DEMOCRAZIA ECONOMICA E INDUSTRIALE: LA RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE E DEL SALARIO

Integrazione europea - Convegno CGIL, Roma 11-12 febbraio 1991

Intervento di Riccardo Terzi

Nel suo intervento Biagio De Giovanni ha messo l’accento sul processo di costruzione della nuova Europa e sul fatto che questo processo, attualmente, è guidato da altre forze, da altre culture dominanti del processo di integrazione europea. Vi è cioè una difficoltà e un ritardo serio delle forze della sinistra, sia politica sia sindacale.

Di qui l’esigenza, da assumere pienamente, di fare propria la dimensione europea come orizzonte strategico per il movimento sindacale, naturalmente avendo una concezione aperta, non autosufficiente, dell’Europa. L’Europa si definisce nel suo rapporto con il mondo, e quindi va evitata qualunque concezione puramente retorica della nostra appartenenza ad essa.

D’altra parte, dopo il 1989 è in atto uno sconvolgente processo di rideterminazione degli equilibri politici in Europa. Si tratta di ridefinire tutta l’architettura politica dell’Europa, e molti interrogativi sono aperti sulla natura, gli obiettivi e i fini di questo processo. Abbiamo salutato tutti la caduta dei regimi dell’Est, ma resta tuttavia forte incertezza sulla possibilità di esiti politici e sociali diversi.

Si pone, quindi, per la sinistra, sia all’Est che all’Ovest, un problema comune, un obiettivo di democratizzazione della società e dell’economia; assumiamo perciò la democrazia economica come nostro asse strategico. Credo che, per affrontare concretamente il problema della democrazia economica e della democrazia industriale, sia necessario anzitutto fare un’analisi precisa dei mutamenti oggettivi che sono intervenuti nella realtà, e cioè di come sono cambiate o stanno cambiando le strutture del potere politico ed economico, di quali sono oggi i luoghi della decisione e quindi gli elementi strategici nell’organizzazione del potere.

In primo luogo un dato risulta evidente: il processo di internazionalizzazione dell’economia e delle strategie di impresa, destinato a crescere nel prossimo futuro; di fronte a questo processo è evidente che le politiche nazionali e la difesa delle particolarità non bastano più e ci mettono fuori strada. Più volte abbiamo rivendicato orgogliosamente l’anomalia italiana: questo significa, a mio parere, stare fermi, nel senso stretto del termine, cioè non interagire con i processi.

Detto questo, credo che sull’analisi dei processi economici e della struttura dell’impresa ci sia bisogno di una discussione più ravvicinata. Non credo che il problema sia soltanto quello di mutare il nostro atteggiamento soggettivo e culturale nei confronti dell’impresa, come mi è capitato di sentir affermare, quasi il problema fosse soltanto nostro. Il ritardo, l’arretratezza culturale, la necessità di passare dalla cultura dell’antagonismo alla cultura partecipativa: ebbene non credo che sia questo il cuore del problema. Infatti se ci limitassimo a fare, come movimento sindacale, una sorta di rivoluzione culturale finiremmo per avere una visione un po’ edulcorata della realtà, in cui viene meno la materialità dei processi, e alla fine tutto sfumerebbe nel generico auspicare un clima collaborativo nelle relazioni sociali.

Il punto è che la vecchia cultura sindacale è spiazzata dai processi oggettivi perché non incrocia più le sedi reali della decisione. Il sindacato è forte nei punti che rivestono un rilievo strategico sempre minore, debole nei settori più significativi; il processo di cambiamento oggettivo che sta avvenendo nel sistema delle imprese procede sostanzialmente in due direzioni: da un lato va dalla dimensione nazionale a quella internazionale; dall’altro va dall’impresa come singola realtà produttiva, dal modello della grande fabbrica di tipo fordista, alla cosiddetta impresa a rete, che consiste nell’organizzazione di un tessuto sociale complesso che prevede forme di decentramento della produzione, con un’interrelazione che diventa decisiva tra produzione e strutture di servizio, e con aspetti quindi molto rilevanti di carattere politico.

Direi allora che esiste un deficit di elaborazione, di iniziativa e di peso sindacale sia verso l’alto, perché non riusciamo ancora ad avere una dimensione internazionale adeguata; sia verso il basso, perché siamo ancora fermi nelle vecchie roccaforti e non abbiamo costruito una rete sociale del sindacato. Partendo da questa analisi molto sommaria, quando parliamo di riforma democratica dell’impresa, occorre fare qualche precisazione concettuale. Si usa molto l’espressione “cultura partecipativa”: dobbiamo chiarire il significato concreto di questa formula. Senza lasciarci influenzare da modelli giapponesi, dovremmo innanzitutto prevedere forme di partecipazione alle decisioni; si tratterà poi di chiarire con quali strumenti e in quali campi. Non credo infatti che, almeno per ora, sia possibile auspicare una partecipazione a tutte le decisioni dell’impresa.

Occorre, quindi, stabilire qual è il processo che possiamo avviare, quali sono le forme possibili di sperimentazione, anche molto limitate, in alcuni campi concreti, nel riconoscimento della pluralità dei soggetti che agiscono nell’impresa e dei loro interessi che sono sì differenziati ma anche mediabili, e perciò, anziché provocare un conflitto irrisolvibile, totale, distruttivo, possono invece stimolare la ricerca di una convergenza che consenta un governo democratico nella vita dell’impresa.

È importante, inoltre, che questi ragionamenti, che non sono nuovi, trovino oggi un terreno possibile di avanzamento. Non si tratta soltanto di pie illusioni, perché esiste una contraddizione reale nella realtà delle imprese tra le esigenze di comando e quelle di consenso: pensiamo alle vicende della qualità totale e alla riflessione critica e autocritica che ha investito perfino la Fiat, almeno sul piano teorico.

In questa contraddizione c’è spazio per un’iniziativa sindacale. È infatti fallita l’illusione tecnocratica che affidava soltanto allo sviluppo tecnologico il processo di innovazione. Diventa perciò sempre più evidente l’importanza della partecipazione consapevole dei lavoratori. Su questa base, si pongono per noi problemi anche più concreti di carattere sindacale. Si apre la ricerca di un nuovo modello contrattuale che sia coerente con le nostre analisi, su cui naturalmente occorre confrontarsi ancora, poiché può darsi che ci siano opinioni del tutto diverse da quella che io ho espresso.

Comunque, per quanto riguarda la costruzione di un nuovo modello contrattuale, è stata ribadita la necessità di definire un nuovo baricentro della contrattazione a livello decentrato.

Condivido pienamente questa ispirazione di partenza, per passare da una contrattazione centrata sul contratto nazionale a una contrattazione il più possibile decentrata. Questo, però, può verificarsi solo a condizione di riuscire davvero a conquistare in modo certo e garantito un livello territoriale di contrattazione che ci consenta di rappresentare gli interessi diffusi dei lavoratori in tutta l’area delle piccole e medie imprese.

Se questo non accadrà, e non ci sarà uno spostamento vero del baricentro, saranno possibili soltanto dei correttivi parziali che, se la contrattazione decentrata riguarderà soltanto le vecchie roccaforti delle grandi imprese, non cambieranno la sostanza delle cose, e cioè il sindacato non riuscirà a raggiungere quella capacità di organizzazione sociale nel territorio in una realtà economica con caratteristiche di economia diffusa. Se il nostro modello parte da questa premessa, dobbiamo pensare a un contratto nazionale cornice, che rinvii parti decisive alla contrattazione decentrata; credo che abbia più senso pensare a un contratto dell’industria che, proprio perché è così ampio, non può che essere cornice, che non a contratti di settore. Se si dovesse fare il contratto di settore, per esempio per le auto, non credo che poi ci sarebbe molta contrattazione decentrata nei singoli stabilimenti.

Solo due parole, infine, sui problemi che stiamo cominciando ad affrontare in vista del Congresso della CGIL; Amoretti ci ha messo in guardia dall’uso un po’ ridondante e retorico che facciamo di certe formule. Il sindacato generale, il sindacato soggetto politico, spesso non soltanto un paravento che nasconde il permanere di pratiche corporative, burocratiche e perfino autoritarie dei gruppi dirigenti. Anch’io sono per un uso molto parsimonioso di formule di questo tipo, che spesso mantengono delle ambiguità. Soprattutto quando parliamo del sindacato soggetto politico, deve essere chiaro a cosa ci riferiamo.

Il punto chiave, su cui ci dobbiamo confrontare al Congresso della CGIL, è la conquista piena dell’autonomia sindacale nella sua dimensione sociale che poi pesa politicamente, ma soltanto in quanto svolge fino in fondo la propria funzione di rappresentanza.

È scontato? Sì, sul piano concettuale lo è. Credo che nessuno tra di noi metterebbe in discussione il principio dell’autonomia del sindacato; tuttavia non è ovvio nella realtà dei processi politici. Siamo oggi in presenza di mutamenti rilevanti nella realtà politica italiana, in particolare nella sinistra, e questi mutamenti da una parte aprono nuove possibilità, nuove occasioni, e ci consentono di fare un passo in avanti vero nella direzione dell’autonomia del sindacato, dall’altra generano nuovi rischi.

Da più parti si tenta di usare il sindacato per fini politici esterni, di farne un laboratorio politico per operazioni che sono altra cosa rispetto ai suoi fini. Credo, quindi, che il nostro non sarà un Congresso facile, perché sarà esposto a molti tentativi di condizionamento. Dovremo perciò tenere ben fermo il principio dell’autonomia del sindacato, evitando le formule astratte, ragionando sui compiti concreti. Il sindacato deve misurare i suoi risultati dal punto di vista della qualità, della condizione di lavoro, e in questo senso anche tutti gli aspetti di democrazia economica e di democrazia industriale vanno misurati con questo metro, come diceva bene Patriarca. Vediamo quali sono i fini sociali che vogliamo raggiungere e non preoccupiamoci soltanto dell’architettura partecipativa. Il nostro obiettivo deve essere un cambiamento della condizione di lavoro e un’effettiva partecipazione dei lavoratori alle scelte che riguardano il loro lavoro e la loro vita.



Numero progressivo: A21
Busta: 1
Estremi cronologici: 1991, 11 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: Nuova Rassegna Sindacale, n. 10, 18 marzo 1991