacrale che questa o quella parola può assumere. Nel travaglio attuale del PCI è del tutto visibile la tendenza a restare prigionieri delle formule, e, se non viene lacerata questa ragnatela di falsi concetti, tutta la discussione politica e teorica resta imbrigliata e non conduce a nessuna effettiva chiarificazione.

Noi ci proponiamo di diradare questa nebbia, e di riportare la discussione e il confronto sul terreno delle alternative reali, delle opzioni programmatiche che sono effettivamente disponibili. Mi sembra che questo atteggiamento sia l’elemento che ci accomuna, pur nella diversità di collocazioni politiche che ciascuno ha liberamente assunto nel dibattito congressuale del PCI.

Nella svolta di cui discute il congresso del PCI c’è un’idea centrale, un concetto-chiave, che si riassume nella formula della “democrazia come via del socialismo”. Ed è coerente con questo essenziale nucleo concettuale la stessa denominazione del nuovo partito, centrata appunto sull’idea della democrazia come idea fondante, da cui può prendere avvio un nuovo corso politico della sinistra.

C’è chi propone, forse con un eccesso di raffinatezza, una locuzione più complessa, parlando di “pratica critica della democrazia”. Non si tratta, mi pare, di un punto di vista radicalmente diverso, ma solo della preoccupazione legittima che l’assunzione della democrazia come nuovo asse teorico non si riduca all’accettazione passiva e acritica degli orizzonti limitati e spesso angusti entro i quali si è fin qui sviluppata la pratica della democrazia. Insomma, nel momento in cui pronunciamo questa parola cosi abusata, pensiamo che essa possa assumere un nuovo significato, e che possa definire un nuovo programma politico.

La novità, rispetto alla storia passata della sinistra, sta nel fatto che non pensiamo ad un modello astratto di società diversa, a un’alternativa di sistema, ma ad un processo di radicale democratizzazione delle strutture di potere, politiche ed economiche, il che caratterizza la sinistra non più in nome di un’alterità ideologica, ma come forza che agisce, nelle condizioni date, per portare a coerenza i principi di democrazia, per commisurare ad essi le strutture della società, per affermare nel modo più radicale possibile i valori di libertà e di eguaglianza sui quali si fondano le società moderne.

Si aprono così una nuova prospettiva e un nuovo campo di ricerca. Noi assumiamo integramente questo punto di vista, ma solo come base di partenza che rinvia ad analisi successive, a elaborazioni più puntuali. Anche la formula della democrazia come via del socialismo rischia infatti di ridursi ad una formula vuota, liturgica, che non produce conoscenze concrete, se viene solo predicata astrattamente. Bisogna allora vedere quali sono i progetti di democratizzazione che intendiamo proporre, e solo a questo punto, solo sulla base di una progettualità concreta, prenderà forma una nuova identità politica della sinistra.

Un grande capitolo, che qui non abbiamo voluto esplorare è quello della riforma del sistema politico. In generale esso tende oggi ad essere affrontato in un’ottica diversa da quella della «democratizzazione», dando priorità alle esigenze di efficienza e di governabilità rispetto a quelle di partecipazione e di controllo democratico. La ricetta «presidenzialista» è il segno più evidente di una tale tendenza, con la quale si vuole semplificare la complessità della vita politica e affidare il processo decisionale ad un ‘autorità forte.

Ma il campo in cui in modo più impegnativo viene messa alla prova l’ipotesi politica della democratizzazione integrale della società è quello relativo alle strutture economiche: è qui che si sono finora arenate le esperienze democratiche, anche le più avanzate. Anche la sinistra è stata incerta e oscillante. Ecco il lavoro da fare: mettere con i piedi per terra il tema della democratizzazione delle strutture politiche ed economiche, il che vale a dire definire un programma politico innovativo che qualifichi l’identità di un partito nuovo della sinistra, un’identità non ideologica, non affidata solo all’enunciazione di valori, ma a progetti concreti di cambiamento, adeguati alla nostra situazione storica, ai rapporti di forza, al tipo di evoluzione che ha avuto la società italiana.

Con la nostra discussione abbiamo tentato, innanzi tutto, di tematizzare politicamente il ruolo dell’impresa, e di superare le opposte posizioni unilaterali che sono state presenti nelle esperienze della sinistra italiana. Da un lato c’è la tradizione di un atteggiamento esclusivamente conflittuale, che riduce la complessità delle relazioni sociali nell’impresa ai soli rapporti di forza e all’antagonismo «di principio» tra capitale e lavoro. Dall’altro lato, la correzione del modello conflittuale ha portato ad un rovesciamento acritico di quella posizione tradizionale, al puro e semplice riconoscimento della funzione essenziale e trainante dell’impresa capitalistica, accettandone senza vaglio critico i valori costitutivi e le logiche di funzionamento.

Un nuovo inquadramento politico del tema dell’impresa presuppone il superamento di questi approcci parziali e unilaterali. E occorre una valutazione della prospettiva storica di questa fine di secolo, dopo il fallimento e il crollo dei tentativi di sostituire l’economia di mercato con meccanismi di regolazione politica. Anche a prescindere dalle degenerazioni autoritarie che tale tentativo ha comportato, è evidente la fragilità intrinseca di un tale modello, che non ha saputo assicurare efficienza e dinamismo sufficiente alla vita economica.

Si chiude un ciclo, e con esso tramontano le illusioni che hanno ispirato un lungo periodo della storia del movimento operaio, Salvati ha posto con nettezza questa esigenza di realismo. Non possiamo oggi che ragionare nell’ambito di un’economia di mercato, la quale si presenta come l’unico possibile orizzonte, almeno per la fase storica che è dato prevedere.

Ora, l’economia di mercato implica l’esistenza di soggetti economici, e quindi di imprese, che siano indipendenti rispetto al sistema politico, implica cioè un meccanismo di regolazione sociale dotato di una sua autonomia rispetto alle decisioni del potere politico. Questa indipendenza si può realizzare in varie forme, nella forma classica dell’impresa capitalistica, in forma cooperativa, o anche con un carattere pubblico, ma in ogni caso, quale che sia il carattere concreto dell’impresa, la sua autonomia come soggetto economico è una condizione essenziale del suo funzionamento.

E ciò è tanto più vero nelle condizioni attuali dell’economia, in cui l’elemento essenziale è la capacità di innovazione e di flessibilità. È in questo contesto appunto che è crollata l’economia pianificata, capace forse di assicurare ritmi quantitativi di sviluppo, ma non di competere sul terreno della qualità. E anche l’impresa pubblica nei paesi capitalistici mostra segni vistosi di sclerosi, per cui anche la necessaria difesa del settore pubblico passa attraverso un processo di ridefinizione della sua funzione del rapporto tra responsabilità manageriale e controllo politico, così da garantire le condizioni minime indispensabili di efficienza e di competitività sul mercato.

Ma questo è soltanto un lato del problema. L’altro lato è la complessità sociale dell’impresa, l’esistenza al suo interno di diversi soggetti, che sono portatori di esigenze diverse. Se il modello conflittuale non è più oggi adeguato a interpretare l’evoluzione dei rapporti economici e sociali, ciò non significa affatto che siano venute meno le ragioni del conflitto sociale, che non esistano interessi diversi, collocazioni di classe diverse. L’impresa è il luogo in cui si definiscono rapporti sociali e di potere, che possono dar luogo a diversi equilibri; non vi è dunque nessuna oggettività precostituita, nessun modello intrinsecamente necessario, ma un ventaglio di soluzioni possibili, un campo aperto sul quale si giocano i rapporti di forza e di potere tra i diversi soggetti. Parlare dell’impresa e del suo ruolo significa parlare di questa pluralità di soggetti e di interessi. Solo cosi sfuggiamo ad una concezione subalterna e apologetica.

Rifiutiamo quindi la tesi dell’unicità di comando nell’impresa, con la quale una certa cultura imprenditoriale (Romiti ne è il teorico più conseguente e più brutale) intende negare alla radice la legittimità di una presenza sindacale autonoma, di un’espressione autonoma del mondo del lavoro, in quanto valgono solo le esigenze di profitto e di efficienza, alle quali ogni altra esigenza deve es· sere sacrificata. Rifiutiamo una tale concezione tecnocratica, non solo per ragioni etiche, non solo perché non ci possiamo adattare a considerare il lavoro (e il lavoratore) come un fattore del tutto dipendente dalle variabili esterne, ma anche e soprattutto perché l’analisi dei processi reali che investono le moderne imprese capitalistiche dimostrano il ruolo essenziale del fattore lavoro e il fallimento dell’illusione tecnocratica, come ha spiegato con grande chiarezza la relazione di Claudio Sabattini.

È una discussione aperta nella stessa cultura imprenditoriale. L’innovazione tecnologica e le esigenze di qualità non sono più compatibili col vecchio modello autoritario e gerarchico, perché richiedono un grado più elevato di partecipazione consapevole dei lavoratori, e si apre così un terreno nuovo per una possibile riforma democratica dell’impresa, che riconosca al fattore lavoro un ruolo nelle decisioni, e definisca quindi strumenti e istituti di codecisione. È una prospettiva possibile, ma certo non scontata, non spontanea, che può risultare solo da un processo di lotta, di iniziativa politica.

Se queste sono le premesse (l’autonomia dell’impresa, da un lato, e dall’altro la valorizzazione del lavoro nell’ambito dell’impresa), ne discendono alcune precise conseguenze per quanto riguarda l’iniziativa del sindacato. L’obiettivo non può essere una confusa sovrapposizione dei ruoli, una sorta di consociativismo in campo economico che può essere anche più disastroso che non nel campo politico, ma deve restare chiara la distinzione delle funzioni, l’autonomia dei diversi ruoli. In questa linea, d’altra parte, sì sono mosse le esperienze più originali e innovative -come ad esempio quella sancita nel protocollo Iri -, le quali appunto riconoscono pienamente l’autonomia della funzione imprenditoriale, e definiscono strumenti e procedure per un confronto preventivo tra le parti sulle scelte strategiche, sull’organizzazione del lavoro, sui processi di innovazione e di ristrutturazione.

Non si tratta di una commistione di ruoli, dunque, ma di un metodo di confronto, nell’autonomia delle parti, per individuare il terreno di una possibile mediazione e di una possibile convergenza, per un governo consensuale dei processi. Questo richiede la definizione di modelli contrattuali, di strumenti e di procedure. Ancora non abbiamo un progetto compiuto, ma solo alcune premesse politiche, e alcune parzialissime esperienze. Dovremo quindi lavorare per mettere in campo una proposta precisa, con il concorso di tutte le diverse competenze, di dirigenti sindacati, di economisti, di giuristi, in modo da affrontare il problema della democrazia di impresa in tutta la sua complessità.

Occorre infatti vedere bene quali sono le pre-condizioni per una riforma democratica dell’impresa, per una nuova esperienza di democrazia industriale. La prima pre-condizione è che si affronti e si risolva il problema della democrazia sindacale e della rappresentanza. Davvero non è pensabile che i lavoratori possano essere soggetti attivi, protagonisti nella vita dell’impresa, se ad essi non sono garantiti i diritti democratici più elementari, se non sono in grado di eleggere liberamente i loro rappresentanti nei luoghi di lavoro. Non è credibile una proposta di democratizzazione della vita economica se non siamo coerenti con noi stessi, se cioè in primo luogo l’organizzazione del sindacato non viene investita da un processo democratico autentico.

Si tratta di superare la crisi che ha investito i consigli di fabbrica con la definizione di nuove regole, tali da garantire una rappresentanza democratica, costruita secondo criteri di proporzionalità, riconoscendo il pluralismo sindacale e verificando la rappresentatività effettiva delle diverse organizzazioni. In questa direzione si può lavorare sia con un accordo con le confederazioni, sia con un intervento legislativo, il quale è comunque essenziale per dare certezza ai diritti democratici dei lavoratori. Sono due strade parallele, complementari, in quanto non ci potrà essere nessun intervento legislativo senza una base di accordo tra le confederazioni, e a sua volta, questo accordo può essere rafforzato e garantito da una legge sulla rappresentanza.

Possiamo partire dai progetti di legge di Ghezzi e di Giugni e avviare un lavoro politico per una proposta unificata, sulla quale si realizzi l’impegno dei partiti della sinistra. Sarebbe questo un fatto rilevante, che può accelerare nel Parlamento l’iter legislativo per approdare ad una decisione.

La seconda pre-condizione è la definizione di un modello contrattuale avanzato e moderno, che riconosca pienamente il ruolo del sindacato e che assuma come baricentro il livello d’impresa e quello territoriale per le piccole aziende, in modo che la contrattazione si possa adattare all’estrema varietà delle situazioni e possa intervenire nella concretezza dei processi di ristrutturazione e di innovazione.

Dobbiamo quindi vedere nelle loro correlazioni questi diversi aspetti: democrazia sindacale, modello contrattuale, istituti della democrazia industriale. Solo così possiamo costruire una proposta che non sia la definizione di un modello astratto, ma che sia ancorata nella realtà, nella concretezza delle relazioni sociali e sindacali, e che consenta di allargare gli spazi reali di partecipazione e di democrazia per i lavoratori.

Lungo questa linea ci poniamo il problema di una riforma democratica dell’impresa, respingendo in primo luogo l’idea che l’impresa sia una struttura intrinsecamente autoritaria, non riformabile, non disponibile per nessun progetto di democratizzazione, e che pertanto il problema della democrazia lo si possa affrontare solo al di fuori dell’impresa. È la tesi che nega il concetto di democrazia industriale, e sostituisce ad esso una più generica idea di democrazia economica. Ma se non si interviene nella vita dell’impresa, tutto il resto è fumo, è velleità, o è il ritorno ad una vecchia concezione di governo «politico» che si sostituisce all’autonomia dell’impresa.

Abbiamo già accennato al tema del rapporto tra Stato e impresa. Potremmo a questo punto aprire un nuovo e più complesso capitolo, quello del funzionamento dello Stato e della pubblica amministrazione, e degli strumenti per un governo democratico dell’economia. È una discussione da fare, affrontando in modo nuovo tutto il tema della riforma istituzionale, che finora è stato limitato al funzionamento delle assemblee elettive, ai meccanismi elettorali, al rapporto tra Parlamento e governo, trascurando completamente i problemi più strutturali della costituzione materiale dello Stato, del modo di essere della pubblica amministrazione, del rapporto tra politica ed economia.

Forse il sindacato potrebbe in questo senso, dare un contributo, e qualificarsi con un suo approccio ai problemi istituzionali che corregga i limiti di «politicismo» o di «ingegneria istituzionale» finora prevalenti. È un capitolo che non abbiamo ancora esplorato, e può essere il completamento delle riflessioni che abbiamo fin qui prodotto.

D’altra parte, siamo ben consapevoli di avere solo iniziato un lavoro, di avere ancora molti punti oscuri, molti interrogativi non risolti. Abbiamo solo cominciato e per questo pensiamo che debba essere organizzato in modo permanente un lavoro collettivo di riflessione e di elaborazione, che possa avere un peso nella vita della sinistra e nell’esperienza del movimento sindacale.

 


Numero progressivo: V40
Busta: 49
Estremi cronologici: 1991
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Volume b/n, 101 pp.
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: Ediesse, Roma, 1991