LA CULTURA DELL’EGOISMO

Vecchie e nuove tendenze dal Msi al Polo delle libertà

Tavola rotonda con Riccardo Terzi, Franco Bassanini, Aldo Bonomi e Pier Paolo Poggio intitolata

Giustamente si celebra la ricorrenza della Liberazione, meno scontato il fatto che, cinquanta anni dopo, ancora si manifesti nelle strade, si polemizzi sui giornali e gli storici si confrontino aspramente sull’interpretazione e le implicazioni del Ventennio. L’antifascismo è ancora materia viva di lotta politica. E le ragioni sono note: per una parte non trascurabile del paese l’ascesa della destra, il modo in cui si è formata la maggioranza nel marzo del ‘94, le malcelate tentazioni plebiscitarie, la scarsa considerazione del valore della Carta costituzionale, l’assalto ai media ha ride stato l’allarme sul destino della nostra democrazia. Giusto allora riaffermare come atto di fondazione della Repubblica la lotta di liberazione contro il nazismo e il fascismo. Ma tutto questo, assolutamente necessario, forse non è sufficiente a far capire che cosa sta accadendo oggi nel nostro paese, perché succede che un partito come l’MSI, da tempo ai margini del sistema politico, torni sulla scena e si ponga, in modo anche fuorviante, al centro dell’attenzione. Per la sinistra sembra quasi scattare un riflesso condizionato che non le permette di riflettere sulla reale fisionomia della destra italiana negli anni novanta. L’idea di Rassegna di promuovere questa Tavola rotonda con Franco Bassanini, costituzionalista e parlamentare progressista, Aldo Bonomi, direttore della società milanese di ricerca sociologica Aaster, Pier Paolo Poggio, storico, direttore della Fondazione Micheletti di Brescia, Riccardo Terzi, che si occupa per la CGIL delle riforme istituzionali, nasce proprio dalla constatazione della difficoltà a identificare la destra, le destre, così come si stanano configurando. È man acato un approfondimento sul leghismo, è ancora poco indagato il fenomeno Berlusconi, altrettanto poco chiaro è quanto sta avvenendo nella Chiesa e tra i cattolici, la trasformazione dell’MSI in Al leanza nazionale sa di trasformismo.

Certo, sull’MSI c’è più materia d’indagine, per il modo in cui nasce, e per quello che rappresenta. Di fatto, malgrado le origini, il movimento sociale è stato accettato, è diventato parte del sistema democratico e, parallelamente, l’MSI ha accettato le regole del gioco. Chiediamo a Franco Bassanini: in questo contesto come può essere valutata dall’osservatorio parlamentare l’esperienza dell’MSI-Alleanza Nazionale?

Bassanini: Ho subito un contro quesito: cosa significa che è stato accettato? Una cosa assolutamente ovvia: una forza politica di destra, o di sinistra, prende un certo numero di voti che si traducono in seggi e, pochi o tanti che siano, è rappresentata in Parlamento. Ma diciamo che nel nostro caso questa accettazione, o legittimazione, si è accompagnata alla, che valeva per l’MSI come per le forze della sinistra (per il PSI fino agli anni ‘60). Queste forze politiche erano rappresentate in Parlamento, come avviene normalmente in un paese democratico dove non ci siano norme di protezione democratica, come nel caso della Germania di Bonn, dove nazisti e comunisti erano dichiarati fuori legge in applicazione di norme costituzionali. In Italia questo non è avvenuto. Alla disposizione transitoria della Costituzione, che vieta la ricostituzione del partito fascista, si è data – a mio avviso giustamente, ma è un altro discorso – un’interpretazione restrittiva, sostanzialmente per non applicarla, dicendo: deve essere un partito esplicitamente fascista. Destra e sinistra erano dunque legittimate in Parlamento ma non a governare il paese. Poi, come è noto, sono intervenuti diversi fattori concomitanti, dall’89 a Tangentopoli, fino al crollo della costituzione materiale della prima Repubblica, all’ascesa di Berlusconi. Ma direi che mentre la legittimazione a governare, il superamento della conventio ad excludendum nei confronti della sinistra, è precedente al fenomeno Berlusconi, nei confronti dell’MSI questa legittimazione è avvenuta nei primi mesi dell’anno scorso grazie proprio a Berlusconi. Il ragionamento del Cavaliere fu impostato su un giusta ma, secondo me, molto estensiva valorizzazione del principio maggioritario, e sulla logica del “meno peggio”.

Berlusconi, forse in modo strumentale, ma questo interessa poco, ha ipervalutato, nella centralità istituzionale del principio maggioritario, la funzione della legge elettorale facendola diventare il cuore della costituzione materiale. Naturalmente altri paesi europei, che pure hanno leggi maggioritarie, considerano altrimenti quelle forze politiche che non condividono un quadro comune di princìpi liberai democratici.

Nonostante il sistema maggioritario, nonostante il fatto che una forza estremistica si indebolisca in un’alleanza politica democratica, malgrado tutto, va mantenuto un discrimine: un sistema maggioritario comporta una forte e riconosciuta convergenza su un tessuto di princìpi di democrazia e di libertà, e comporta che l’alternanza al governo avvenga tra forze che hanno programmi politici e di governo diversi, anche contrapposti, ma senza mai mettere in discussione i princìpi comuni.

Questa è la ragione per cui i partiti comuni sti e i partiti fascisti o neonazisti, in Inghilterra e in altri paesi, sono stati tenuti fuori. E significativo che in Francia, dove vige un sistema elettorale a doppio turno, ci si rifiuti di fare accordi con Le Pen.

Il fatto che Berlusconi abbia rimesso in circolo l’MSI-Alleanza Nazionale significa che ci sia una completa accettazione o legittimazione? La mia personale risposta è no. La nostra è una situazione abbastanza anomala nel sistema delle democrazie europee consolidate perché – detto brutalmente – ci sono alcuni milioni di persone che sono convinte che se vince l’alleanza di centro-destra sono a rischio alcuni valori costituzionali. E altri milioni di persone convinte che, se vince l’alleanza di centro-sinistra, sono a rischio valori di democrazia, di libertà. In realtà è avvenuto qualcosa di molto complesso. Alleanza Nazionale mi pare stia giocando una carta, anche interessante. Sembra dire: siamo cambiati, siamo diventati una forza democratica e nell’ambito del Polo non siamo noi quelli che mettono a rischio la democrazia. E questo avviene per una serie di ragioni che in parte sono culturali e in parte dovute alla loro relativa debolezza nei confronti dell’alleato Forza Italia che li ha legittimati come forza di governo. Ma nello stesso tempo Fini eccita le forze parlamentari del Polo, minaccia l’ostruzionismo. È difficile spiegare questi comportamenti, le interpretazioni possono essere diverse proprio perché è poco chiara la posizione di An sul terreno parlamentare. Si minaccia e poi si torna indietro per accreditarsi come più affidabili di Berlusconi. Credo ci voglia del tempo per un giudizio, è necessaria una verifica. Per esempio, se si va a votare in autunno, c’è la possibilità di approvare una proposta di legge costituzionale che circa 150 parlamentari tra progressisti, popolari, democratici di Segni e Ayala hanno presentato sulle garanzie costituzionali che eleva a due terzi il quorum necessario per modificare la Costituzione (sono il primo firmatario, però ci sono anche Napolitano, Berlinguer, Andreatta e altri). Sostanzialmente la proposta dice: siccome nella competizione democratica si decide chi ha diritto di governare, ma le regole si cambiano attraverso un confronto e un’intesa tra maggioranza e minoranza, fra i vincitori e i perdenti della competizione elettorale, è bene tranquillizzare tutti. Cosa farà An? Tatarella ha detto: mi sembra interessante. Vediamo.

D’Agostini: È possibile una lettura puramente strumentale dell’operazione Berlusconi-Fini. Ma se si guarda con attenzione al processo che ha portato ad Alleanza Nazionale, ci si accorge che già alla fine degli anni ‘70, al congresso dell’MSI nel ‘79, si produceva una svolta attraverso la focalizzazione di due questioni che allora cadevano nell’assoluta indifferenza, ma che poi invece hanno occupato il centro della scena politica: la questione della riforma istituzionale (successivamente, sempre nel ‘79, Craxi lancerà l’idea della “grande riforma”) e la questione della lotta contro la “partitocrazia”. Una terminologia che allora appariva ambigua, soprattutto per chi la pronunciava, eppure questi due elementi in qualche modo rinnovavano già il partito di Almirante.

Negli anni ‘80 sembrava impossibile che su questa scommessa il movimento sociale potesse ricavare qualche cosa. Tanto è vero che proprio in quegli anni c’è un declino progressivo non solo elettorale, ma anche organizzativo. Alla fine degli anni ‘80 le tessere passano da 300 a 100 mila circa.

Ci accorgiamo poi che, malgrado tutte le ambiguità, questo processo ha permesso una serie di agganci politici, sia pure occasionali, con Craxi già nell’83 in occasione di un convegno proprio sulle riforme istituzionali, e con Pannella. Considerare quasi come un fatto accidentale della storia politica italiana l’affermazione di Fini rischia di non far vedere i processi reali e lo spazio potenziale di una parte della destra.

Bassanini: Osservazioni più che legittime. Infatti il discorso vero è: quali sono le tendenze, le ragioni, le motivazioni, i trend che determinano questa spinta a destra culturale e politica. C’è stata una certa, ma abbastanza significativa, revisione del giudizio storico su fascismo e antifascismo. Questo va riconosciuto. E poi: lotta contro la partitocrazia. Hanno cavalcato con molta efficacia questo tema, però bisogna andare a vedere. Alleanza Nazionale nei sette-otto mesi del governo Berlusconi si è dimostrata degna erede delle prassi e dei metodi partitocratici, dall’occupazione delle istituzioni alla lottizzazione, al collocamento di uomini di area con la coda di funzionari e dirigenti pubblici che andavano a mettersi sotto la protezione di Alleanza Nazionale. Gli slogan antipartitocratici sono stati un cavallo di battaglia propagandistica che ha incontrato un forte e per molti versi giustificato consenso; dopo di che Alleanza Nazionale è oggi il più cospicuo esempio di formazione partitocratica che esista in Italia. An condivide con Forza Italia un progetto di regime: un sistema che continui a definirsi democratico, ma che sostanzialmente non abbia partiti intesi come associazioni di cittadini, come strumenti per aggregare la domanda politica. L’altra questione è quella della riforma istituzionale. È vero che Alleanza Nazionale, come Craxi, fu tra i primi – Segni arriverà più tardi e su un terreno più limitato – a cogliere l’esistenza di una questione istituzionale. Ma questo è anche il terreno su cui misuro davvero la loro maturazione. Il problema non è il presidenzialismo, che non credo importabile in Italia, ma che è perfettamente possibile concepire come progetto democratico se contiene le necessarie garanzie costituzionali. Il problema è che proprio queste mancano nella proposta di Alleanza Nazionale. Abbiamo di fronte una contrapposizione tra una cultura costituzionale democratica di impianto liberale spesso troppo conservatrice – e una cultura di tipo decisionista che parte dalla riforma elettorale per estenuare il sistema democratico costituzionale in base a un unico principio: la delega, la scelta periodica del leader cui affidare pieni poteri. E su questa seconda posizione che Alleanza Nazionale è atterrata tranquillamente in continuità con la proposta di riforma istituzionale di tipo presidenzialista.

D’Agostini: E bisogna ricordare che nella prima formulazione dell’ipotesi presidenzialista del movimento sociale c’era l’elezione diretta del presidente e un Parlamento in cui fossero rappresentati i “corpi”, le organizzazioni professionali e di mestiere. Anche da qui viene Alleanza Nazionale, da una vecchia cultura corporativa. Eppure questa cultura, attraverso varianti forse più presentabili, ma non meno conservatrici, attraverserà gli anni ottanta fino ai giorni nostri. E la destra non è solo questo, è anche movimentismo che in versione rautiana assume le vesti di una cultura elitaria, attenta al mondo giovanile, che saprà raccogliere suggestioni abbandonate dalla sinistra e riscoprire la comunità come luogo d’appartenenza. Alla fine degli anni sessanta nasceva l’esperienza di Comunione e liberazione, anch’essa un mix di movimentismo e di conservatorismo. E così la destra in Italia assume anche il volto dell’integralismo cattolico, di un’idea di comunità impermeabile alla polis, e comincia a spuntare quel leaderismo politico che avrà tanto successo negli anni ottanta. Dunque, Poggio, la destra ha diversi volti …

Poggio: È difficile mettere a fuoco esattamente il problema sul piano sociale e politico, mi limito a un’analisi molto sommaria. Alla fine degli anni ‘80, inizio ‘90, siamo partiti con Bonomi dalla difficoltà di spiegare lo sviluppo del leghismo che, soprattutto nella fase di formazione degli anni ‘80, si caratterizzava per il suo localismo, per la sua cultura neo-etnica. La domanda che ci ponevamo era questa: perché la sinistra e la cultura italiana in genere è in difficoltà a decifrare la destra e anche, addirittura, a prevederne lo sfondamento sul piano sociale e poi elettorale? La risposta dei sociologi è quella che hanno dato ricercatori come Bonomi: il ritardo è legato a trasformazioni strutturali della società, del modo di produrre. E dalla nuova fisionomia della società post fordista vengono risposte importanti. A mio modo di vedere ci sono una serie di blocchi che partono da lontano, da un crocianesimo di fondo secondo il quale la destra non è cultura. Un giudizio che vedo tornare abbastanza spesso nelle analisi correnti. C’è un’altra categoria di lettura che a mio avviso si rivela una trappola. Il successo della destra in Italia, dalla Lega a Forza Italia, è letto attraverso la categoria piglia tutto del populismo. Però basta andare indietro nel tempo e con la stessa categoria si può spiegare il successo storico del cattolicesimo politico, della Dc, e anche del Pci. Allora se il populismo spiega tutto, ovviamente non spiega niente. Non voglio soffermarmi più di tanto, su questo, ma credo che la difficoltà è proprio nel modo di intendere il fascismo e il nazismo, non tanto rispetto alla ricerca storica, ma per come sono stati recepiti dall’opinione pubblica. Sono passati due modelli, uno porta alla normalizzazione, e cioè fascismo e nazismo vengono integrati nella storia nazionale addirittura sottolineandone gli aspetti di modernizzazione. Oppure di fronte al nazismo, e per certi versi anche al fascismo, scatta l’altro modello interpretativo, cioè quello dell’assoluta eccezionalità: l’irruzione dell’irrazionale, del demoniaco. Sono approcci che bloccano l’analisi. Da una parte dunque c’è questa eredità intellettuale che la sinistra si porta dietro, e dall’altra accade che ma questo è avvenuto prima in altri paesi, l’Inghilterra è il caso classico – la destra riesce a presentarsi dovunque proprio come ritorno alla normalità, alla naturalità dell’economia di mercato. Perché passasse una posizione del genere in Italia è stato indispensabile il crollo del socialismo. L’89 è stato letto come il fallimento non dell’utopia, ma dell’artificialismo politico, del tentativo di manipolare la società, di darle un indirizzo, valori di fondo. Non sottovaluterei questo discorso perché è decisivo nella situazione russa, nei paesi dell’Est dove il mercato è visto come un modo per tornare ad essere normali. Anche se poi si dividono e da una parte ci sono spinte alla normalizzazione nel senso della piena occidentalizzazione e dall’altra quelli che come Solgenitsin dicono: no, calma, dobbiamo recuperare la nostra vera peculiarità. E questo discorso del recupero dell’identità nazionale va tenuto presente anche per la situazione italiana. Mi pare che la forza della destra, sul piano culturale, sia legata alla capacità di giocare con successo questo tema del paradigma naturalistico che tra l’altro è un dato di fondo della destra. Che cosa vogliono dire? Che c’è un’ineguaglianza naturale degli uomini e dei gruppi sociali. Però questo paradigma naturalisti co può essere usato in modo molto differenziato, e da qui vengono fuori diverse tipologie. Può diventare il fondamento di una visione della differenza. Così il tema viene recuperato dalla cosiddetta nuova destra: queste posizioni hanno cominciato a viaggiare anche in Italia svolgendo un ruolo proprio nell’assimilare posizioni tipiche delle culture di sinistra, anche le più radicali, dai movimenti di liberazione nazionale a ogni tipo di variante anticapitalista. Su questo terreno sta avvenendo uno scambio sempre più serrato tra destra e sinistra. Lo vediamo nelle riviste culturali, si crea un dibattito rispetto al quale, condanne e anatemi non portano da nessuna parte.

E un fenomeno che riguarda il mondo accademico, un interscambio – Cacciari è stato un antesignano, già nei primi anni ‘80 – che in effetti porta a una radicalizzazione, a un depotenziamento degli aspetti politici più inquietanti.

Sono abbastanza convinto, per esempio, che personaggi come il filosofo francese della Nuova destra, Alain de Benoist, che aveva un imprinting nazista fortissimo, negli ultimi anni ha avuto una decisa evoluzione.

Non si può trascurare un altro aspetto: ho l’impressione che nelle subculture, soprattutto nei gruppi marginali giovanili, questo interscambio destra-sinistra provochi l’effetto di una radicalizzazione reciproca. L’ho visto abbastanza bene studiando un tema come quello della negazione dell’esistenza delle camere a gas sul quale in Italia c’è stata poca attenzione. Sta avvenendo che estrema sinistra ed estrema destra si incontrano su questo terreno, il collante è l’antisemitismo. A fronte di queste situazioni mi è sembrato utile fare il tentativo di individuare le diverse tipologie della destra. C’è una prima famiglia, quella neo-etnica, che vuole un assetto europeo non più basato sugli Stati nazione, ma una civiltà europea capace di attingere alle proprie radici storiche profonde, che tenta un incontro con la Lega sulla base di un federalismo integrale. Sono totalmente schierati su posizioni antiamericane, recuperano tutta la tradizione della rivoluzione conservatrice, sono antimaterialisti, antiutilitaristi, anticonsumisti; su queste parole d’ordine stanno ad esempio raccogliendo consensi in un certo filone marxista in crisi. Questo filone culturale su cui ho insistito in realtà è marginale politicamente, de Benoist non si pone alcun obiettivo politico immediato, lavora sui tempi lunghi, è convinto che l’Occidente andrà all’autodistruzione e quindi lavora per il prossimo millennio. Molto interessante è il secondo filone, quello del neonazionalismo. Si può notare che è in Francia la prima grande avanzata, il fenomeno Le Pen con il suo Fronte nazionale. Ma il successo politico lo coglie An in Italia, al di là del comportamento delle altre forze politiche, che l’abbiano legittimata o meno. È una realtà che si sta radicando nella società, più della Lega e dello stesso Berlusconi. E mi sembra che siamo a un punto di non ritorno. Sotto questo aspetto è molto importante l’unificazione tedesca che ha rilanciato proprio quello Stato nazione che sembrava in crisi, superato dalla globalizzazione economica che porterebbe alle regionalizzazioni, ai localismi. Invece la Germania mette in campo con grande forza il tema dello Stato nazione. Questo forse è anche un aspetto della crisi del processo di unificazione e integrazione europea, quindi un dato di formidabile importanza geopolitica da cui non si può assolutamente prescindere. La competizione globale dunque ripropone lo Stato nazione e forse si sottovaluta il fatto che An è proprio la più attrezzata ad ereditare, a farsi portavoce del neonazionalismo. Il terzo filone è secondo me il più interessante perché né il filone neo-etnico né quello neo-nazionalista avrebbero potuto aprire la strada alla destra politica in Italia negli ultimi due anni senza un altro fattore, rappresentato al meglio da Forza Italia. Bisogna riflettere, lo dicevo già prima parlando dell’89, sul crollo del socialismo, c’è stata una spinta formidabile. Un numero impressionante di persone si è convinto che – scusate lo schematismo – il capitalismo è uno stato di natura e questo porta a posizioni molto radicali, al rifiuto della politica e, tendenzialmente, al rifiuto dello Stato. Il consenso a Forza Italia parte da qui e su questo la Lega ha perso colpi.

Questa connotazione della destra ha radici nella tradizione italiana, il fascismo non è andato al governo in Italia come forza statalista e nazionalista, ma come forza ultraliberista. In quel momento gli intellettuali fascisti – mi sono segnato due o tre slogan – dicevano letteralmente: “Basta con la solidarietà, Viva l’egoismo, Vogliamo una società regolata dall’economia senza politica”. Rispetto al discorso che è stato ricordato sulla legittimazione il percorso della destra parte da lontano. Limitandoci agli slogan provocatori: “seconda Repubblica” è di Pisanò, contro la “partitocrazia” si scaglia Maranini, un isolato intellettuale di destra degli anni ‘50. Dobbiamo andare a ricostruire questa vicenda, che è molto lunga, e chiederci: perché non ha mai avuto uno sbocco politico? Ma perché l’antifascismo faceva da blocco. Sono convinto che il passaggio · al maggioritario sia importante, ma ci sono processi più profondi e a mio avviso il grande handicap della sinistra in questo momento è quello di non potersi liberare dell’antifascismo, non può abbandonarlo anche se non ha più il senso che aveva in altri anni.

D’Agostini: A proposito dell’esperienza che va dall’MSI a An bisogna osservare che questo processo vede l’espulsione di Rauti, il più vicino alla nuova destra e alla realtà giovanile. E ci si potrebbe chiedere anche quanto effettivamente la stessa Alleanza Nazionale possa convergere sull’idea del capitalismo come forma naturale della regolazione sociale. E c’è un altro fronte della destra: l’esperienza di Comunione e liberazione con la sua idea di comunità autoreferente, sostanzialmente alternativa a un’idea di società civile come fondamento dello Stato. Si parte da Comunione e liberazione e si arriva alla cronaca politica di oggi con Formigoni e Buttiglione, che stringono alleanze con Berlusconi e con Fini.

Poggio: Le tematiche neo-etniche, anticapitaliste, filoterzomondiste, comunitarie e così via mi sembrano rivolte prevalentemente al mondo giovanile, dove la sinistra militante più radicale è in grosso deficit di elaborazione e culturalmente sempre più ossificata. Penso però che la stragrande maggioranza dei giovani in questa fase sia molto più attratta dall’idea del capitalismo come stato di natura. Ci sono invece tensioni culturali che possono favorire un rapporto tra le posizioni della destra e una parte del mondo cattolico. Le posizioni paganeggianti, alla de Benoist, in Italia non hanno futuro. Mi sembra che la comunità potrà essere proprio lo strumento per un confronto tra l’area cattolica integralista e forme neo-autoritarie. Per quanto riguarda la Chiesa certamente si è trovata al Nord in grandi difficoltà di fronte all’insorgere del leghismo, l’ha visto come una rivolta difficile da domare, non aveva gli strumenti per mediare. Se mi dovessi basare su un osservatorio ristretto, una zona della periferia milanese che ho seguito abbastanza attentamente, dovrei dire che ha puntato su An come forza politica che in fondo dà maggiori garanzie sul medio-lungo periodo. E non si tratta del vecchio clerico fascismo. Questo è un dato estremamente circoscritto, limitato a una diocesi, ma leggo in questa ottica anche il modo in cui si è mosso Buttiglione. Sono convinto che non ha preso in modo irrazionale le sue decisioni, c’è un disegno che doveva andare fino in fondo.

D’Agostini: Proporrei a Bonomi un ragionamento sul rapporto tra il consenso elettorale della destra e il vecchio assetto politico. Anche qui siamo di fronte a processi contraddittori, ma il voto del Sud sembra determinante per la destra. Il Partito socialista, già nelle elezioni del ‘92, subì uno spostamento a Sud del proprio baricentro elettorale e ancor prima questo avvenne per la Democrazia cristiana. Il movimento sociale è sempre stato un partito prevalentemente meridionale. Il voto democristiano e parte di quello socialista si sono riversati su Forza Italia e An lasciando loro in eredità il peso del voto meridionale. Se si considera la localizzazione del voto leghista, non c’è il rischio che si inasprisca un processo di divisione del paese?

Bonomi: I problemi che stiamo discutendo forse si capiscono meglio se aggrediamo quella che chiamo “questione settentrionale”. Siamo stati abituati a ragionare sempre ed esclusivamente della questione meridionale, anche giustamente, perché le condizioni sociali, i processi economici indicano il Sud come punto nodale in termini di arretratezza e di non soluzione dei problemi. La territorializzazione a Sud del voto, i due esempi che facevi, Democrazia cristiana e Partito socialista nella loro fase calante, dimostra il rapporto che si è instaurato tra lo Stato e quel territorio. Vorrei tornare al problema iniziale, la decodificazione del termine “destra”, per fare alcune osservazioni. Più che le parole dello storico: fascismo, razzismo, nuova destra, vorrei usare un’espressione che a mio parere definisce il problema: “presa diretta plebiscitaria”. Il fenomeno della destra di questi anni, nel nostro paese, prende corpo attraverso una presa diretta tra popolo e leader. In una prima fase c’è stato il bossismo, quello delle origini di cui tutti ci siamo dimenticati, perché la Lega oggi ha scoperto il Parlamento e quei processi democratici attraverso i quali tra l’altro si è incontrata per la prima volta con la cultura della sinistra. Ma non c’è dubbio che la Lega delle origini, la Lega di Pontida, era tutta nel rapporto diretto tra leader e popolo. Direi che il fenomeno del berlusconismo è la parte più avanzata di questo discorso a cui si aggiunge l’uso del mezzo tecnologico, della televisione. E c’è da chiedersi che cosa farà Fini; Bassanini ricordava prima il modello di presidenzialismo proposto da Alleanza Nazionale. Questo meccanismo di presa diretta plebiscitaria mette in discussione i luoghi intermedi della rappresentanza sociale a cui noi eravamo tradizionalmente abituati. Intendo dire quelli dove venivano rappresentati gli interessi: sindacati, associazioni imprenditoriali ecc., e quelli dove venivano rappresentati i sentimenti e le appartenenze: i partiti. Sono d’accordo con Poggio: la presa diretta plebiscitaria ha una sua ragion d’essere nell’ideologia dell’anti-ideologia. Essa dice: tutte le grandi utopie del 900 sono finite. Anche l’utopia fascista è obsoleta. Il vero problema oggi è l’accettazione del capitalismo che c’è. La presa diretta plebiscitaria si basa su alcuni “idoli”: il primo è quello della competitività. Viviamo in una società nella quale le regole sono imposte dal mercato, l’importante è competere e chi è contro la competizione è automaticamente fuori, chi non regge la competizione non deve avere strumenti di garanzia da parte dello Stato né solidarietà né welfare. Secondo idolo: l’individualismo, come unico punto di riferimento. Viene meno qualsiasi analisi che rimanda a una dimensione collettiva. Terzo idolo: l’indifferenza. La società solidale è solo retorica, viviamo in una società in cui prevalgono i meccanismi competitivi. Cerchiamo allora di spiegarci perché tutte queste cose hanno nella questione settentrionale un grande laboratorio. Ritengo che sull’asse che va da Torino a Gorizia si sono dispiegati i grandi processi di modernizzazione degli anni ‘80. E quelli che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo come gli anni di Tangentopoli sono, in realtà gli anni della grande modernizzazione, almeno a Nord, del sistema produttivo e della composizione sociale di questo paese. Ritengo che questo processo si sia basato su tre fattori principali. Il primo: la fine della centralità del lavoro che rimandava alla centralità della fabbrica, della grande impresa, della company town. Il secondo: le appartenenze. Faccio questo esempio: un operaio dell’Om di Brescia, se era cattolico votava Democrazia cristiana, se di sinistra o socialista, era iscritto alla Cisl e si rapportava a quello che diceva la Cisl dal centro. Se l’operaio dell’Om di Brescia era comunista, era iscritto alla CGIL, votava Pci e si riferiva a quello che veniva deciso dal suo tessuto di rappresentanza. Questo meccanismo delle appartenenze come meccanismo forte è finito. Terzo fattore: la tecnica che rimandava fondamentalmente alla natura fabbricata. Il modello fordista era essenzialmente un processo di fabbricazione di merci.

Vediamo gli elementi che hanno caratterizzato il post-fordismo, colti con grande intuizione da Trentin (il passaggio dal lavoro ai lavori), ma poi non sufficientemente approfonditi da parte sia del sindacato che della sinistra. Dunque, il passaggio dal lavoro ai lavori, ma vado oltre, dico che oggi nel mondo del lavoro assistiamo a una egemonia culturale del lavoro autonomo, del lavoro indipendente.

Basti pensare alla cultura degli anni ‘70, all’egemonia culturale del lavoro salariato, del lavoro normato, della classe operaia. Negli anni ‘80 ha cominciato a dispiegarsi l’egemonia culturale del lavoro autonomo che poi ritroveremo nella retorica del “fai da te” berlusconiana e, ancora prima, nella rivolta dei piccoli e medi imprenditori bossiani. Comunque, lavoro, lavori, lavoro autonomo, dalla fabbrica si passa alla centralità del territorio come luogo della competizione. Il problema diventa la capacità di creare infrastrutture nel territorio per competere. Altro passaggio: dalle appartenenze si passa alle identità che iniziano al tema delle differenze. Infine: la tecnica non rimanda più alla natura fabbrica, ma alla natura simulata, basti pensare al banale graphic computer fino ad arrivare alla realtà virtuale. Oggi prima ancora di mettere in produzione qualsiasi modello lo si progetta in laboratorio e si fa una simulazione che verifica i dati di efficacia e di efficienza di qualsiasi prodotto. Faccio un’osservazione banale: non vi è dubbio che i due momenti politici che hanno caratterizzato gli anni ‘80 e gli anni ‘90, il leghismo e il berlusconismo, hanno certamente nel territorio e nelle identità i loro punti di riferimento; il leghismo più nella territorializzazione, il berlusconismo più nel rapporto diretto plebiscitario. In questo passaggio strutturale abbiamo avuto un mutamento della composizione sociale, non più spiegabile solo ed esclusivamente in termini di analisi dei segmenti di classe. Si passa da un’articolazione verticale che permetteva di leggere la società dal basso verso l’alto o dall’alto verso il basso (la classica scomposizione in classi marxiana: sottoproletari, proletari, piccola borghesia, borghesia) a meccanismi orizzontali in cui la società si è sempre più segmentata.

C’è chi sta dentro e chi sta fuori, vengono meno i processi di inclusione. Il Welfare permetteva, attraverso il conflitto e la rappresentanza degli interessi, l’inclusione e comunque un meccanismo di mutamento sociale. Oggi è ben più difficile ‘che chi è escluso riesca a rientrare, anche perché i meccanismi sono diversi, si entra per cultura, per conoscenza, per capacità competitiva. Si impone un meccanismo premiante. Un altro punto. La destra ha sviluppato una retorica dell’uguaglianza. In tutta la tradizione del 900 l’uguaglianza è vista come fine ultimo: la società degli uguali. La nuova retorica della presa diretta plebiscitaria dice che siamo tutti uguali all’inizio e che alla fine vince chi arriva primo (sappiamo benissimo che nella maggior parte dei casi arriva primo chi è meglio posizionato e il vero problema è che sono aumentati i meccanismi di esclusione). Ritengo che questi cambiamenti abbiano provocato nei soggetti sociali spaesamento e sradicamento. Il post-fordismo, questo processo competitivo, ha omologato e stressato la società.

Torniamo alla questione settentrionale. Questi eventi portano a reagire in due modi, il primo è una sorta di ritorno alle origini: ci si illude di riscoprire la comunità. Questo sta dietro il folklore neo-etnico. Si reinventa una comunità di uguali e di simili che non è più data perché oggi, per esempio, la Lombardia vive in una dimensione di competitività mondiale e la tradizione localistica è una forma di difesa rispetto a questi processi di cambiamento.

E poi abbiamo una reazione che deriva dal lo sradicamento e credo che riguardi una buona parte di quanti guardano a destra, una composizione sociale di soggetti che non hanno più riferimenti saldi, che si affidano al meccanismo di presa diretta plebiscitaria e ritrovano un ordine nell’idea del capitalismo, come regolatore naturale.

Dentro questa logica ci sono certamente soggetti imprenditoriali, il lavoro autonomo, quei settori che vogliono meccanismi premiali e la libertà di correre nel mercato senza vincoli e pastoie (a partire dal fisco). Non dimenticherei poi una componente molto forte in questo paese, perché ci sono le piccole e medie imprese che vogliono essere competitive, il lavoro autonomo, ma anche la rendita. C’è il popolo dei Bot che ha paura di veder colpiti i propri interessi. E sono interessi assai diffusi.

Mi pare si possa dire che molta parte di questi ceti sociali erano rappresentati dalla Democrazia cristiana e non c’è dubbio che la destra ha beneficiato fino in fondo delle energie che si sono liberate dalla crisi verticale della Dc. Si sono liberate anche energie vitali e vorrei far notare che a sinistra non è ancora avvenuto questo processo di “liberazione”. Non voglio dire che sia auspicabile la frana della sinistra, ma che alcuni grandi contenitori in cui tutto il meccanismo della sinistra è contenuto non hanno ancora permesso la liberazione di energia.

Si è aperto uno spazio sia in termini di composizione sociale che politico dopo l’esplosione della balena bianca. Se si analizza il radicamento del Polo, intendendo Forza Italia e Alleanza Nazionale, va constatato che hanno assunto l’eredità di quella Dc e di quel craxismo il cui consenso si era fortemente localizzato nel Mezzogiorno dove oggi si ripropone sotto le vesti del “tatarellismo” ma, attenzione, hanno anche aggredito la questione settentrionale cercando di farsi interpreti dello spaesamento.

Un altro problema riguarda l’identità territoriale che credo non possa essere affrontato secondo l’ottica neo-etnica, ma nemmeno avendo come riferimento il federalismo economico, il federalismo degli interessi contrapposto a quello delle etnie, una sorta di nuova geopolitica o geoeconomia come quella proposta dalla Fondazione Agnelli che ridisegna le regioni in base ai parametri della competitività.

A mio parere bisogna introdurre elementi di federalismo perché in una fase storica in cui si oscilla tra oligarchia e frantumazione localistica bisogna essere in grado di reintrodurre processi di governo dal basso.

È un discorso che riguarda il futuro dell’Europa. Si confrontano diverse dimensioni politico-culturali. Si va dall’Europa dei popoli, dall’Atlantico agli Urali, a quella delle regioni neo-competitive.

E c’è una dimensione che sembrava ormai completamente dimenticata: proprio nella fase del capitalismo globale, della mondializzazione dell’economia, si riscopre lo Stato nazione. Non la nazione come popolo, società e cultura, ma come elemento di supporto alla competitività dell’impresa nel mercato; la nazione come punta di lancia della competitività.

D’Agostini: C’è da chiedersi, ma la destra di Alleanza Nazionale che cosa ha a che fare con tutto questo? Non è stata, almeno fino ad oggi, espressione dei ceti più protetti, del pubblico impiego, del Mezzogiorno assistito? Per quanto riguarda la destra che nasce dai grandi cambiamenti strutturali, anche qui non bisognerebbe fare qualche distinzione? Il post-taylorismo, il post-fordismo in America è scandito da date precise. Senza andare a quelle mitiche: la bomba H, lo sbarco in Normandia, basta ricordare i grandi progetti spaziali che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone e migliaia di imprese dando l’impulso che conosciamo all’innovazione organizzativa, tecnologica e dei prodotti.

In Francia lo sviluppo del nucleare ha trainato il sistema produttivo; la Germania ha un sistema sociale e istituzionale capace di accompagnare lo sviluppo. In Italia negli anni ‘80, nel momento in cui questa trasformazione diventa travolgente, non ci sono né grandi né piccoli progetti, anzi grandi strutture di ricerca come l’Enea vengono ridimensionate. Sul piano sociale più che il lavoro creativo sono i ceti medi che crescono, in modo aberrante, grazie alla crescita del debito pubblico, all’assistenzialismo. Si crea il fenomeno che ricordavi: il popolo dei Bot. E più che nuovi soggetti, abbiamo rendita e parassitismo che si mascherano dietro l’ideologia del mercato. E paradossalmente mentre in Inghilterra è la conservatrice Thatcher che guida l’ondata liberista, in America è il repubblicano Reagan, in Italia, almeno sotto il profilo decisionistico, il primo tentativo di trasformazione, è quello craxiano.

Bonomi: È vero, non abbiamo avuto una modernizzazione capitalistica degna di questo nome. Il caso emblematico è l’Olivetti, la grande impresa che doveva esprimere il massimo della capacità competitiva non ha sfondato su questo terreno. Ricerca e sviluppo nel nostro paese sono in parte trascurati, però ancora una volta siamo di fronte a un’anomalia del caso italiano: è nato un capitalismo di seconda schiera che si “contrappone” al capitalismo delle grandi famiglie. Ma starei attento a dire che non ci sono stati processi di modernizzazione. Il toyotismo Fiat sarà all’italiana, alla Romiti, però Melfi testimonia un processo di mondializzazione della Fiat. Quello che mi interessa dire è che c’è stata una proliferazione della media impresa. Il “cespuglio” di De Rita è diventato un capitalismo maturo, flessibile; basta vedere il Nord-Est d’Italia. Basta un dato: le imprese del Vicentino hanno aumentato nel 1995 dell’80 per cento le esportazioni. Certo, c’è stata l’“opportunità” data dal crollo della lira che ci rende competitivi sul mercato mondiale, però i dati ci dicono che l’industria della provincia di Vicenza ha esportato più dell’intero Portogallo.

Questo capitalismo di seconda schiera ha portato avanti processi di modernizzazione. C’è stato un passaggio dai localismi produttivi ai localismi del sapere, e l’impresa parte dalla dimensione locale ma diventa una filiera lunga per essere competitiva nell’economia mondiale. Tra il luogo della produzione e il momento della commercializzazione si immettono una serie di saperi e di competenze. Il localismo dei saperi è una realtà. C’è una cosa in Lombardia che si chiama Università di Castellanza che è stata fatta dagli imprenditori, in contrapposizione allo Stato, per modernizzare le proprie Imprese.

C’è un sistema delle università venete che ha decentrato corsi specialistici come, ad esempio, nell’area della Luxottica, corsi brevi per quanto riguarda il design, la moda, nel sistema produttivo Benetton. Quindi una modernizzazione c’è stata e, a mio parere, è nato anche un nuovo ceto sociale – che non regalerei alla destra – quello che l’economista Mario Deaglio chiama la neo-borghesia, quei soggetti le cui “proprietà” sono le competenze, i saperi da spendere sul mercato. C’è stato un processo di rinnovamento: al Nord, ovviamente. Non c’è dubbio che questi ceti produttivi nuovi hanno avuto, nelle inefficienze del pubblico, dello Stato, una buona ragione per schierarsi. Dopo di che, certo, c’è la retorica giustizialista e partitocratica cui si faceva riferimento prima, o la retorica del nuovo, per cui tanti sono andati ad appoggiare alcuni fenomeni che sembravano nuovi sul mercato della politica.

Voglio dire che certamente la composizione di questo paese è cambiata, la modernizzazione c’è stata e starei molto attento a dire che abbiamo a che fare solo con un esercito di parassiti perché è una lettura banalizzante di un fenomeno con il quale bisogna fare i conti.

D’Agostini: Siamo certi di poterla definire modernizzazione? I fenomeni politici, economici e sociali che descrivi riguarderebbero prevalentemente il Nord. E il Mezzogiorno?

Bonomi: Il problema è quello di osservare a Nord i processi di modernizzazione e agire al Sud. Il Nord produce per competere, questa è la situazione, e dentro questa produzione competitiva ci stanno tutti i grandi meccanismi di modernizzazione con cui fare i conti.

Ho l’impressione che in questo momento a Sud si compete per sopravvivere e, da questo punto di vista, chi è in grado di assumere e sciogliere questo stress del Mezzogiorno? Torna il trasformismo, anche nel Mezzogiorno, con la vecchia logica delle clientele. Lo ricordava Bassanini. Il rischio è che le clientele del Sud e la modernizzazione del Nord vengano coniugate dal linguaggio della destra.

D’Agostini: Terzi, hai alle tue spalle un’esperienza politica e sindacale, sono punti di osservazione che dovrebbero essere particolarmente sensibili per capire che cos’è la destra (o le destre) in Italia.

Terzi: Il concetto di destra, come tutti i concetti molto generali, contiene fenomeni diversi, Poggio ha già fatto un quadro dei diversi filoni della cultura di destra. Alcuni di questi mi sembrano oggi del tutto marginali ed elitari. Rauti si riduce ad avere un partitino, non c’è stata una scissione significativa, a differenza di quello che è successo al vecchio partito comunista.

L’elemento che a me sembra prevalente oggi, richiamato sia da Poggio che da Bonomi, è la concezione del capitalismo come società naturale, l’accettazione piena della logica di mercato e dei meccanismi competitivi: tutti i tentativi di cambiare il mondo, di riformarlo, sono sbagliati perché richiedono un intervento politico e, quindi, portano allo statalismo, portano al dominio partitocratico, portano a limitare la libertà personale.

Secondo questa tesi la società va lasciata libera di seguire le proprie dinamiche naturali e questo è l’unico modo per assicurare sia un avvenire di progresso, sia la libertà personale: molto sommariamente mi pare questo il quadro concettuale che tiene insieme questa destra e che è, appunto, l’ideologia dell’anti-ideologia. Tutte le grandi utopie, le escatologie religiose, o filosofiche, o politiche, sono ricondotte a un quadro di estremo realismo.

Naturalmente questa logica è espressa in modo più lineare da Forza Italia che da Alleanza Nazionale, però mi pare che l’operazione che ha fatto Fini sia quella di ricondurre la tradizione fascista su questo terreno, scegliendo non tatticamente l’alleanza con Berlusconi. In questo senso davvero si è liberato di vecchie ideologie fasciste, il che non vuoi dire che sia cessato il pericolo di una destra eversiva.

La polemica con Fini a questo punto non riguarda più il giudizio sul fascismo perché, anche senza farci i conti sul piano culturale e storico in modo particolarmente approfondito, a differenza di Rauti, ha messo da parte questa tradizione, ha accettato pienamente il nuovo terreno: quello berlusconiano, il terreno di una destra che si caratterizza con una logica individualistica di mercato. Anche se, naturalmente, i processi non sono mai così semplici, dentro Alleanza Nazionale restano ancora vecchie concezioni statalistiche e assistenzialistiche.

Oggi si presenta così il blocco di destra: il Polo di Alleanza Nazionale e di Forza Italia. E vorrei mettere l’accento sul tema dell’individuo, sul tema della libertà, perché apre un problema alla sinistra. La stessa scelta del termine “Polo delle Libertà” è una scelta felice da questo punto di vista, perché coglie uno degli elementi che sono presenti in modo diffuso nella società. Coglie un’esigenza di valorizzazione della soggettività e la affronta secondo questa visione: l’unico modo per difendere e valorizzare l’individuo è smantellare tutti gli apparati burocratico-statalistici, valorizzare al massimo la logica competitiva. Chi ha la forza di affermarsi si affermi.

Un’osservazione su quanto diceva Bonomi. Affermi che è avvenuto un cambiamento rispetto alla nostra tradizione sul tema dell’uguaglianza, su questo non sono molto d’accordo. L’idea di un’uguaglianza del punto di arrivo forse è vera per una sinistra un po’ottocentesca; francamente non mi pare che questa sia stata la concezione nostra. L’idea dell’uguaglianza dei punti di partenza è alla base della nostra Costituzione, che dice: vanno rimossi gli ostacoli e vanno messe in grado tutte le persone, i cittadini, di avere pari condizioni di partenza.

La sinistra in Italia in tutti questi anni si è mossa sostanzialmente sulla base di questa concezione, mi sembra un po’forzato pensarla come un’innovazione della destra che in realtà non si preoccupa neanche molto dell’uguaglianza dei punti di partenza. Ha una visione sostanzialmente darwiniana, assume il capitalismo come l’unica forma di società possibile dove le disuguaglianze sociali non sono eliminabili perché, secondo loro, anche il tentativo di correggere quelle disuguaglianze porterebbe a forme di dispotismo non accettabili.

Il nostro rapporto con questa destra non riguarda il giudizio sul passato, anche se ci sono i problemi che diceva Bassanini. Sono per mantenere sospeso il giudizio in attesa delle verifiche politiche che avverranno nei prossimi mesi. Non credo si possa dare per acquisito un processo di piena democratizzazione di Alleanza Nazionale, non tanto perché possa essere riattualizzata la vecchia ideologia fascista, ma perché proprio sul problema che riguarda il modello istituzionale democratico ci sono molti punti interrogativi e molte verifiche da fare.

Fatta questa precisazione bisogna dire che quanto è avvenuto in questi mesi caratterizza questa destra di Fini e Berlusconi senza visibili differenze. Anzi, per certi aspetti la posizioni di Berlusconi è stata più radicale e più eversiva; c’è una spinta a cancellare il patrimonio costituzionale del nostro paese, a considerare la Costituzione ormai come un ferro vecchio e viene avanti un modello, non tanto populista quanto di riduzione del meccanismo democratico alla scelta del leader che esercita senza contrappesi e senza controlli le funzioni di governo.

Se le cose restano così, diventa molto problematico il funzionamento di un sistema maggioritario bipolare, perché i due poli non hanno una base comune nella quale riconoscersi. Allora c’è una delegittimazione reciproca, questo è il problema che ha oggi il sistema politico italiano.

C’è stata forse eccessiva improvvisazione, e questo vale anche per il movimento referendario; l’ansia di liberarci del vecchio sistema non ci ha fatto vedere la necessità di creare basi solide per far funzionare senza rischi un sistema maggioritario bipolare.

Di questo bisogna discutere anche con la destra, considero impossibile elevare oggi degli steccati, sarebbe del tutto velleitario far valere la conventio ad excludendum. Quindi disponibilità a un confronto anche con la destra per verificare se è disponibile a creare le condizioni perché un sistema maggioritario funzioni correttamente e senza rischi per nessuno. E definire le modifiche della Costituzione necessarie, i meccanismi nuovi da introdurre, se e come fare una riforma equilibrata in senso federalista, come affrontare il problema di una maggiore autorevolezza dell’esecutivo, tutto dentro un sistema di garanzie. Su questa base verificheremo se è avvenuta una conversione democratica, se abbiamo di fronte un interlocutore affidabile, o se invece siamo in presenza di pericoli seri di carattere eversivo.

Un problema che sicuramente si pone alla sinistra è quello di fare di più i conti con il tema delle libertà e quindi con il tema dell’individuo, della persona. E questo in qualche misura la sinistra l’ha fatto. C’è il rischio che dal quadro che è stato tracciato venga fuori una rappresentazione della realtà per cui la destra ha capito tutto e la sinistra è rimasta ferma. Mi sembra un po’ masochistico.

Però se è vero che nella coscienza collettiva questo elemento della libertà individuale ha oggi una forte valenza, dobbiamo farci i conti e affrontare il problema della libertà e dell’autonomia delle persone in una società competitiva rovesciando il discorso della destra: non è affatto vero che la società competitiva esalta l’autonomia della persona, anzi rischia di soffocarla, tranne pochi eletti che hanno la forza economica e culturale per emergere. Questo meccanismo competitivo finisce per stritolare e costringere le persone a una rincorsa continua, a una vita frenetica per cercare di stare a galla rischiando in ogni momento di passare nella categoria degli esclusi.

Allora non è vero che la politica è oppressione, è necessaria come intervento regolatore che dà vita a una griglia di protezione sociale, necessaria per impedire che questa vita collettiva diventi soltanto la lotta di tutti contro tutti.

Una questione che vorrei riprendere è quella del mondo cattolico, e sarebbe interessante una discussione un po’ più approfondita sul tema. Sicuramente ci sono elementi di convergenza di una parte del mondo cattolico con queste tendenze di destra, anche se può sembrare strano che possano convergere da una parte il rifiuto delle ideologie, la piena laicizzazione della politica e dall’altra l’integralismo alla Formigoni.

Il punto di convergenza è possibile sulla base di certe posizioni di pessimismo teologico per cui la città umana è una città di vizi, quindi l’unica compensazione possibile è la fede religiosa, la comunità come chiusura e contrappeso ai processi sociali.

Nello stesso tempo c’è una parte grande del mondo cattolico, il cattolicesimo democratico, che ha messo in forte rilievo il valore della vita sociale. La Chiesa, non a caso oggi, venuta meno questa sorta di contenitore che era la Democrazia cristiana, si divide e presenta posizioni differenziate. Questa parte del mondo cattolico che dalle convinzioni religiose ricava l’esigenza di un agire sociale è una parte consistente: una rete di movimenti, di culture, di posizioni che non ci stanno a un’accettazione passiva dei meccanismi competitivi. Non vorrei che dalle cose che diceva Poggio si ricavasse l’idea che la Chiesa ha fatto una scelta. Mi pare che siano presenti dinamiche molto differenziate.

Ultime due osservazioni. Non contrapporrei le dinamiche che investono il Nord a quello che succede nel Mezzogiorno, è vero che questi processi che ha descritto molto ampiamente Bonomi sono presenti soprattutto nel Nord-Est, condivido tutte le cose che dicevi sul capitalismo di seconda schiera e sul fatto che lì c’è stata un’innovazione molto forte, non si tratta di bottegai, è una cosa vera, elemento di forza e di debolezza dell’economia italiana. Debolezza perché se non c’è una politica industriale e di ricerca queste realtà hanno il fiato corto.

Però dire che al Nord c’è innovazione e al Sud soltanto il clientelismo e il parassitismo mi pare una cosa un po’ vecchia, perché le dinamiche di modernizzazione sono presenti anche nel Sud: la fabbrica più moderna l’hanno fatta a Melfi. Consiglierei di non esasperare una contrapposizione dicotomica secondo la quale il Nord e il Sud rispondono a logiche completamente diverse. Secondo me ci sono dinamiche comuni e, anche se il Sud è più indietro, sta imboccando la stessa strada in una condizione di maggiore difficoltà.

Infine è sempre più difficile ricondurre questi processi a una logica di classe; dai dati elettorali, dalle analisi, dalle indagini sociologiche che ho avuto occasione di vedere mi pare che quello che ha caratterizzato queste ultime prove elettorali è il fatto che non c’è una significativa ragione sociale nel voto alla destra o alla sinistra. Il lavoro dipendente vota come l’intero paese, per cui viene meno quello che era un elemento caratteristico del sistema politico italiano, anche se da tempo i comportamenti elettorali si sono intrecciati. Prima una caratterizzazione sociale era sicuramente visibile nel voto al Pci, c’era un elemento di classe, registrabile anche sul piano proprio della ricognizione sociologica.

Oggi c’è meno la possibilità di vedere il rapporto tra destra e sinistra come un rapporto tra mondi sociali opposti, le cose sono più complicate. Nel momento in cui viene meno il mito di una società altra in cui i proletari prendono il potere, quando la sinistra, che certo non dice che il capitalismo è una società naturale, ma afferma che è l’orizzonte di questa epoca, viene meno, appunto, l’idea di un rovesciamento di classe.

Bonomi: Siamo entrati nella società della moltitudine: tanti soggetti, segmenti sociali e categorie, senza più riferimenti di classe. Credo importante, se la destra tenta una presa diretta plebiscitaria, ricostruire i luoghi intermedi della rappresentanza. Credo che il sindacato debba cominciare a rappresentare spezzoni di neoborghesia. Per esempio il sindacato della ricerca non si limiti alle università, ma abbia presente i processi di terziarizzazione avvenuti in una società nella quale ci sono valori che non fanno riferimento a una cultura della competitività intesa come eliminazione del nemico. Secondo la sua etimologia “competere” vuoi dire comunicare e fare assieme. Mi piacerebbe un sindacato attento a nuove forme di rappresentanza e che – perché no? – si ponesse il problema della rappresentanza del lavoro indipendente: Può sembrare una contraddizione, ma è pensabile un sindacato che organizza solo ed esclusivamente il lavoro normato? Il lavoro indipendente non va inteso solo secondo la logica del lavoro autonomo che deriva dall’impresa, ma come ristrutturazione capitalistica che esternalizza funzioni che prima stavano nelle imprese. Credo che un sindacato che acquisisca il concetto di moltitudine possa fare molto rispetto al discorso della presa diretta plebiscitaria. Dico questo perché l’osservazione di Terzi è giusta, lo slogan che ho citato: “produrre per competere a Nord e competere per sopravvivere a Sud”, dà il senso di un sistema spaccato. Così non è. Ho visto nel Mezzogiorno un sindacato che credevo completamente azzerato sulla politica dello scambio e che invece, a fronte di una logica che sembrava aver chiuso con l’intervento straordinario anche la questione sociale del Mezzogiorno, ha saputo reagire ed essere protagonista locale nel fare progettazione dal basso, concertazione locale tra tutti gli attori, selezionare progetti e, ad esempio, ha portato avanti quelli che vengono chiamati i “patti territoriali per lo sviluppo” che sono una nuova forma locale di riprogettare la propria qualità del vivere.

Poggio: Ho sottolineato l’importanza che dovrebbe avere l’analisi delle culture di destra, ma sono convinto che la destra non è affatto piazzata bene. Mi spiego: la nuova destra propone una risposta solo e strettamente culturale al capitalismo, abbandona il terreno politico, sa che non potrà diventare un soggetto politico, non ha interessi immediati ai meccanismi istituzionali di governo della società, dà una risposta culturale che si rivolge a un pubblico giovanile, con un effetto di neutralizzazione. La destra tradizionale, Alleanza Nazionale, da questo punto di vista non manifesta un vero rinnovamento culturale. Ho avuto occasione di sentire uno dei loro cervelli dal punto di vista economico, ripropone una sorta di neocorporativismo. Anche per questo sottolineavo con stupore l’intervento di settori (non so quanto marginali) della Chiesa che danno una valutazione a un tempo troppo bassa del livello di elaborazione della sinistra e troppo legata all’immagine del pericolo comunista, non tanto alla vecchia maniera, ma proprio perché la ritengono legata ai processi di modernizzazione, al laicismo, all’individualismo spinto che vedono gestiti dalla sinistra più che dalla destra. Sono del tutto d’accordo che il settore su cui si deve puntare è il referente sociale di Forza Italia, perché subisce qualcosa di assolutamente insostenibile, questa storia del capitalismo come stato di natura non regge. C’è un corto circuito, un processo di de-emancipazione; cioè si dice: abbandoniamo la politica e affidiamoci al leader. Addirittura attraverso i media. Siamo ampiamente d’accordo: non c’è assolutamente una sopravvalutazione della forza culturale, programmatica della destra, c’è piuttosto il fatto che per troppo tempo non si è posta attenzione ai processi innescati negli anni ‘80 e forse anche da prima.



Numero progressivo: B6
Busta: 2
Estremi cronologici: 1995, 22 maggio
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 19, 22 maggio 1995, pp. I-XI