LA QUESTIONE SETTENTRIONALE

Dopo il voto. Com’è cambiato e come sta cambiando il Nord

di Riccardo Terzi

Il voto del 27-28 marzo e quello del 12 giugno per le europee hanno messo in evidenza -in una misura di gran lunga superiore a tutte le occasioni precedenti -un processo di straordinaria mobilità elettorale, che ha modificato in profondità la struttura e l’equilibrio delle forze politiche.

Nel breve periodo di due anni, dal ‘92 al ‘94, dopo che già nel ‘92 i segni di crisi del vecchio sistema politico erano apparsi in tutta evidenza, vi è stata un’ulteriore fortissima accelerazione dei processi politici, dando luogo a una situazione radicalmente nuova. È ormai evidente che il problema all’ordine del giorno è la costruzione di un nuovo sistema, di un nuovo equilibrio di forze, e che non vi sono più per nessuno rendite di posizione garantite.

Proprio per il carattere tumultuoso che l’intero processo ha assunto è difficile pensare che l’equilibrio si sia stabilizzato. L’ipotesi più realistica è che siamo tuttora in una situazione di grande fluidità e incertezza, nella quale le grandi ondate che hanno investito l’opinione pubblica non hanno ancora trovato un approdo stabile, e permane uno stato di turbolenza. Per questo i tentativi di analisi e di interpretazione vanno riferiti non a una situazione statica, ma debbono piuttosto cercare di afferrare la dinamica del processo politico e le sue possibili evoluzioni.

Che un tale impegno di analisi sia indispensabile anche per il sindacato mi pare del tutto evidente, perché la portata dei cambiamenti è tale da investire l’intera società e non solo il sistema politico nel suo significato più ristretto, perché dunque anche il sindacato è direttamente coinvolto in questo passaggio di fase, e pertanto, senza un’analisi aggiornata, rischiamo di ragionare con categorie di giudizio che non hanno una rispondenza nella realtà, il che significa lavorare alla cieca.

L’epicentro del cambiamento è nelle regioni del Nord: la Lega Nord ha avuto indubbiamente una funzione essenziale di sfondamento e di rottura, iniziando come movimento localistico circoscritto e via via allargando sia il suo radicamento sociale sia le sue ambizioni politiche.

E ora si delinea un’operazione più ampia, che va oltre il movimento di protesta rappresentato dalla Lega, affermandosi come operazione di governo. Forza Italia è lo strumento per questa operazione, che rompe i confini ristretti del Nord per assumere un carattere nazionale.

Restano aperti molti interrogativi, circa l’effettiva portata e solidità di questo progetto, circa la dinamica e le contraddizioni tra le sue diverse componenti, circa la sua possibile vocazione autoritaria e la tendenza all’instaurazione di un nuovo regime, e su tali questioni farò qualche considerazione più avanti, con l’avvertenza che si tratta di aspetti non ancora chiariti a sufficienza, non suscettibili quindi di una risposta conclusiva. Continuo a ritenere, anche dopo le elezioni europee, che siamo nel mezzo di una transizione incerta, aperta a diversi sviluppi, con molti elementi di fragilità, e che sarebbe quindi errato un giudizio che ci porti a ritenere come compiuto e realizzato un nuovo sistema di dominio, un nuovo blocco di potere.

Occorre anzitutto avere chiara la dimensione reale dei fatti, per non subire passivamente la retorica aggressiva dei vincitori, che si presentano come i fondatori di un nuovo Stato, e che fanno datare dal 28 marzo l’inizio fatidico della seconda Repubblica.

Non si può assolutamente parlare, a mio giudizio, di seconda Repubblica, perché non c’è stato nessun mutamento nella forma istituzionale dello Stato. Il problema della nuova architettura istituzionale è ancora tutto aperto e sarà materia del confronto -probabilmente del conflitto politico -nei prossimi mesi. Per ora c’è solo un ricambio di ceto politico, non una riforma dello Stato. La novità -certo rilevante -è la nuova legge elettorale maggioritaria, dalla quale dipende la formazione dell’attuale maggioranza parlamentare -anche se assai problematica al Senato -, la quale non ha avuto, nelle elezioni politiche, una maggioranza reale nel paese.

Ora, con le elezioni europee, si supera la soglia del 50%, ma questo può essere un normale effetto di trascinamento. In fondo la legge elettorale ha ottenuto il suo obiettivo, quello di favorire la governabilità del paese e di dare forza all’esecutivo. Ma non si può dimenticare -e per primi non dovrebbero dimenticarlo gli attuali governanti – questo aspetto “tecnico” legato alla legge elettorale, il fatto cioè che c’è un governo legittimato a governare, anche se non ha raccolto la maggioranza dei consensi. E ciò conferma l’idea di una situazione non assestata, perché diversi comportamenti politici, diverse alleanze, potrebbero dar luogo, con la medesima legge elettorale, a esiti del tutto di versi. Ora si può considerare che con le elezioni europee questo problema di legittimità anche sostanziale sia definitivamente risolto. E certo saranno incoraggiate le tendenze aggressive, verso un’occupazione totale del potere.

A maggior ragione restano valide le preoccupazioni circa l’equilibrio dei poteri e le indispensabili garanzie a tutela dello Stato di diritto. Insomma, c’è una maggioranza politica legittimata, ma essa non è autorizzata a stravolgimenti istituzionali e a colpi di forza.

Vanno anche riequilibrati i giudizi sulla disfatta della sinistra, perché nella realtà la sinistra ha tenuto o migliorato le sue posizioni, anche se non ha avuto quella capacità di coalizione che è necessaria nel nuovo sistema elettorale. Mentre si è costruito, in modo efficace e trainante, un nuovo polo moderato e di destra, la sinistra non si è riorganizzata e continua a presentarsi come un arcipelago disperso, con scarsa capacità di unificazione e di attrazione.

Ma la grande migrazione avviene dai tradizionali partiti di governo (Dc e Psi anzitutto) verso Forza Italia. È l’ipotesi politica del centro che non regge più nell’attuale situazione a tendenziale bipolarismo. Il futuro dipenderà quindi essenzialmente dalla dislocazione che decideranno di assumere le forze del centro moderato, oggi sbandate e colte di sorpresa dal precipitare degli avvenimenti.

Ma non basta un’analisi di carattere generale, occorre un’analisi differenziata per aree territoriali. Il problema è il Nord. È qui che la maggioranza di destra vince, in modo netto, indiscutibile, con un’impressionante omogeneità di risultati in tutta la Lombardia, nel Veneto, nel Piemonte. Si accentuano le differenze territoriali, nel momento stesso in cui sembrano passare del tutto in secondo piano, fino ad essere ininfluenti, le differenze sociali. Il centro borghese di Milano vota esattamente nello stesso modo delle periferie operaie dell’hinterland.

La geografia politica dell’Italia mette in evidenza l’esistenza di diversi sistemi locali, con proprie autonome dinamiche sociali e politiche, con propri elementi di identità. Per questo è utile ragionare intorno alla questione settentrionale, cercare di capire come è cambiato e come sta cambiando il Nord, e perché si è realizzato qui un processo politico di queste dimensioni.

È vero che ora, intorno a Forza Italia, si mette in moto un processo che ha una dimensione nazionale, ma il centro motore è stato nel Nord, che ancora una volta dimostra di anticipare tendenze di carattere generale.

Non ci può essere dunque una politica nazionale se non si fanno i conti con le realtà rappresentate dalle regioni del Nord, che occupano una posizione strategica nella vita e nell’economia del paese.

Se le forze progressiste, dunque, non riescono a darsi una prospettiva e una base politica di consenso nelle regioni forti del paese, se non mettono radici nel Nord, resteranno inevitabilmente forze marginali e non potranno che fallire l’obiettivo di assumere un ruolo di governo.

Si può leggere l’attuale processo politico-elettorale come una rivincita del Nord, come una riaffermazione del suo primato, come la riproposizione di una volontà di egemonia che ha più volte percorso la storia italiana, con angolature politiche diverse.

È entrato evidentemente in crisi tutto un modello di organizzazione dello Stato, burocratico e centralizzato, che è stato prevalente in tutti questi anni e che ha soffocato l’autonomia delle realtà locali. Secondo questo modello tutti i problemi finiscono nei labirinti ministeriali e non c’è esercizio vero di autonomia, di autogoverno e di responsabilità. In questo quadro, le classi dirigenti locali non hanno autorevolezza, perché la ragione del loro potere non sta nella rappresentanza locale, ma nella capacità di districarsi e di ottenere protezioni presso i potentati nazionali.

Il luogo esclusivo della politica è Roma, tutto il resto è solo un sistema di vassallaggio e di clientele. Il sindaco di una grande città, o il consigliere regionale, considerano quindi il loro incarico solo come un trampolino per ottenere l’ingresso nella “stanza dei bottoni”, e così è stato in tutti questi anni. Prendiamo il caso di Milano: Pillitteri, il cognato di Craxi imposto come sindaco, può essere considerato l’emblema di questa situazione di dipendenza. Milano è diventata una periferia e tutte le decisioni strategiche vengono ormai prese altrove.

Ciò non riguarda solo la sfera della politica, ma anche quella economica, perché non c’è più una classe dirigente locale e quindi la Lombardia non è più nelle condizioni di poter controllare il proprio sviluppo. Sotto questo profilo né la sinistra politica né il sindacato hanno saputo rappresentare un modello alternativo, al contrario hanno fatto propria la logica centralistica. Ecco che allora esplode una rivolta anti-centralistica, che ha motivazioni antiche, e che prende forza nuova nel momento in cui l’autorevolezza dei grandi partiti nazionali è travolta dalle inchieste giudiziarie sui fenomeni abnormi di corruzione.

Non sono i magistrati gli artefici di una rivoluzione, ma la loro azione si inserisce in un contesto che è pronto e maturo per il cambiamento, e l’azione giudiziaria funziona quindi come acceleratore di un processo che è già nelle cose.

Diverso è il caso delle regioni centrali, dove la tradizione di autonomia delle amministrazioni locali è stata salvaguardata e valorizzata e dove la sinistra ha saputo incarnare questo ideale di autogoverno.

In questa rivendicazione di autonomia sta il nocciolo razionale e positivo del movimento di opinione che si è espresso attraverso la Lega. È difficile negare, su questo terreno, il ritardo e la timidezza della sinistra, che solo ora comincia a reimpostare un discorso istituzionale innovativo, aprendosi alla tematica del federalismo.

Alle “provocazioni” della Lega si è risposto con la riaffermazione retorica del valore dell’unità nazionale, senza cogliere il terreno nuovo e innovativo sul quale anche noi eravamo chiamati a misurarci, per dare uno sbocco positivo e democratico a un bisogno reale di autonomia, di appartenenza territoriale, di autogoverno.

La Lega è stata vista come un fenomeno effimero di folklore locale, destinato a perdersi nel nulla, o come un movimento di intolleranza razziale, cogliendo così solo gli aspetti di superficie, mentre le ragioni del consenso, e di un consenso crescente, stanno altrove, non nella mitologia separatista, ma nella volontà di riscatto del Nord.

E molti hanno guardato alla Lega come a una forza d’urto necessaria e provvidenziale, come a uno strumento, l’unico disponibile, per far saltare l’equilibrio di un sistema politico ormai irriformabile dall’interno.

Questo aspetto dell’autonomia e della rottura del modello centralistico è sicuramente essenziale, ma esso a sua volta rimanda a un processo sociale più complesso e molecolare, che ha modificato in profondità nel corso degli ultimi anni sia la struttura economica e sociale, sia le forme di coscienza e i modelli culturali.

La spinta all’autonomia e la ricerca di nuovi strumenti e canali di rappresentanza politica sono il riflesso di una società che è cambiata, sono il segno dell’entrata in campo, anche sul terreno politico, di nuovi ceti e gruppi sociali che rivendicano per sé un nuovo ruolo nella vita del paese. Si tratta di una nuova borghesia imprenditoriale, di piccole e medie imprese, che non affida più la propria rappresentanza alle grandi famiglie e ai luoghi tradizionali della mediazione politica; si tratta di nuovi ceti professionali, cresciuti con l’espansione del terziario e della società dell’informazione, si tratta anche di lavoratori dipendenti o semi-dipendenti, che non stanno più dentro il sistema tradizionale di regole e di tutele e che affidano sempre più le proprie prospettive alla capacità individuale di competizione sul mercato. C’è quindi, nella realtà, un insieme di forze che spinge nella direzione di un’economia liberista e che avverte l’intervento pubblico come un freno, come un impaccio, come un’inutile sovrastruttura burocratica che inceppa l’iniziativa individuale.

Il messaggio politico liberista, che esalta come unico valore la libera competizione e il mercato, è un messaggio efficace, perché già oggi è così per una parte crescente della società, perché è questo effettivamente l’orizzonte di vita per un numero sempre più grande di persone.

La modernizzazione ha comportato questo passaggio verso una società di competizione totale. La destra in fondo non fa che rappresentare quello che già c’è togliendo di mezzo i camuffamenti morali e ideologici, e parla così direttamente alla gente, alla materialità della sua condizione. La società competitiva crea una situazione diffusa di precarietà e di incertezza, e una condizione d’ansia, perché in ogni momento si rischia di perdere la partita.

Intorno a un nucleo centrale forte, che ha tutti gli strumenti conoscitivi necessari per reggere la competizione, si allarga il cerchio delle figure precarie. In questa direzione tendono a riorganizzarsi le imprese, con un gruppo centrale di lavoratori qualificati e garantiti, e con un’area flessibile di lavoro (a termine, in affitto, con rapporti provvisori di consulenza ecc.) del tutto dipendente dalle variazioni del mercato. E sul modello dell’impresa si organizza l’intera società; che prevede modelli di inclusione sempre più selettivi.

Questa situazione è carica di conflitti, i quali però non hanno più come loro centro il conflitto di classe. Il conflitto riguarda i meccanismi di inclusione e di esclusione, e prendono forza i conflitti territoriali, etnici, ambientali, di generazione, di sesso.

Il problema delle generazioni andrebbe meglio messo a fuoco come grande tema politico, perché qui si addensano contraddizioni crescenti. Il meccanismo competitivo espelle e marginalizza le generazioni anziane, e la più lunga durata della vita è spesso solo una sofferenza prolungata, mentre i giovani si trovano di fronte a una situazione chiusa, bloccata e sembrano destinati, la maggior parte, a una prospettiva permanente di precarietà.

Su entrambi i fronti si accumulano forti elementi di rancore, perché non c’è pienezza di cittadinanza.

Una politica verso i giovani può essere oggi un elemento centrale e strategico, perché c’è qui un grande patrimonio di energia umana che rischia di andare perduto, e l’entrata in scena di nuove forze è decisiva per il rinnovamento della politica. Nel conflitto di generazione che si annuncia non possiamo non prendere posizione. E per questo mi sembra importante la posizione della CGIL sul salario di ingresso, perché qui si tratta appunto del diritto delle nuove generazioni.

Nel risultato della destra tenderei a vedere non ancora la costruzione di un vero blocco sociale, ma piuttosto il riflesso di un clima culturale nuovo che attraversa l’intero corpo sociale. Sia per i ceti forti che vogliono vedere riconosciuto e stabilizzato il loro ruolo sociale, sia per l’area di figure precarie, che vivono la modernizzazione con ansia e anche con angoscia, l’orizzonte culturale è il medesimo: è l’orizzonte della competizione.

L’alternativa offerta dalla sinistra è apparsa troppo astratta, troppo vuoti i suoi concetti di solidarietà, di progresso, di equità sociale. Rispetto a questo nuovo clima culturale, dominato dal problema dell’autoaffermazione di sé la sinistra appare sfasata, perché propone un’idea della politica, dello Stato, dell’interesse generale che non è più sentita come vitale. La sfera della vita e la sfera della politica si sono distanziate, divaricate, e come sempre la crisi della politica avvantaggia la destra, la quale vince nel momento in cui non si intravvedono progetti possibili, e il campo di azione si restringe e si riduce al campo delle opzioni immediatamente disponibili.

A questa tendenza generale non dobbiamo certo accodarci, ma dobbiamo comprenderla nella sua dinamica. Se l’attuale situazione è data da un meccanismo competitivo, nei confronti del quale non si vedono alternative, allora il problema è quello di alleggerire e di allentare questo meccanismo, creando una rete efficace di protezione sociale. In questo senso prenderei seriamente in considerazione la proposta di un reddito di cittadinanza, finora osteggiata dalla CGIL, perché ciò consentirebbe a tutti, anche alle figure che stanno alla periferia della società competitiva, di avere una base di certezza, un diritto che non dipende dal successo nella competizione sociale.

E occorre soprattutto mettere in grado i diversi soggetti di conquistare una loro autonomia, una loro capacità di autoregolazione, per non restare schiacciati, per poter essere liberi e responsabili dentro i meccanismi di una società sempre più complessa e quindi sempre più difficile da padroneggiare.

Il tema della libertà, dell’autonomia individuale, oggi manipolato dalla destra, deve essere riproposto in un diverso contesto culturale, non in vista di una competizione totale, ma dentro una rete di relazioni umane e sociali abbastanza solida da non essere stracciata dalla spinta competitiva.

Alcuni temi divengono primari: l’accesso alla conoscenza, e quindi il funzionamento del sistema educativo; il sistema delle relazioni sindacali, ovvero le forme di regolazione del conflitto; lo sviluppo di una nuova socialità capace di realizzare accoglienza e sostegno per i soggetti deboli; l’affermazione di diritti universali di cittadinanza.

In ogni caso si tratta, a mio giudizio, di ripartire dalle condizioni sociali concrete, e di realizzare la politica come costruzione di una rete efficace di solidarietà, come pratica di socializzazione. Altrimenti, se i messaggi politici sono vuoti e astratti, non può che vincere, con i suoi meccanismi stringenti, la logica del mercato.

Io credo che, sotto questo profilo, nel blocco politico di destra siano presenti contraddizioni reali e sostanziali, perché mentre Forza Italia rappresenta semplicemente la logica della società competitiva, senza nessun progetto politico autonomo -e ciò consente un’operazione trasformistica su larga scala -, la Lega Nord è al contrario un tentativo di costruzione di una struttura comunitaria, con una sua identità, con sue forme di autogoverno, con un suo sistema di valori. In tutto ciò c’è molta mistificazione ideologica, e prima o poi i miti si dovranno sgonfiare.

Tuttavia il conflitto c’è, anche se per ora non è dato sapere se e in quali forme esso potrà esplodere, o se viceversa avverrà un processo inverso, di riassorbimento delle contraddizioni. Il destino della Lega è legato a questo interrogativo. Dopo essere stata la forza d’urto del cambiamento può essere assorbita e lasciare il campo ad altri, o può mantenere una sua vitalità, rimotivando e rinnovando il suo progetto politico. Tenere aperta questa contraddizione è anche interesse nostro, e di ciò dovremo tener conto nel prossimo futuro. Per questo credo che la nostra linea d’azione non possa essere l’arroccamento di una minoranza chiusa e sconfitta, ma una linea di manovra che possa sfruttare tutti gli elementi di instabilità, di movimento, di possibile dinamica della situazione politica. Le elezioni hanno messo a nudo, in tutta l’area del Nord, una società che è cambiata profondamente: nuovi soggetti sociali, nuove forme di coscienza, nuove tensioni. Si tratta di lavorare su questa realtà, non su un’altra immaginaria.

Se il Nord cerca, dopo il crollo di un sistema politico ormai sfibrato, nuovi strumenti di rappresentanza e nuovi modelli istituzionali, è questo per tutti un terreno di lavoro, e la chiave di questo lavoro mi pare essere in una riforma federalista dello Stato, che dia vita a strutture di autogoverno, alla ricostruzione dal basso di una nuova classe dirigente.

È questo anche il modo per combattere le tendenze autoritarie e i rischi di un nuovo regime, perché ai pericoli di concentrazione del potere si può contrapporre un disegno istituzionale che, all’opposto, sviluppa le autonomie, i momenti di autogoverno, il pluralismo delle sedi decisionali. E se, sul piano sociale, la società del Nord presenta oggi questi nuovi segni di inquietudine e di malessere, va allora, in rapporto a questi mutamenti, ripensato il ruolo del sindacato.

Il nostro problema non è quello di realizzare un’azione di fiancheggiamento nei confronti dell’opposizione di sinistra, ma è quello di affrontare, per quello che sono, i nuovi problemi sociali e di prospettare delle soluzioni.

E una nuova unità sindacale, costruita democraticamente a partire dalle nuove rappresentanze nei luoghi di lavoro, in un rapporto reale con i lavoratori, può essere una nuova straordinaria occasione, per rilanciare il sindacato come soggetto autonomo, come strumento di rappresentanza sociale. Il sindacato non è immediatamente messo in questione dal nuovo corso politico, anche se dobbiamo realisticamente attenderci da parte della nuova maggioranza una strategia di attacco. Il sindacato resta, anche per i lavoratori che hanno votato a destra, uno strumento utile di tutela. C’è, in questa divaricazione, una concezione solo strumentale del sindacato, che serve a garanzia dei propri diritti nel luogo di lavoro, mentre la rappresentanza sociale più generale viene affidata ad altri soggetti. Si divaricano il lavoro e la cittadinanza, e il sindacato rischia allora di essere uno strumento sempre più marginale e residuale, perché il luogo dell’identità non è più principalmente il lavoro, e il lavoratore vede il suo lavoro come un segmento della sua vita, e vede se stesso come cittadino, come membro di una comunità territoriale, come portatore di bisogni sociali complessi che non si esauriscono nell’attività lavorativa.

Il cambiamento da realizzare, per il sindacato, mi pare collocarsi in questa direzione, nel senso cioè di organizzare la rappresentanza dei lavoratori nella loro dimensione sociale complessiva, nel senso di affrontare i problemi della cittadinanza, in tutta la sua dimensione.

Il che significa anche fare del sindacato un elemento forte di associazione, con una propria capacità di indirizzo culturale, superando così i limiti e i difetti di una struttura solo burocratica, che può stabilire con gli iscritti solo un legame debole, precario, non in grado di dar luogo a un’effettiva socializzazione.

Nella nuova situazione politica il sindacato confederale deve quindi stare in campo e rilanciare le proprie ragioni con un progetto nuovo e visibile di unità, di democrazia nel rapporto con i lavoratori, di solidarietà concreta.

La partita è tutta aperta. E sarà decisa non solo e non tanto da nuove scelte strategiche, da nuovi messaggi politici o da nuove leadership, quanto dall’azione sociale concreta e puntuale che riusciremo a fare dentro questa società pervasa da infinite contraddizioni e da uno spirito diffuso di inquietudine. In questo senso l’azione del sindacato è davvero decisiva, non solo per la sinistra, ma per l’avvenire democratico del paese.



Numero progressivo: C53
Busta: 3
Estremi cronologici: 1994, 8 agosto
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 30, 8 agosto 1994, pp. 28-31