LE ISTITUZIONI E IL SINDACATO

Mutamento politico e riforme. Come ridefinire il rapporto tra società e Stato

di Riccardo Terzi

Il tema delle riforme istituzionali assume oggi una pregnanza particolare, in quanto ci troviamo nel mezzo di una transizione politica assai complessa e convulsa, che ancora non ha avuto un suo stabile assestamento.

Il vecchio ordinamento politico è entrato in una crisi ormai irreversibile, ma è ancora solo agli inizi l’opera di costruzione di un nuovo assetto. Abbiamo attraversato una fase in cui la crisi, accelerata e precipitata, ha devastato il precedente paesaggio politico, lasciando però ancora del tutto irrisolti gli interrogativi che riguardano il futuro. È quindi sicuramente prematuro parlare di seconda Repubblica come se già fosse avviata a soluzione la costruzione di un nuovo edificio istituzionale, perché in realtà questo lavoro è ancora tutto da fare, e sono aperte davanti a noi diverse alternative. Con l’introduzione della nuova legge elettorale maggioritaria il sistema della rappresentanza politica viene messo nella necessità di rinnovarsi profondamente, coerentemente con le nuove regole. Agli effetti della crisi politica si aggiungono quindi gli effetti del nuovo meccanismo elettorale, costringendo tutti i diversi soggetti politici a una straordinaria opera di innovazione e di ridefinizione della propria identità e del proprio ruolo. I contrasti che sono ancora aperti sulla legge elettorale non mettono in discussione la fondamentale direzione di marcia. Che si scelga il maggioritario secco all’inglese o il doppio turno, ciò sicuramente non è senza effetti politici rilevanti, ma non muta il quadro di insieme, e si può quindi dire che è ormai imboccata la via di una riorganizzazione del sistema politico in una direzione tendenzialmente bipolare. In questa prospettiva sono rimesse radicalmente in discussione tutte le precedenti identità e le logiche di appartenenza, e chi non ha colto per tempo la necessità di fare i conti con questo nuovo scenario rischia di essere completamente marginalizzato e di uscire di scena. Accade così che partiti ricchi di storia sembrano essere oggi solo una irrilevante sopravvivenza.

Sul versante di destra c’è stata più prontezza in questa necessaria opera di riorganizzazione. Dopo alcune incertezze, e dopo il campanello d’allarme rappresentato dalle elezioni amministrative in alcune grandi città, le forze moderate hanno saputo liberarsi delle vecchie forme organizzative, ormai inservibili, hanno lasciato alla loro sorte i relitti del pentapartito, e hanno inventato, con Forza Italia, una nuova originale forma di rappresentanza politica. L’operazione di Forza Italia è un interessante capitolo nella storia del trasformismo politico. È infatti lo stesso blocco sociale che reggeva il pentapartito, e per molti aspetti è lo stesso personale politico, sia pure in un contesto nuovo, in un nuovo involucro. Il tutto reso possibile da un’accurata operazione di marketing. Non c’è una nuova elaborazione politica, ma solo un insieme di messaggi propagandistici, e il punto di forza è l’appello agli “spiriti animali” del capitalismo, a tutte quelle forze il cui orizzonte di vita è solo quello della pura competitività, senza regole e senza valori. È un craxismo perfezionato, senza più l’impaccio di una tradizione socialista ingombrante, senza più dover mascherare la realtà dietro la retorica dei valori e dei princìpi.

Berlusconi ha capito con tempestività che per vincere, in una logica bipolare, andavano rilegittimate anche le forze della destra estrema, finora escluse dal gioco politico democratico. L’accordo con Fini è quindi un passaggio essenziale e una mossa strategica indispensabile. Si determina così un nuovo scenario, che sposta tutti i termini tradizionali della lotta antifascista. L’antifascismo celebrativo e patriottico oggi non serve più, finisce per essere un orpello retorico senza efficacia, mentre serve una riattualizzazione della battaglia politica e culturale contro la destra, nelle forme nuove che essa viene assumendo.

Mentre prendeva corpo questo processo di riorganizzazione del blocco conservatore, la sinistra non ha saputo risolvere in modo efficace e tempestivo il problema delle proprie forme organizzative, ed è apparsa ancora come un arcipelago confuso di partiti e di gruppi in competizione tra di loro, senza un progetto comune. Anche e forse soprattutto per questa ragione è stata persa la partita elettorale. Non sarebbe corretto, credo, interpretare il risultato elettorale come il segno di un generale spostamento a destra e di un consolidato nuovo blocco di potere, perché, in una fase di così tumultuose trasformazioni politiche e di così intensa mobilità elettorale, tutto è ancora in gioco e nessun equilibrio nuovo si è stabilizzato. In una tale situazione vince chi ha l’iniziativa, chi riesce a prospettare una linea di dinamismo capace di dare uno sbocco all’ansia di novità e di cambiamento da cui è così fortemente permeata l’opinione pubblica.

Il problema all’ordine del giorno è quindi l’organizzazione, su nuove basi, del polo democratico e progressista, in modo tale che esso abbia la capacità di entrare in una relazione costruttiva con il “centro”, sia nelle sue espressioni politiche sia soprattutto nelle sue manifestazioni sociali, perché senza l’apporto di queste forze non si costruisce un’alternativa di governo vincente. Questo tema dei possibili rapporti tra la sinistra e il centro è in effetti assai vivo nell’attuale dibattito politico, e qualche segno positivo di evoluzione comincia ad affiorare.

Ma accanto a questi aspetti strettamente politici, intorno ai quali è aperta una partita di grande complessità e anche di grande asprezza, si pongono, in un rapporto di concatenazione assai stringente, problemi di riordino istituzionale e di ridefinizione complessiva dell’architettura delle istituzioni politiche, il che avviene per la prima volta nella nostra storia con una tale urgenza e attualità per cui i problemi istituzionali si presentano immediatamente come problemi politici, e le grandi scelte di indirizzo in questo campo agiscono già oggi nel concreto del conflitto politico e sono significative delle diverse ipotesi strategiche che si fronteggiano.

È mia convinzione che l’evoluzione della situazione politica dipenderà molto dalle scelte che vengono compiute sul terreno istituzionale, che alla fine si troverà in una posizione di forza chi riesce a prospettare su questo terreno soluzioni davvero innovative e convincenti. Il futuro è nelle mani di chi saprà modellare le istituzioni della seconda Repubblica.

Questo comporta per la sinistra un passaggio non facile e l’assunzione di un punto di vista diverso da quello tradizionale. Si tratta infatti di superare due “blocchi ideologici” i quali sono ancora attivi e funzionanti, e rischiano di inceppare in modo gravissimo la nostra iniziativa. Il primo “blocco” consiste nella convinzione che i temi istituzionali debbano essere sistematicamente messi in secondo piano rispetto ai temi sociali, i quali soli sono davvero dirimenti e decisivi nello scontro politico. Secondo questa concezione la sinistra è tale solo in quanto è portatrice di istanze di carattere sociale, e quindi il suo atteggiamento nei confronti dei problemi istituzionali è un atteggiamento di diffidenza, nella convinzione che questo sia un terreno falso, perché i problemi veri stanno altrove. Non si vede come dall’assetto istituzionale dipenderà anche l’esito delle relazioni sociali, come, nell’attuale fase di incerta transizione, il problema della “forma” dello Stato e delle istituzioni politiche influenza e condiziona tutto il resto.

Così, ad esempio, per quanto riguarda l’iniziativa sindacale il problema preliminare e decisivo dal punto di vista strategico è la salvaguardia dell’autonomia contrattuale del sindacato, è quindi la definizione di un “sistema di regole” che assicuri al sindacato un suo ruolo autonomo nelle relazioni con il potere politico e con le controparti. Non è anche questo, appunto, un problema istituzionale? Si rischia dunque, per questa via, una sottovalutazione grave del problema, e una posizione di totale miopia nei confronti dello scontro politico che si sta preparando e che ha come posta in gioco l’assetto dello Stato e l’equilibrio dei poteri.

Il secondo “blocco” consiste invece in una cultura istituzionale, spesso anche di alto profilo, la quale ha le sue radici nel disegno della Costituzione repubblicana che, identificandosi pienamente in questo modello, finisce per assumere una posizione ostile nei confronti di qualsiasi ipotesi innovativa, di revisione o di adattamento del dettato costituzionale. I problemi istituzionali, in questo caso, non sono considerati secondari o irrilevanti, ma sono considerati già risolti, e si finisce quindi per assumere una posizione conservatrice, perché tutte le ipotesi di cambiamento sembrano rompere un equilibrio delicato e aprire il varco a stravolgimenti pericolosi dell’ordinamento democratico. Naturalmente molte di queste preoccupazioni sono legittime, e lo sono tanto più di fronte a una maggioranza e a un governo di destra. Ma non si comprende che i cambiamenti che sono avvenuti nella vita politica del paese in questi ultimi anni sono tali da richiedere la definizione di un nuovo sistema di regole, perché le regole con le quali abbiamo vissuto negli anni passati non sono state sufficienti a impedire una gravissima degenerazione del sistema politico.

La spinta verso la costruzione di un nuovo ordinamento, l’edificazione di una seconda Repubblica, non è di per sé attribuibile all’eversione di destra, è un tema nazionale indifferibile, che può aprirsi a diverse soluzioni e che comunque corrisponde al sentire comune della coscienza democratica, che chiede e pretende istituzioni più solide e più garantite, capaci di segnare uno stacco con il recente passato. Anche per queste ragioni, per il permanere di queste posizioni nobilmente conservatrici, la sinistra non ha avuto una sufficiente capacità di attrazione, è apparsa troppo legata al passato, alle regole e ai valori della prima Repubblica. Occorre dunque, questa è la conclusione di tutto questo ragionamento, una strategia istituzionale innovativa, con la quale fronteggiare con decisione le posizioni della destra. Uso intenzionalmente il termine “strategia” proprio perché si tratta, a mio avviso, di assegnare a questi temi un rilievo centrale, di farne l’asse di una politica che sia adeguata a questa fase di transizione, nella quale, appunto, è tutto il sistema politico nel suo complesso che deve essere ridefinito e riorganizzato.

Il criterio ordinatore fondamentale che va seguito in quest’opera di riassetto istituzionale è, in via prioritaria, quello dell’articolazione democratica del potere, è il modello della divisione dei poteri in opposizione a quello della concentrazione. È qui il discrimine essenziale tra la destra e la sinistra sul terreno istituzionale.

L’azione pratica del nuovo governo è, sotto questo profilo, assai significativa. L’idea di fondo è che ora, con la nuova logica del sistema maggioritario, chi vince prende tutto, e quindi l’esecutivo interviene in tutti i campi e travolge tutti gli spazi di autonomia.

Tutto ciò che si oppone a questa logica è consociativismo, è prima Repubblica. La legge elettorale maggioritaria non è più solo uno strumento utile per favorire una maggiore stabilità di governo, ma diviene la pietra angolare sulla quale si costruisce un nuovo sistema e una nuova filosofia politica. Il governo, una volta legittimato dal voto, non può più avere condizionamenti e limitazioni, e tutti i punti di resistenza vanno fatti saltare, che si tratti della magistratura, o del sistema dell’informazione, o della Banca d’Italia, o dello stesso Parlamento. È evidente che la destra postfascista si trovi in totale sintonia con questa concezione, non essendo altro che una riedizione aggiornata di più antiche pratiche totalitarie. Si rende allora necessaria una decisa azione di chiarificazione politica e una battaglia culturale esplicita. Ciò che abbiamo rifiutato come consociativismo era appunto la confusione e la sovrapposizione dei poteri, e l’invadenza dei partiti politici, la loro tendenza a occupare tutti gli spazi al di là delle loro proprie funzioni. Ora questa medesima logica viene non solo riproposta, ma applicata in forme ancora più spinte, per cui si viene profilando un nuovo “regime”, intollerante nei confronti di qualunque elemento di autonomia, di diversità, di critica. Come in tutti gli Stati autoritari, il dissenso non è legittimato, perché tutti devono remare nella stessa direzione e chi si sottrae è un disfattista antinazionale.

A questa linea di concentrazione del potere, che è evidentemente il filo conduttore dell’attuale governo, si tratta di opporre l’esigenza di un riassetto istituzionale e di una riorganizzazione dei poteri che garantisca il massimo di autonomia ai diversi livelli di governo e ai diversi organi dello Stato, in modo che ciascuno di essi sia pienamente responsabile e sovrano nel proprio ordine, nella chiarezza delle rispettive competenze. È dentro un’impostazione di questa natura che si trova ad essere garantita anche l’autonomia delle rappresentanze sociali, come un aspetto essenziale dell’ordinamento democratico, il quale è concepito appunto come un sistema di autonomie e di divisione dei poteri. Con questa impostazione va affrontato il problema della magistratura così come quello del sistema informativo, garantendo spazi reali di autonomia e contrastando ogni tendenza all’instaurazione di un regime.

In questa ottica si rende necessaria un’ampia revisione costituzionale volta a correggere radicalmente il carattere centralistico dello Stato, sviluppando i momenti di autogoverno delle comunità locali, il che chiama necessariamente in causa il tema del federalismo. Già la commissione bicamerale aveva compiuto alcuni primi passi significativi in questa direzione, anche se il suo lavoro è rimasto per molti aspetti incompiuto, e talora anche incerto e contraddittorio. Non si tratta certo di riscrivere la Carta costituzionale, perché il suo impianto generale e i suoi princìpi fondativi mantengono intatta la loro validità, e pertanto sarebbe del tutto fuori luogo l’ipotesi di una nuova assemblea costituente, perché con questo atto si denuncerebbe una situazione di complessiva inadeguatezza del nostro ordinamento. Si tratta in vece di promuovere, con le procedure ordinarie previste dalla stessa Costituzione, una parziale revisione, il cui aspetto più significativo e rilevante dovrebbe appunto essere l’introduzione di una struttura federalista dello Stato.

Sotto il profilo procedurale sorge una difficoltà nuova dal momento in cui il Parlamento è eletto con il sistema maggioritario e non rispecchia più quindi fedelmente gli orientamenti politici reali presenti nel paese. È ancora possibile affidare a questo Parlamento obiettivi di revisione costituzionale? Sul piano formale sicuramente sì, fino a quando non si ritenga necessario modificare espressamente le procedure attualmente in vigore; sul piano sostanziale questa nuova situazione dovrebbe suggerire a tutti la ricerca in Parlamento delle intese e delle convergenze politicamente necessarie, perché ovviamente il problema delle regole non è affare della sola maggioranza.

So che di fronte a una prospettiva federalista sorgono, in alcuni settori della sinistra, perplessità e resistenze di varia natura, e anche ostilità aperte. Ciò dipende, credo, da quei due “blocchi ideologici” di cui prima ho parlato, e ritengo politicamente necessario non subire questo condizionamento, mentre la discussione e la ricerca debbono restare ovviamente aperte a tutti i contributi. L’accettazione del federalismo come terreno di ricerca mi sembra una scelta per molti aspetti necessaria e obbligata, e non convincono formulazioni più blande e prudenti (regionalismo forte, regionalismo di ispirazione federalista) per il semplice motivo che di fronte a un’ipotesi radicale di trasformazione della macchina dello Stato non si può pasticciare con formule ambigue che trasmettono solo un senso di incertezza. Il problema è posto, e la nostra risposta deve essere chiara.

L’esperienza regionalista di questi ultimi venticinque anni non è stata, come tutti sanno, un’esperienza positiva, e va reso chiaro che ciò di cui oggi di discute è un’altra cosa, non è l’ennesimo velleitario proposito di rilanciare il ruolo delle Regioni restando nel quadro istituzionale attuale. E sul piano concettuale il federalismo indica un processo intrinsecamente diverso da quanto sin qui si è teorizzato e praticato, perché il processo non è più quello del “decentramento”, ovvero della delega di determinate funzioni da parte di un potere centrale che resta l’unico depositario della sovranità nazionale, ma si tratta di costituire dei corpi politici intermedi che siano titolari di poteri propri, primari, non delegati.

Per questa via passa il rinnovamento della classe dirigente, la possibilità di dar vita a nuove élite politiche, rappresentative delle realtà locali e pienamente responsabilizzate nell’esercizio delle funzioni di governo al loro livello. Per questo sono necessarie nuove regole, e il modello di riferimento può essere quello attuato nei Comuni, con l’elezione diretta del sindaco e con una garanzia di stabilità dell’esecutivo, che ha già determinato effetti politici rilevanti nel ruolo dei Comuni. I sindaci delle grandi città sono oggi figure politiche di prima grandezza, forti di una legittimazione democratica che dà loro un’autorevolezza non più dipendente dalle vecchie mediazioni politiche. Analogamente, con i necessari aggiustamenti, può essere fatto per le Regioni, con una maggiore attenzione alle ragioni della rappresentanza politica, perché sarebbe dannoso un meccanismo che annulla o coarta drasticamente il pluralismo politico esistente nelle diverse realtà. Regioni e Comuni possono essere gli strumenti e le sedi di una nuova stagione politica, di un rinnovato rapporto tra la politica e i cittadini, Regioni e Comuni in un quadro istituzionale nuovo che attribuisca a entrambi questi livelli un ruolo essenziale, non riproducendo quindi un neocentralismo burocratico al livello regionale. Più problematico è il ruolo delle Province, che va ampiamente ridefinito e rinnovato rispetto alla situazione attuale, e in questa fase la cosa più assurda è la spinta per la costituzione di nuove Province, il che produce solo un’amplificazione delle strutture burocratiche.

Il secondo necessario passaggio è l’istituzione di una Camera delle Regioni, in modo che esse possano a pieno titolo partecipare come tali all’attività legislativa. Infatti non sarà mai possibile fissare con un taglio netto quali sono le competenze dello Stato centrale e quali quelle delle Regioni, e allora l’unica effettiva garanzia sta appunto nel fatto che i principali organi dello Stato, a partire dal Parlamento, vengono “federalizzati”, prevedendo cioè esplicitamente accanto a una rappresentanza generale una seconda forma di rappresentanza politica collegata alle nuove realtà regionali. È questo, ad esempio, il modello istituzionale della Repubblica Federale Tedesca, il quale forse più di altri può essere assunto come nostro punto di riferimento.

Una volta imboccata questa strada, come credo sia necessario fare, non si tratta solo di promuovere le necessarie modifiche costituzionali, il che ha necessariamente tempi lunghi e presenta evidenti difficoltà politiche, ma è possibile da subito un’iniziativa concreta che si muova in questa prospettiva, cominciando ad affrontare tutti i problemi di riforma della pubblica amministrazione, di riforma fiscale, di riorganizzazione dell’economia, avendo come punto di riferimento un modello di tipo federalista che esalti l’autonomia decisionale e di governo delle Regioni. E anche il sindacato, ovviamente, si deve ristrutturare in questa nuova ottica. Si apre così, ridefinendo le competenze e i poteri, e tentando di riorganizzare su nuove basi e di riformare profondamente la macchina dello Stato in tutte le sue articolazioni, un vasto campo di sperimentazione, il federalismo istituzionale vive se i soggetti fondamentali, politici e sociali si riorganizzano in questa nuova prospettiva, se prende corpo quindi anche un federalismo sociale, ovvero la costruzione di forme nuove di autoregolazione democratica e di concertazione da parte dei soggetti della società civile.

Con un’iniziativa di questo tipo si possono riarticolare gli schieramenti politici e rimettere in movimento la situazione che si è determinata con le ultime elezioni, individuando nuovi interlocutori e costruendo nuove convergenze. La maggioranza infatti è tutt’altro che compatta, e in particolare sui temi istituzionali c’è un irrisolto dualismo che vede contrapposte le posizioni federaliste della Lega e le posizioni ultra-centralizzatrici di Alleanza Nazionale. Non avrei nessun timore ad assumere, anche con il contributo del sindacato, un’iniziativa aperta per mettere a punto un programma serio e avanzato di riforme istituzionali. Certo, nel confronto con i diversi indirizzi politici e culturali è necessario essere sempre disponibili a modificare le posizioni di partenza e a trovare i punti di mediazione, e ciò presenta sempre qualche elemento di rischio. Ma, francamente, il rischio prevalente oggi non è quello di essere trascinati su un terreno riformatore che va oltre i nostri obiettivi, il rischio è che venga meno qualsiasi seria ipotesi riformatrice. Questi sono i segnali che vengono, per ora, dall’azione del governo: un po’ di retorica sulla seconda Repubblica, che viene usata per applicare, con più cinismo e spregiudicatezza di prima, i metodi classici del dominio partitocratico. Il rischio, insomma, è che il tutto si risolva in una gigantesca operazione trasformistica.

In fondo la filosofia dei nuovi governanti, in particolare degli uomini più vicini a Berlusconi, è che il compito della politica è solo quello di lasciar funzionare senza interferenze la logica del mercato. Il nuovo potere è solo la mascheratura dei poteri forti e delle oligarchie che si sono affermate nella società civile. Non c’è allora bisogno di riformare la politica e di irrobustire le istituzioni. C’è solo bisogno di lasciare che si consumi la crisi che ha travolto sia le istituzioni politiche sia le concezioni della politica. Alla fine resteranno solo i meccanismi di una società a competizione totale, nella quale contano solo gli interessi e la forza. Questa è la deriva possibile e probabile se non intervengono nuovi fattori. Dunque, porsi oggi il problema della politica e delle sue istituzioni non è parlar d’altro, non è una fuga nell’astratto, ma è toccare il cuore della crisi che attraversiamo. Non illudiamoci di salvarci da soli, come sindacato, perché non ci può essere nessun futuro per il sindacalismo confederale nel momento in cui viene meno la politica e c’è solo la giusta posizione e lo sfilacciamento degli interessi, perché a quel punto il sindacalismo confederale vede travolte le sue finalità, vede bruciarsi ogni sforzo di solidarietà, ogni tentativo di rapportarsi all’interesse generale del paese.

Le riforme istituzionali sono oggi attuali perché è urgente ricostruire gli spazi e i soggetti della politica, e questo è un compito prioritario della sinistra e di tutte le forze democratiche. Anche il sindacato è parte in causa e deve svolgere un ruolo attivo, il che finora non è avvenuto o è avvenuto solo molto marginalmente. Nella discussione che si apre in vista del congresso della CGIL e in vista soprattutto della nuova prospettiva unitaria mi sembra indispensabile prendere posizione con chiarezza intorno a questi temi che sono oggi strategici e cruciali per l’avvenire della società italiana.


Numero progressivo: C23
Busta: 3
Estremi cronologici: 1994, 26 settembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 33, 26 settembre 1994, pp. 24-27