[IL SISTEMA FIAT]
Torino 22-23 giugno 1990
Intervento di Riccardo Terzi decontestualizzato in cui si discute del processo sociale e politico che ha attraversato gli anni 80 partendo dalla sconfitta del sindacato alla Fiat nel 1980, del nuovo partito nato dal PCI, della svolta degli anni 90
Considero di grande rilevanza politica il fatto che, nel calendario del processo costituente, si sia scelto come primo impegnativo appuntamento questa di oggi sul sistema Fiat.
Dato che nella politica anche gli atti simbolici hanno un loro preciso valore, mi sento autorizzato a pensare che questa scelta voglia essere, esplicitamente, l’indicazione di una traiettoria politica per tutto il nostro lavoro.
È essenziale, infatti, nel processo di formazione di una nuova prospettiva politica, decidere con chiarezza quali sono per noi gli elementi costitutivi e fondanti.
Se partiamo dalla Fiat, partiamo dal lavoro, e tentiamo una lettura della politica dal punto di vista della storia delle classi. Scegliamo il lavoro come elemento fondante della nuova formazione politica, e pensiamo quindi tutto il necessario processo di rinnovamento teorico come un processo che ha come suo soggetto primario il movimento operaio, la classe lavoratrice.
Se è chiaro ed esplicito questo punto di partenza, io credo che allora possiamo impegnarci nella ricerca più spregiudicata di una nuova identità, senza smarrire le nostre radici e senza rischiare una dissoluzione della nostra forza.
Questo significa, a mio avviso, costituente di massa non solo l’ovvia e banale esigenza di coinvolgere il maggior numero possibile di forze, ma una scelta di campo, l’indicazione di un baricentro politico, la convinzione insomma che l’idea di sinistra non abbia a che fare solo con principi etici, con valori astratti, la con la materialità dei rapporti sociali e con la prospettiva di una loro pratica trasformazione.
La discussione di oggi presuppone l’analisi del processo sociale e politico degli anni ‘80 iniziato proprio alla Fiat con la sconfitta della lotta dei 40 giorni.
Questo processo, che è stato giustamente definito di modernizzazione neoliberista, ha messo in campo un nuovo protagonismo politico della grande impresa capitalistica, che agisce a tutto campo con un proprio progetto di egemonia che investe non solo il campo delle attività economiche, ma gli assetti territoriali, l’organizzazione del sapere, le forme della politica e anche gli stili di vita e le relazioni tra le persone.
Si è così spostato in profondità l’equilibrio dei poteri e diviene precario il compromesso di tipo keynesiano tra stato e mercato, si restringono gli spazi della regolazione politica, tende così a cambiare la natura stessa dell’intervento politico, che sempre più si configura come supporto dell’iniziativa privata.
Insisto su questi punti di analisi, perché mi sembra che tutta la discussione nella sinistra ruoti attorno a questo centro e che le divisioni politiche riflettano diverse letture dal processo reale.
Le teorie della governabilità, infatti, presuppongono una valutazione di segno opposto rispetto a quella che ho prima tratteggiata perché contrappongono la vitalità e il dinamismo progressivo della società civile al ritardo e alle disfunzioni del sistema politico.
Il problema è solo quello di mettere la politica al passo con l’evoluzione spontanea della società Il problema non è la democratizzazione del sistema sociale e politico, ma solo la sua efficienza.
Nel rapporto col PSI, di questo si tratta, non di antiche incrostazioni ideologiche o di reciproci settarismi dai quali si possa sgombrare il campo con un atto di volontà e di razionalità politica.
Ma la medesima critica può essere rivolta a quelle posizioni, anche se di segno anticraxiano, che indicano nel dominio della partitocrazia il problema del nostro tempo.
Si scambia la causa con l’effetto. Non si vede cioè come la degenerazione del sistema politico sia il frutto avvelenato di un processo sociale che ha dato vita ad un dominio oligarchico dei grandi gruppi economici.
Il decisionismo e il protagonismo personale dei capi politici è solo una maschera perché il loro potere è solo un potere di mediazione.
C’è sì invadenza della politica, in campi che dovrebbero essere regolati in modo autonomo, ma c’è anche essenzialmente, impotenza della politica, riduzione della politica a tecnica, a sottosistema che obbedisce alle regole oggettive del mercato: il “mercato politico”, appunto, come si usa ormai dire, cogliendo la sostanza di un processo di generale mercificazione.
Ecco perché e vengo così alla conclusione di questo lungo preambolo ¬ ecco perché la questione Fiat sta al centro di una discussione di strategia politica, perché è nella grande impresa il cuore dell’organizzazione sociale e della stessa vita politica.
Si tratta naturalmente di non accondiscendere a visioni troppo semplificate, economicistiche, e di cogliere tutta la complessa articolazione del sistema di potere.
E soprattutto è importante vedere la dinamica e le interne contraddizioni del processo in atto. L’impresa capitalistica nella sua forma classica, con la sua struttura gerarchico autoritaria e con i suoi meccanismi di decisione fortemente centralizzati e burocratizzati, sta entrando, ormai da tempo, in una fase di crisi, di incertezza, di necessario trapasso verso nuovi modelli organizzativi. Ed è indicativo che proprio la Fiat, che ha rappresentato nel modo più rigoroso e coerente il modello autoritario, sia spinta oggi a interrogarsi criticamente sul proprio futuro.
Qui sta l’interesse del discorso di Romiti, come segno di una contraddizione, di un punto di crisi, di uno stato di impasse, che può preludere a nuovi scenari. Sarebbe sciocco farsi delle illusioni. E in molti commenti giornalistici e anche sindacali c’è un’incomprensione del processo reale, come se fossimo già in presenza di una svolta sostanziale. No, la Fiat sta ancora tutta dentro la sua cultura tradizionale, e cerca ancora di risolvere le sue contraddizioni nell’ambito del modello autoritario.
Il discorso sulla qualità si rivolge ai quadri alti della gerarchia aziendale e cerca di ridare loro una motivazione, uno stimolo di carattere politico, promettendo un più largo decentramento delle responsabilità e una valorizzazione delle capacità professionali in cambio di una identificazione ideologica con gli obiettivi dell’impresa.
Ma per la massa dei lavoratori esecutivi, operai e impiegati, continua il vecchio regime. Non c’è molto di nuovo, dunque, nella realtà concreta delle condizioni di lavoro.
E tuttavia la novità è rilevante sotto il profilo politico, perché dal trionfalismo arrogante degli anni passati il gruppo dirigente della Fiat è passato ad un linguaggio del tutto nuovo, in cui è visibile l’allarma per le sorti dell’impresa, in cui appare per la prima volta la consapevolezza di un pericolo di declino, di burocratizzazione, e il timore di essere in ritardo, di non saper sfruttare tutte le potenzialità della rivoluzione tecnologica. È la conferma di analisi che più volte abbiano fatto e che spesso venivano ridicolizzati come astrattezze velleitarie.
Si conferma cioè l’esistenza di una contraddizione oggettiva, strutturale, tra il processo di innovazione tecnologica, che reclama relazioni sociali più aperte e richiede un lavoro creativo, autonomo, consapevole, e il mantenimento di un’organizzazione del lavoro basata sulla trasmissione del comando dall’alto verso il basso, sulla parcellizzazione tayloristica del lavoro, sull’emarginazione del lavoro umano ridotto ad essere un’appendice della macchina.
Ancora una volta, dunque, fallisce l’illusione tecnocratica, perché essa prescinde dall’analisi dei rapporti sociali. Possiamo così darci una linea politica che parte dal lavoro perché esso è il luogo in cui si riassumono le contraddizioni fondamentali della società.
E oggi gli obiettivi di liberazione e di umanizzazione del lavoro non sono utopie, ma sono il terreno di un’azione pratica immediata: per la democrazia d’impresa, per il controllo sociale sul lavoro, per l’autoregolazione del processo produttivo.
Mi sembra a questo punto necessario chiarire bene tra di noi in quale prospettiva collochiamo tutta la problematica della democrazia economica e industriale.
Essa non può essere, a mio avviso, che il punto d’approdo di un processo reale di trasformazione del lavoro.
È la conquista, possibile ma ardua, di un conflitto sociale. Essa richiede quindi, proprio perché è il risultato di un processo democratico reale che coinvolge direttamente i lavoratori, alcune condiziono di partenza, in assenza delle quali la discussione resta ferma ad uno stadio di totale astrattezza. Queste condizioni pregiudiziali sono l’esistenza di un meccanismo certo e garantito di democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro e un sistema avanzato e innovativo di relazioni industriali.
Oggi, come è noto, queste condizioni non ci sono. Pongo come primo problema quello della rappresentanza, perché sta qui il primo anello necessario di un processo di responsabilizzazione e di partecipazione dei lavoratori.
Se ai lavoratori non è neppure garantita la possibilità di scegliere liberamente i loro rappresentanti, di affidare loro il potere di contrattazione e di verificarne il mandato, questa loro condizione di impotenza non può che vanificare ogni progetto di democrazia industriale.
In secondo luogo, è necessario che nelle relazioni sindacali si affermino con chiarezza nuovi poteri di contrattazione decentrata, nei luoghi di lavoro, e che tra le parti sociali si definiscano procedure di confronto preventivo su tutte le scelte dell’impresa, e non solo a posteriori sugli effetti che esse hanno sulla condizione di lavoro.
Ed è proprio intorno a questo nodo politico che si è aperto un conflitto di grande asprezza, perché le organizzazioni imprenditoriali si propongono esplicitamente di ridimensionare e vanificare la contrattazione articolata, di centralizzare le relazioni sindacali, e d’altra parte tendono a ribadire come un dogma il principio dell’unicità di comando nell’impresa, escludendo in via di principio che le scelte tecnologiche e organizzative possano essere materia di contrattazione.
Lo scontro attuale sui contratti dell’industria ha come suo oggetto, innanzi tutto, l’equilibrio dei poteri, ha quindi un evidente significato politico. E dimostra come la Confindustria, al di là delle dichiarazioni di circostanza e delle offensive propagandistiche a buon mercato, si sia attestata sulla trincea più arretrata.
In tutti questi anni il sistema delle relazioni industriali ha subito un arretramento, e anche gli accordi più innovativi, come quello siglato nel protocollo IRI, sono stati lasciati deperire anche in parte per l’inerzia e per il conservatorismo degli apparati sindacali. Bisogna dunque ripartire da qui, dalle esperienze sindacali più avanzate, dal patrimonio, diseguale, contradditorio, ma complessivamente ricco, della contrattazione aziendale, per spostare in avanti il conflitto, per affrontare i problemi di gestione dell’impresa nei suoi aspetti tecnici e sociali, il che comporta per il movimento sindacale un impegnativo salto di cultura politica, nel duplice senso di una capacità di conoscere e padroneggiare i problemi dell’impresa moderna, e di una disponibilità a ricercare momenti non effimeri di convergenza e di governo consensuale, nella convinzione che l’aumento di potere del sindacato procede insieme ad un aumento di responsabilità.
È evidente infatti che in un’ottica conflittuale pura, che riduce i rapporti tra le parti ai soli rapporti di forza, non vi può essere nessuna sostanziale evoluzione delle relazioni sindacali.
Non vi sono dunque pregiudiziali ideologiche, e tutte le diverse ipotesi sugli strumenti e sugli istituti della democrazia d’impresa possono essere prese in considerazione a condizione che si tratti, appunto, di un processo reale di democratizzazione, che allarga gli spazi di intervento e di controllo per i lavoratori, e che incide concretamente sulla loro collocazione nel processo produttivo.
La crisi dell’impresa fordista, e il rilievo strategico che assume il fattore umano per conseguire livelli adeguati di qualità, aprono un nuovo terreno di iniziativa e di lotta, e danno concretezza a tutta la battaglia, sindacale e politica, per nuove regole democratiche nel funzionamento dell’impresa e per l’allargamento dei diritti, individuali e collettivi dei lavoratori.
Per realizzare questa linea, non dobbiamo abbassare la guardia. Dobbiamo sfruttare tutti gli spazi, e dare continuità’ alla battaglia per i diritti, che ha rappresentato un primo momento significativo di delegittimazione del modello Fiat, di denuncia pubblica dei suoi aspetti autoritari.
Se oggi c’è qualche segno parziale di novità nei discorsi di Romiti, e anche per l’efficacia della battaglia politica che, a partire dal caso del compagno Molinaro, ha messo a nudo una più generale e sistematica violazione dei diritti democratici dei lavoratori.
C’è oggi in campo un nuovo potenziale di lotta, e una nuova generazione operaia che potrà essere protagonista di una nuova stagione sindacale. E c’è un nuovo clima unitario che ci può consentire di porre, come problema attuale, l’obiettivo di una nuova unità del movimento sindacale.
A questo obiettivo dobbiamo dedicarci con impegno e con determinazione. Gli sviluppi che vogliamo determinare nella situazione politica con l’iniziativa del Partito possono anche accelerare il confronto unitario tra le organizzazioni sindacali.
Nel momento in cui tutta la situazione è in movimento, dobbiamo ragionare con una visione più larga, e superare ristrette logiche di organizzazione.
L’unità richiede oggi un progetto politico consapevole dei gruppi dirigenti, e il cuore di tale progetto sta appunto nelle questioni che qui stiano discutendo: quale sistema di relazioni nell’impresa, quale modello contrattuale, quali strumenti per la democrazia sindacale e per la democrazia economica. Occorre un’esplorazione concreta di tali questioni, senza pregiudizi e senza sospetti reciproci, e mantenendo il confronto su un terreno rigorosamente sindacale.
Se cominciamo a discutere così, guardando in avanti, alle grandi sfide del nostra tempo, e sentendo i limiti e i rischi di una competizione burocratica in cui ciascuno pensa solo alla propria bottega, io credo che alcuni decisivi passi in avanti potranno essere compiuti.
Ciò che occorre è un attento spirito critico, che vede gli elementi di crisi dell’esperienza sindacale, e insieme le nuove potenzialità’ sulle quali possiamo scommettere per il futuro.
Crisi e potenzialità, che riflettono il carattere contradditorio del processo sociale in atto, i diversi possibili sbocchi della rivoluzione tecnologica. Nel sistema Fiat entrambi questi aspetti sono visibili: le sconfitte degli anni 80, le nuove forme di dominio autoritario, il rischio di un’emarginazione del movimento sindacale. E, insieme, la possibilità di ricostruire una nuova strategia di lotta che coglie le contraddizioni e le nuove possibilità dinamiche del sistema d’impresa, la possibilità di uscire dalla difensiva e di giocare le nostre carte nella sfida per un nuovo modello democratico e un muovo equilibrio dei poteri nell’impresa.
Già è aperta una discussione, e una lotta politica, nel fronte imprenditoriale. Non parliamo quindi di questioni astratte o irreali. C’è spazio reale per un progetto che rimetta in campo la classe lavoratrice come soggetti politico.
In ogni caso a me pare che il destino della sinistra dipenda essenzialmente dalla possibilità di realizzare un tale progetto.
E che il nuovo partito della sinistra ha un senso e ha un ruolo da svolgere se è concepito e costruito in questa prospettiva, se non è la linea di ripiegamento dove trova rifugio una classe operaia sconfitta e travolta dalla modernizzazione, ma è all’opposto una trincea più avanzata che agisce nel cuore della struttura di potere e che affronta con coraggio le sfide più impegnative del nostro tempo. In questo senso, cominciare con la Fiat è un buon inizio.
Busta: 1
Estremi cronologici: 1990, 23 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -