IL FEDERALISMO E IL MEZZOGIORNO
Convegno CGIL Calabria - Rende 10 febbraio 1995
Il testo che segue è la relazione tenuta da Riccardo Terzi al convegno su “Federalismo e Mezzogiorno” organizzato dalla CGIL della Calabria il 10 febbraio scorso a Rende (Cosenza)
La discussione intorno a un’ipotesi di riforma federalista dello Stato va affrontata non astrattamente, come se si trattasse solo di una questione teorica, di dottrina politica, ma nel contesto di tumultuosa evoluzione e di instabilità del sistema politico-istituzionale nel quale ci troviamo.
Siamo nel mezzo di una crisi tutt’altro che risolta. Le domande di rinnovamento della politica, di riforma delle istituzioni, di costruzione di un sistema democratico più vicino ai cittadini, più trasparente, più controllabile non hanno ancora trovato uno sbocco. Non basta certo l’introduzione di una nuova legge elettorale per risanare una crisi così profonda, e quello che sta avvenendo in Italia, da un anno ad oggi, ha più i caratteri del trasformismo che non quelli del cambiamento. Sono cambiati i nomi, i simboli, le immagini della politica, e c’è nell’aria una grande ventata di retorica, la quale consiste, appunto, nell’attribuire più importanza alle parole che alle cose.
La nuova Italia, questa tanto reclamizzata seconda Repubblica, continua a portare con sé tutti gli antichi vizi, le storture e le contraddizioni che hanno segnato la nostra storia.
C’è una pericolosa tendenza alla semplificazione: il bipolarismo, la scelta del premier, il principio del maggioritario. Una concezione astratta della politica, come se fossero gli unici problemi. E in questa semplificazione si racchiude un’idea autoritaria-plebiscitaria del tutto estranea alla grande tradizione democratica dell’Europa. Per questo c’è bisogno di scavare sotto la superficie e di vedere i reali problemi del paese, di non restare prigionieri della retorica e di afferrare la sostanza reale delle cose, e quindi i problemi concreti, materiali, di funzionamento dello Stato. Per superare la crisi va ridefinito il modello istituzionale nel suo complesso, vanno fissate le nuove regole, costruito un nuovo equilibrio dei poteri. Il federalismo può allora essere assunto come una possibile chiave per la riforma democratica dello Stato, per una riforma che investa non solo la sfera astratta della politica, ma la struttura dell’amministrazione pubblica e il suo rapporto con i bisogni concreti della società.
Il governo di centro-destra si è mosso in tutt’altra direzione, nel senso della massima concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo, il quale così si propone come unico ed esclusivo centro regolatore della vita pubblica. Del federalismo non c’è stata nessuna traccia nella concreta azione di governo, si sono al contrario accentuati gli elementi di centralizzazione. La Lega Nord non ha saputo rappresentare un efficace contrappeso ed è stata progressivamente neutralizzata e assorbita, e certamente sta qui una delle cause della crisi politica che è esplosa, maturata per la sempre più evidente divaricazione di linee e di prospettive politiche.
La provvisoria soluzione di tregua rappresentata dal governo Dini non sposta i termini del problema, quale che sia la durata dell’attuale governo. Si scontrano infatti due opposte concezioni, due opposti modelli, e questo scontro non può che assumere una grande asprezza, proprio perché sono in gioco questioni di principio. Per lo schieramento di destra il problema è solo quello di ottenere un’investitura plebiscitaria, e di procedere conseguentemente a una concentrazione totale del potere facendo saltare tutti gli strumenti di garanzia, di contrappeso istituzionale, di divisione equilibrata dei poteri.
La “seconda Repubblica” viene teorizzata come estrema esasperazione della logica del maggioritario, per cui c’è un unico vincitore e chi vince ha il controllo totale, e tutte le diverse funzioni istituzionali si debbono adeguare e debbono rispondere a un unico centro di comando. Di qui vengono i conflitti istituzionali di questa fase, lo scontro con la magistratura, con la presidenza della Repubblica, con la Corte costituzionale, con la Banca d’Italia, con la libera informazione, con il sindacato.
Fini può anche rimuovere i suoi rapporti storici con il fascismo, ma quello che accade oggi, quelle che sono oggi le intenzioni dichiarate della destra rappresentano una rottura dell’equilibrio costituzionale. E il nostro giudizio a questo si riferisce al presente, agli atti politici concreti, non ai fantasmi ideologici del passato. La destra, questa destra, si presenta con un progetto di eversione, con un modello di organizzazione autoritaria dello Stato.
L’alternativa da costruire, se questo oggi è concretamente il pericolo, non può che essere in un sistema di garanzie e di divisione dei poteri, in una riforma dello Stato che realizzi il massimo di articolazione democratica, sulla base dei princìpi di autonomia e di autogoverno.
Questo può essere il federalismo, un’idea dello Stato come sistema di autonomie, come equilibrio e divisione dei poteri, ciascuno dei quali dispone di una propria autonoma sovranità e responsabilità nel suo proprio ambito.
Sotto il profilo costituzionale l’ipotesi federalista rappresenta un’innovazione forte, ma anche, nello stesso tempo, un’evoluzione coerente dei princìpi di autonomia regionale e di autogoverno locale. Il modello configurato dalla nostra Costituzione si è attuato male e in ritardo, e non ha preso corpo una vera cultura regionalista, sia per il permanere di vincoli e di controlli centralistici, sia per la debolezza delle classi dirigenti locali che hanno svolto solo un ruolo di mediazione in un rapporto di dipendenza dai centri politici nazionali. Le Regioni hanno finito così per essere delle pesanti strutture burocratiche che hanno riprodotto al loro interno tutti i difetti della burocrazia ministeriale, e non hanno esercitato una vera e autonoma funzione politica e di governo.
La Costituzione è rimasta incompiuta e oggi scegliamo di esplorare l’ipotesi federalista proprio per segnare un momento di svolta, di rottura, per andare oltre i limiti del regionalismo così come lo abbiamo sperimentato in questi anni. Per un’operazione di questa portata saranno necessarie anche modifiche costituzionali, ma non occorre riscrivere la Costituzione né rimettere in discussione i suoi princìpi fondamentali. Non convince perciò la proposta di dar vita a una nuova assemblea costituente, perché ciò può significare solo che l’intera Costituzione è ormai inutilizzabile, e significa perciò accettare il terreno della destra, e offrire lo spazio e gli strumenti per realizzare i suoi obiettivi di rottura dell’equilibrio istituzionale.
Occorre invece un’operazione più circoscritta e delimitata, che individui quelle modifiche e integrazioni che sono oggi necessarie, come aveva già cominciato a fare nella passata legislatura la Commissione bicamerale, e prenda in esame le diverse ipotesi e proposte che nel frattempo sono state elaborate. C’è ormai una letteratura abbastanza copiosa: contributi di forze politiche, di singoli studiosi, di centri di ricerca come la fondazione Agnelli, fino alle proposte messe recentemente a punto dalla Commissione Speroni.
Nel corso di questo cammino il tema del federalismo, che all’inizio era stato immesso nel dibattito politico per iniziativa della Lega e sulla base di un’impostazione al limite del separatismo etnico, ha assunto via via caratteri nuovi, democratici, e si configura oggi non più come una proposta eversiva, di rottura dell’unità e della solidarietà nazionale, ma al contrario come un nuovo possibile patto unitario, come un progetto di nuova distribuzione dei poteri e di sviluppo dell’autogoverno locale.
Discutere di federalismo non vuol dire quindi solo discutere con la Lega, né tantomeno accettarne le posizioni. Il progetto di nuova costituzione federale approvato dalla Lega Nord all’assemblea, di Genova, che resta allo stato attuale la posizione ufficiale del movimento, non è per molti aspetti accettabile, anche se certamente c’è stata una certa evoluzione. Non è accettabile in primo luogo il proposito di una riscrittura generale della Costituzione, per le ragioni prima dette, e perché proprio in questo testo trovano piena conferma le nostre riserve di principio: viene adottata un’ispirazione liberista che stravolge la Costituzione nel suo impianto sociale. Si passa da una Repubblica fondata sul lavoro a una Repubblica fondata sul mercato.
In secondo luogo l’architettura istituzionale proposta risulta essere un compromesso pasticciato e barocco, con la sovrapposizione di due livelli – le attuali Regioni e gli Stati – di cui non si comprendono le rispettive funzioni, e con una nuova delimitazione territoriale di cui sfugge la razionalità. Alla fine il federalismo, in questa proposta, appare solo come un’aggiunta posticcia, che si sovrappone all’attuale struttura senza innovarla profondamente dall’interno e che sembra destinata perciò a produrre solo un sovrappiù di burocrazia e di inefficienza.
Mentre dunque sembra essere in crisi la proposta della Lega, si sta in varie forme affermando nel paese l’idea di un federalismo democratico, solidale, e in questo filone di ricerca si colloca anche la nostra riflessione. In questa prospettiva il federalismo non è separazione o rottura dell’unità nazionale, ma è la ricerca di nuovi e più efficaci strumenti per garantire la coesione nazionale, e si inquadra nel più largo processo di unità europea.
Già nel Trattato di Maastricht è contenuta un’importante affermazione politica con il riconoscimento del principio di sussidiarietà, il che significa favorire il massimo decentramento possibile delle funzioni di governo e quindi assegnare non solo agli Stati ma anche alle Regioni e agli enti locali un loro ruolo nell’ordinamento europeo, e da ciò consegue anche una concreta innovazione istituzionale con la formazione del comitato delle Regioni. Si configura così, almeno tendenzialmente, un ordinamento politico complesso, nel quale si integrano livelli di governo diversi, si corregge il carattere esclusivo e chiuso degli Stati nazionali, e si articolano i poteri e le competenze in rapporto alla dimensione reale dei problemi che si debbono affrontare.
Un movimento in questo senso è in atto in tutti i maggiori paesi europei: che si tratti di Stati che già hanno una struttura federale o di Stati a tradizione unitaria appare ovunque una tendenza verso una maggiore articolazione dei poteri, e la nostra discussione sta dentro questo contesto.
A differenza di altri paesi in Italia non esistono rilevanti problemi di carattere etnico-linguistico. Il federalismo quindi, per noi, non risponde a una domanda di identità etnica separata, com’è ad esempio nel caso del Belgio, ma risponde esclusivamente a una domanda democratica di autogoverno, il che esclude quindi in radice qualsiasi orientamento di tipo separatista. L’autogoverno può compiere un nuovo salto in avanti, spezzando la trama dei vincoli centralistici che l’hanno fin qui irretito e spesso mortificato se si rovescia concettualmente il rapporto tra Stato centrale e poteri locali, se si ragiona non più in termini di decentramento, di delega di competenze, ma di riconoscimento di poteri primari, e in questo rovesciamento sta appunto l’essenza del federalismo. Lo Stato centrale, in questa ottica, è solo uno dei livelli dell’ordinamento, non è il depositario unico di un potere che tuttalpiù può essere delegato. Allo Stato centrale competono solo quelle materie indivisibili, essenziali a garanzia dell’unità nazionale. Se questa è la ratio di una riforma federalista dello Stato, si tratta allora di entrare nel merito concreto dei singoli problemi e di studiare le possibili ipotesi di riorganizzazione delle competenze.
Trattandosi di una materia assai complessa vogliamo evitare di fornire delle ricette troppo sommarie, perché in ogni campo occorre uno studio accurato prima di poter formulare delle proposte. E in molti casi si tratta di combinare l’autogoverno delle Regioni con il mantenimento di alcune fondamentali funzioni di indirizzo da parte del Parlamento nazionale a garanzia dell’universalità dei diritti di cittadinanza. Il punto di arrivo di questa ricerca deve essere la definizione chiara di uno spazio di autonomia, con il necessario raccordo tra competenze e risorse disponibili, e con una piena responsabilità dei governi locali nell’uso delle risorse proprie, eliminando quindi il meccanismo dei trasferimenti vincolati.
Sanità, trasporti, istruzione, politiche industriali e di sviluppo, beni ambientali e culturali, mercato del lavoro: su ciascuno di questi terreni possono essere messe a punto nuove proposte e si può aprire un campo molto vasto di ricerca e anche di sperimentazione. L’obiettivo è la costruzione di sistemi territoriali integrati e capaci di autogoverno. Da ciò dipendono le possibilità di sviluppo del paese, del Mezzogiorno in primo luogo, che non possono essere lasciate alla spontaneità del mercato perché richiedono un insieme coordinato di interventi, per creare un ambiente favorevole allo sviluppo, un “sistema”, appunto, fatto di infrastrutture, di servizi, di attività formative, di ricerca, di tutela ambientale.
Occorre dunque creare un circolo virtuoso tra autogoverno e sviluppo, tra democrazia ed efficienza. È questa la scommessa fondamentale del progetto federalista, e per questa scommessa non basta riformare la macchina dello Stato, ma occorre anche un’iniziativa delle forze sociali, un loro ruolo attivo con la definizione di nuovi strumenti di partecipazione e di concertazione. La critica dello statalismo burocratico e centralizzatore richiede la messa in campo di un progetto non solo politico ma sociale, capace cioè di attivare le energie della società civile, e quindi anche il federalismo sarà vitale solo se riuscirà ad essere il centro organizzatore dell’intero tessuto sociale, se non sarà solo un riequilibrio burocratico delle competenze.
La difficoltà maggiore per un paese come l’Italia è l’esistenza di squilibri territoriali fortemente accentuati tra il Nord e il Sud del paese, in una misura che è sconosciuta a qualsiasi altro paese europeo, che espone la vita nazionale a rischi e a tensioni che possono divenire esplosive.
È questo il nostro problema politico principale, prioritario, ed è in rapporto ad esso che si misura la validità di qualsiasi progetto di riforma dello Stato. Il federalismo deve fare i conti con questo grande nodo storico-politico, e deve dimostrare di poter conseguire risultati più soddisfacenti rispetto a quelli prodotti dalla pratica di centralizzazione.
È possibile questo obiettivo, è compatibile il progetto federalista con le istanze di riscatto delle Regioni del Mezzogiorno? Federalismo e Mezzogiorno sono due aspetti che spesso vengono presentati come inevitabilmente contrapposti. Noi riteniamo che questa contrapposizione sia immotivata, che non c’è nessuna ragione di principio per cui il federalismo debba essere inteso come spirito di rivalsa, come egoismo delle Regioni forti, come la definitiva rottura della coesione nazionale.
Di fronte a concezioni di questa natura, che in modo irresponsabile sono state per un certo periodo incoraggiate e alimentate, fino al limite dell’intolleranza razzista, la nostra è una posizione di polemica frontale, di rifiuto incondizionato. Ma, se guardiamo a tutta l’esperienza storica, emerge piuttosto che lo Stato centralizzato ha funzionato spesso come strumento di colonizzazione delle aree deboli, e così è stata anche la storia dell’unità d’Italia, mentre la domanda di autonomia è insieme una domanda di sviluppo autocentrato, non dipendente dall’assistenzialismo statale.
D’altra parte se prendiamo in esame l’esperienza più significativa di organizzazione federale dello Stato, quella della Repubblica federale tedesca, vediamo come essa abbia garantito una fortissima coesione nazionale, e come oggi, di fronte ai nuovi squilibri sociali ed economici con le regioni dell’Est, sia in atto uno straordinario impegno di solidarietà. Noi concepiamo così il federalismo, come un nuovo modello istituzionale che ridefinisce le condizioni della solidarietà e della coesione nazionale, e che punta sulle risorse dell’autonomia come un’occasione e una leva per una nuova qualità dello sviluppo. Il Mezzogiorno deve partecipare a pieno titolo alla definizione del nuovo progetto istituzionale. Non è la vittima sacrificale, ma un protagonista indispensabile. Rompendo i vecchi rapporti di dipendenza dallo stato centrale e mettendo in moto un processo di responsabilità e di autonomia si può innescare un nuovo sviluppo, e l’autogoverno può essere la nuova fondamentale risorsa per il riscatto economico e politico delle Regioni del Sud.
Per realizzare un “federalismo unitario e solidale”, come lo ha definito con formula felice la ricerca della Fondazione Agnelli, la prima condizione è un’intesa sulla distribuzione delle risorse, ovvero sul modello di federalismo fiscale. Anche in questo campo abbiamo molte proposte sul tavolo (dalla relazione Giarda al Libro bianco di Tremonti, dalle proposte del gruppo progressista a quelle della Fondazione Agnelli), e c’è un nucleo di principi ispiratori comuni che possono essere considerati acquisiti, mentre esistono ancora molte variabili tecniche possibili che richiedono ulteriori approfondimenti.
L’obiettivo del federalismo fiscale è quello di garantire condizioni di autonomia, di responsabilità e trasparenza, in modo che ci sia un rapporto visibile e controllabile tra pressione fiscale e destinazione delle risorse. E in secondo luogo è necessario un efficace meccanismo di perequazione, per garantire che i fondamentali diritti di cittadinanza siano ugualmente tutelati in ogni parte del paese. Tutto ciò può realizzarsi con l’assegnazione alle Regioni sia di tributi propri sia di una quota di compartecipazione ai tributi nazionali, mentre la perequazione può avvenire in modo orizzontale, all’interno del sistema delle Regioni e del suo fabbisogno complessivo, con una solidarietà trasparente tra regioni forti e regioni deboli.
Occorre cioè superare la logica dei trasferimenti assistenziali, e creare le condizioni perché in tutte le regioni si avvii un processo virtuoso di responsabilizzazione e di utilizzo efficiente delle risorse. Questo è di grande importanza per le regioni del Mezzogiorno nelle quali si è determinato un circuito perverso tra inefficienza locale e assistenzialismo statale che impedisce una seria politica di sviluppo e favorisce l’intermediazione di tipo mafioso tra politica e affari.
Con il processo di riforma federalista dello Stato si valorizza quindi l’autonomia dei diversi sistemi territoriali, che possono darsi un proprio progetto per quanto riguarda l’uso delle risorse e le modalità di sviluppo, mentre nel contempo devono essere garantiti i diritti universali. Universalità dei diritti non significa uniformità, non significa l’adozione di un unico modello organizzativo e burocratico deciso centralmente, ma al contrario può esserci una sperimentazione differenziata, aderente ai diversi contesti regionali, purché ciò avvenga nel quadro dei principi costituzionali e degli indirizzi della legislazione nazionale. Non essendo possibile tracciare con una linea netta il confine tra le competenze centrali e quelle decentrate, ci sembra indispensabile una riforma degli organi legislativi nazionali, con l’introduzione di una Camera delle Regioni, in modo che le Regioni possano partecipare direttamente all’elaborazione legislativa. Il modello da adottare può essere simile a quello del Bundesrat tedesco, come organo rappresentativo dei governi regionali, con elezione di secondo grado, e come sede di regolazione dei rapporti tra Stato centrale e Regioni e di definizione dei criteri di solidarietà e di cooperazione tra le Regioni stesse. Va quindi trasformato l’attuale sistema bicamerale, che assegna ai due rami del Parlamento le medesime funzioni con modalità di elezione, e quindi di rappresentanza politica, sostanzialmente equivalenti, con il risultato di produrre solo un’inutile duplicazione e un allungamento non giustificato dei tempi della decisione.
In termini analoghi può essere impostato anche il rapporto tra Regione ed enti locali, con la formazione di un Consiglio degli enti locali che si affianchi al Consiglio regionale e che sia dotato di poteri non solo consultivi. Nella realtà italiana non può minimamente essere sottovalutata la grande tradizione di autonomia e di vitalità democratica che è rappresentata dai Comuni, i quali costituiscono il primo fondamentale anello della vita democratica e lo strumento essenziale del rapporto tra i cittadini e l’ordinamento politico.
Il federalismo quindi non può essere solo concepito al livello delle Regioni ma deve essere un sistema più complesso e articolato che valorizzi nel loro insieme tutti gli istituti dell’autogoverno locale, ai diversi livelli. Il principio-guida è il massimo di decentramento possibile dei compiti di governo, dallo Stato centrale alle Regioni, e dalle Regioni agli enti locali, evitando così che si riproducano nuove forme di centralizzazione. Ma, mentre il sistema delle autonomie locali ha avuto complessivamente uno sviluppo positivo, e oggi in particolare viene rilanciato il ruolo dei Comuni, dopo la riforma elettorale e l’elezione diretta dei sindaci, è la Regione il nodo critico, l’anello debole di tutto il sistema. Solo un rilancio effettivo delle Regioni può avere effetti rilevanti di riorganizzazione dell’intera macchina dello Stato, perché un decentramento reale e significativo delle funzioni di governo può avvenire solo in una dimensione territoriale sufficientemente estesa, in grado di configurare un sistema territoriale complesso.
Le Regioni quindi dovranno essere la struttura portante del nuovo ordinamento, con compiti effettivi di governo, di regolazione economica, di programmazione territoriale, e anche con funzioni di tipo ordinamentale nel rapporto con gli enti locali (aree metropolitane, competenze delle province, interventi perequativi nella distribuzione delle risorse). E soprattutto, se davvero vogliamo incidere sulla macchina amministrativa e tentare una sua riforma in profondità, occorre affermare il principio che l’amministrazione dello Stato sul territorio è affidata alla Regione e agli enti locali, anche per le materie che sono regolate dalla legislazione nazionale, che lo Stato dunque non è una realtà separata, una struttura burocratica che si sovrappone alle realtà locali, ma al contrario lo Stato è l’articolazione dei poteri autonomi di Regioni, Province, Comuni.
Per questa via si può avviare una riforma profonda dell’intera amministrazione pubblica, ridisegnando competenze, strutture organizzative, modelli gestionali, relazioni sindacali, in un rapporto nuovo con i bisogni della collettività, con i diritti dei cittadini, con gli obiettivi di qualità del servizio pubblico.
Può essere in prospettiva razionale e opportuno un accorpamento tra le Regioni attuali per dar luogo a un sistema regionale più omogeneo sotto il profilo dell’estensione territoriale e della forza economica. Ma questa non può essere una precondizione. Il progetto federalista rischierebbe di impantanarsi, prima di poter compiere i primi passi, in una disputa insolubile, bloccata dal peso delle tradizioni, delle identità, delle appartenenze. Mi pare più logico affidare ogni decisione in questo campo all’esperienza, alla maturazione che può avvenire nella coscienza dei cittadini e delle classi dirigenti, a un processo volontario che nasce dal basso con il consenso delle popolazioni interessate. Partiamo quindi dalle attuali regioni, escludendo operazioni verticistiche di ridefinizione dei confini.
Per quanto riguarda la distinzione tra Regioni a statuto speciale e Regioni ordinarie essa dovrà essere in prospettiva superata, in quanto viene elevato il livello complessivo di autonomia delle Regioni, ferme restando le esigenze peculiari di tutela delle minoranze etniche e linguistiche, che richiedono particolari ordinamenti giuridici. Se questo può essere il modello di una nuova forma di stato, l’obiettivo da raggiungere con un’appropriata azione riformatrice, è chiaro che si tratta di un processo lungo e complesso, proprio perché esso riguarda la struttura materiale dello Stato e dell’amministrazione pubblica, il suo funzionamento concreto, e coinvolge strutture, uomini, tradizioni, culture politiche. Dovrà quindi essere messa a punto una strategia di gradualità, di approssimazione, di riformismo realistico, evitando le facilonerie, ed evitando che il federalismo sia solo una bandiera propagandistica, uno slogan, un evento mitico, mentre nella realtà tutto continua come prima.
Ciò che importa è aver chiara la direzione di marcia, e fissare modi, tempi, tappe di questo processo, agendo sui diversi versanti: costituzionale, legislativo, amministrativo, fiscale, in una visione coerente e coordinata. Il primo appuntamento politico è l’elezione dei nuovi Consigli regionali, che a norma di legge dovrà avvenire entro il mese di aprile di quest’anno. Si tratta di Consigli regionali che ormai si trascinano stancamente, e che in questi anni, così densi di cambiamenti politici, hanno perduto gran parte della loro rappresentatività. È evidente quindi l’urgenza di nuove elezioni e sarebbero deleterie ipotesi di rinvio.
Nello stesso tempo, però, è necessario che questo rinnovo avvenga con nuove regole, con una nuova legge elettorale. È questo uno dei punti programmatici dell’attuale governo, e occorre il massimo sforzo unitario per giungere, nei tempi previsti, alle necessarie deliberazioni parlamentari. Votare con la legge attuale significherebbe lasciare le Regioni in una condizione di precarietà, perché con ciò si riprodurrebbe uno stato di frammentazione, di instabilità, mentre al contrario è necessario creare le condizioni perché si formino davvero nuove classi dirigenti regionali, autorevoli e rappresentative. Occorre dunque una legge che favorisca la formazione di coalizioni politiche e conseguentemente di governi regionali legittimati dal voto dei cittadini, analogamente a quanto è avvenuto nei Comuni, e occorre anche una soluzione equilibrata che eviti un’eccessiva semplificazione della rappresentanza.
I nuovi Consigli regionali e i nuovi governi regionali dovranno essere i protagonisti della riforma federalista, dovranno gestire una fase delicata e impegnativa di riorganizzazione dei poteri, una fase che avrà per le Regioni un carattere di tipo costituente. Non possiamo quindi permetterci di affrontare il prossimo appuntamento elettorale senza vederne tutte le implicazioni e senza inquadrarlo in una chiara strategia politica.
In questa fase, dunque, nel processo politico dei prossimi mesi, si deciderà, in un senso o nell’altro, l’evoluzione del nostro sistema democratico, nella direzione di un accentramento autoritario o in quella di una diffusione democratica e di una più equilibrata divisione dei poteri. Il sindacato non può essere disinteressato e neutrale, ma anzi può giocare un ruolo importante, forte del suo prestigio e della sua larga capacità rappresentativa del mondo del lavoro e di bisogni sociali diffusi. Quello che è in gioco ci riguarda direttamente, perché senza una robusta articolazione democratica e senza un sistema di garanzie anche gli spazi dell’iniziativa sindacale sarebbero inevitabilmente ristretti. Noi quindi decidiamo di prendere posizione, e scegliamo coscientemente di collocarci in una prospettiva federalista, con le motivazioni e con i contenuti che abbiamo cercato di illustrare, con il respiro di una proposta unitaria e nazionale, che parla all’intero paese e apre una prospettiva nuova di sviluppo anche per le Regioni del Mezzogiorno. Ci impegniamo quindi a definire, in questa direzione, una nostra proposta, nel confronto unitario con le altre confederazioni e nel dibattito che dovremo fare al nostro Congresso intorno alle scelte strategiche della CGIL.
Se assumiamo come orizzonte la riforma federalista dello Stato, ne derivano conseguenze impegnative anche per quanto riguarda il funzionamento interno dell’organizzazione e il sistema delle relazioni sindacali. Siamo tuttora un’organizzazione eccessivamente rigida e centralizzata, e non abbiamo ancora saputo esplorare tutte le possibilità di innovazione che possono maturare in una prassi sindacale di tipo nuovo, articolata, decentrata, legata ai diversi contesti regionali. È un tema di straordinario rilievo, sul quale dobbiamo darci a breve degli appuntamenti veri di discussione, di confronto e di ricerca. Nella preparazione del congresso questo dovrà essere uno degli impegni più significativi, per dare alla prospettiva federalista tutta la sua possibile pregnanza, non solo come modello istituzionale, ma come nuovo modo di organizzazione dell’intera vita sociale.
È solo l’inizio di un lavoro, un primo tentativo di sistemazione, e mi pare di grande rilievo politico il fatto che questo avvenga in una Regione del Sud, con il contributo e la partecipazione attiva delle nostre strutture meridionali, che hanno deciso così di essere in prima fila nella battaglia per la riforma dello Stato, per una nuova e più avanzata democrazia.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1995, 10 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: Bozza con piccole differenze rispette al testo a stampa
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 8, 6 marzo 1995, pp. 42-46