L’AUTONOMIA DELLA RAGIONE È IL BERSAGLIO DI RATZINGER

Credenti e non credenti nel nuovo millennio

di Riccardo Terzi

Non c’è tregua sul fronte del relativismo. Continua in modo sistematico l’offensiva ideologica della Chiesa, che proprio nel relativismo ha individuato il suo bersaglio polemico principale. E allora diviene necessario vederne più a fondo le implicazioni culturali e politiche, per capire di che cosa si sta discutendo e quali sono le posizioni in campo.

Può essere utile fare un passo indietro e prendere in attento esame l’enciclica del 1998 Fides et ratio, che fissa il punto di vista della Chiesa nei rapporti con il pensiero filosofico. Data la materia, non vi è dubbio che l’allora cardinale Ratzinger vi abbia avuto un ruolo non secondario, e si può allora vedere con più chiarezza da quale retroterra culturale si sviluppino le posizioni attuali del pontefice. La tesi centrale dell’enciclica è che «non ha motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’ altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione». È un’affermazione piuttosto sorprendente, che sembra ignorare i grandi conflitti che si sono consumati nella storia e l’esito tragico che alcuni di essi hanno avuto. In che senso, allora, non c’è conflitto? La risposta è molto netta: «Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo».

In altri termini, il conflitto non c’è se la ragione si sottomette alla fede e accetta di esserne illuminata. È tutto il pensiero filosofico che non si piega a questa condizione non può che «smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo». Ecco allora il punto: è l’uso autonomo della ragione la fonte dell’errore e del male, perché «a Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede». Di qui un lungo elenco di deviazioni riprovevoli: eclettismo, relativismo, storicismo, scientismo, nichilismo. Non importa molto analizzarne le interne connessioni, perché si tratta comunque di una razionalità deviata, e la deviazione sta nel fatto che la ragione intende procedere solo con le sue forze. La polemica con il relativismo non si riferisce, dunque, a una particolare dottrina o teoria filosofica, ma a tutto il movimento di pensiero che è stato prodotto da una libera ricerca razionale. Nel linguaggio della Chiesa, il relativismo è la ragione non illuminata dalla fede. Sotto accusa è tutta la filosofia moderna, è tutta la cultura della modernità che ha cercato di tenere distinte le vie della fede e della ragione, e in campo politico le vie della Chiesa e quelle dello Stato.

Quando questa distinzione viene negata, perché tutto infine deve convergere nella verità rivelata, di cui la Chiesa è depositaria, siamo in presenza di una forma di integralismo. Non trovo un’altra parola più pertinente. Integralismo significa, infatti, il tentativo di organizzare l’intera vita sociale di una determinata comunità intorno a un unico e indiscutibile nucleo di valori e di verità, e perciò non c’è inclusione sociale e non c’è riconoscimento per chi si colloca al di fuori di questo nucleo, in cui si riassume l’identità collettiva. La società integralista conosce un solo linguaggio, e tutto ciò che sta fuori da questo linguaggio è solo disordine. È una società compatta, organizzata intorno a un unico centro, e la Chiesa vorrebbe tornare a essere il centro ordinatore dell’intera vita civile. È questo un fenomeno non solo religioso, che ha avuto nella storia molteplici manifestazioni, in forma più moderata o più aggressiva. Ancora oggi, quando si denuncia il rischio del «pensiero unico», si dice che le nostre moderne società occidentali stanno ancora in bilico e possono anch’esse divenire società chiuse, senza alternative. Non parliamo quindi solo di un passato lontano, ma del presente, di forze che sono oggi al lavoro per conseguire, anche nelle società di più ricca tradizione democratica, un controllo politico totale. In tutti questi casi, è la libertà della persona che viene sacrificata in nome di una identità, o di una missione collettiva, o di una superiore oggettività della storia, a cui ciascuno si deve sottomettere. L’esito è sempre, nei diversi contesti, una perdita dell’autonomia personale, e senza autonomia non c’è dignità della persona. Ecco perché penso che nella discussione sul relativismo siano in gioco questioni decisive e vitali per il nostro futuro.

Alla sfida lanciata dalla Chiesa cattolica occorre perciò rispondere, con misura e insieme con fermezza. Non mi convince la linea minimalista di chi nega il problema, nega il conflitto, e tende a dire che in fondo abbiamo tutti gli stessi valori. Con questo tipo di risposta si dice in sostanza: anche noi combattiamo il relativismo, e quindi confrontiamoci sul terreno dei valori per trovare insieme una sintesi condivisa. Il che vuol dire che la discussione non è tra integralismo e libertà, ma all’interno dell’integralismo, sulle sue possibili varianti, su quale tipo di fusione si debba realizzare tra etica e politica. Con questa impostazione, si sta sullo stesso terreno proposto dalla Chiesa: la politica deve produrre verità, eticità, valori. Ai problemi della vita c’è una sola risposta, c’è una sola via legittima, e al di fuori di questa via si può ammettere solo tolleranza, ma mai il riconoscimento di un’altra verità possibile. Ma tutto questo contraddice il principio della laicità, per il quale lo Stato deve essere il garante neutrale di un comune spazio di libertà e non può imporre una sua dottrina morale. Si mischiano così in unico confuso groviglio i discorsi che attengono alla verità e i discorsi che attengono alla pratica politica.

Sta qui l’equivoco oggi più diffuso, l’idea cioè che di fronte ai grandi dilemmi etici del nostro tempo non sia più possibile restare entro i confini della laicità. Si scambia la laicità per indifferenza, e si chiede alla politica, impropriamente, di costruire un codice morale, di offrire agli uomini del nostro tempo un nuovo “decalogo”, che fissa i confini del bene e del male. E la politica, in quest’opera che le è estranea, non può che chiedere il soccorso della religione. La politica viene così sovraccaricata di significati e di simboli morali, e il nemico diventa il «regno del male». Lo stesso bipolarismo viene spesso rappresentato, da una parte e dall’altra, come una linea di confine che separa gli eletti e i dannati.

È quindi il tema della laicità della politica che deve essere attentamente elaborato. La laicità non è affatto un’ispirazione che si contrappone all’esperienza religiosa, ma è l’esigenza di fissare i confini, le distinzioni tra le diverse sfere della vita dell’uomo, nella convinzione che nell’indistinzione, nella sovrapposizione, c’è per tutti un esito negativo, in quanto si rattrappisce in un’unica dimensione semplificata tutta la complessità dell’esperienza umana. La laicità non si oppone alla religione, ma all’integralismo, in tutte le sue forme. Essa è minacciata ogni volta che i grandi temi del vero, del bene, o del bello, divengono affari di Stato, ogni volta che la politica invade un campo che non le appartiene, o viene invasa e occupata da altre forze che le impongono il loro codice. In tutti questi casi, per una politica troppo invadente o viceversa per una politica troppo debole di fronte ad altri poteri, il risultato è il medesimo, è il venir meno di uno spazio democratico che sia costantemente aperto alla pluralità delle diverse scelte possibili.

Se la religiosità è la ricerca dell’assoluto, essa occupa una sfera diversa dalla politica, proprio perché la politica non può che essere il dominio del relativo. I due piani restano necessariamente separati. A questo punto, si rende necessario un discorso più approfondito sul fenomeno religioso, distinguendone le diverse possibili forme e i diversi esiti che ne risultano nel rapporto con la politica. C’è, infatti, una religiosità che è tutta «in interiore homine», nella esperienza soggettiva e nella relazione diretta che ciascuno riesce a stabilire con Dio. In questo caso, il movimento della fede non ha nulla a che fare con il movimento della ragione, non è traducibile nel linguaggio razionale né può essere razionalmente contestato; è un assoluto che non ha bisogno della mediazione del relativo.

Pensiamo ad esempio a Kierkegaard: la fede è un salto oltre la razionalità, è un bisogno esistenziale profondo che nasce dagli abissi dell’angoscia, è «timore e tremore» di fronte alla potenza della divinità. E soprattutto qui c’è solo il «singolo», e non c’è mai l’istituzione, perché la religiosità si perde nel momento in cui assume una forma collettiva. C’è il cristiano, non c’è la cristianità. In forme meno radicali, ritroviamo questo “soggettivismo” in tutte le diverse Chiese cristiane riformate, e in tutte le molteplici forme del misticismo, là dove la religione è «indicibile», è un percorso personale che ci mette in comunicazione con l’assoluto. In tutti questi casi, è evidente, non c’è conflitto di fede e ragione, di fede e politica, perché esse stanno su due piani assolutamente distinti. La Civitas Dei non ha nulla a che vedere con il mondo, è ciò che sorge oltre le sue rovine: la politica, dunque, è in sé qualcosa di totalmente estraneo alla dimensione religiosa.

Nella storia del cristianesimo, è Agostino che interpreta questa tendenza, e che influenza tutta un’esperienza di religiosità spiritualizzata e rigorosa, che pensa alla sua missione non «nel mondo», ma su un piano che radicalmente lo trascende. Ma la Chiesa cattolica si è caratterizzata per una scelta del tutto diversa, soprattutto a partire dal grande scisma luterano. E in Ratzinger, che è interprete rigoroso dell’ortodossia cattolica, è nettissimo il rifiuto di ogni forma di soggettivismo e di misticismo. La Chiesa cattolica intende il suo ruolo come presenza attiva nel mondo, che va oltre la dimensione della soggettività, perché essa ha che fare con la verità, sul piano del pensiero, e ha a che fare con il bene collettivo, sul piano dell’azione. Al soggettivismo si contrappone l’istituzione, e solo attraverso la mediazione istituzionale la religiosità si apre alla verità. Mentre per Kierkegaard solo il singolo è il protagonista della fede, per la Chiesa cattolica il singolo non conta nulla se non si riconosce nell’istituzione. È questo passaggio teorico che rende assai problematico il dialogo inter-religioso, il quale finisce per insabbiarsi proprio su questo punto, sull’autorevolezza dell’istituzione come unica depositaria della verità rivelata. Il dialogo è asimmetrico, perché non c’è, per i cattolici, una religiosità universale, che si distingue solo per i riti e per i simboli e che esprime un’unica idea di purificazione; il cristianesimo non è simbolo, ma è contenuto positivo di verità.

La Chiesa cattolica, sulla base di questa concezione, si proietta nel mondo ed entra necessariamente in un rapporto complesso, di dialogo e di conflitto, con le altre correnti che nel mondo agiscono, sul piano filosofico e su quello politico. È questo tipo di relazione, di proiezione della religione nella dimensione terrena, che fa sorgere problemi complessi e rende più intricato il tema della laicità, perché non esistono linee divisorie chiaramente tracciate. Anche il mondo dell’Islam ha lo stesso problema, e in forme più acute, perché è più debole l’elaborazione di un pensiero politico laico. Qualcosa dovrebbe pur insegnarci il successo del fondamentalismo islamico, il quale appunto dimostra che in assenza di solide barriere politiche la religione può divenire un veicolo di violenza e di intolleranza.

Naturalmente, tra le diverse traiettorie della religiosità non è possibile, per il pensiero laico, prendere alcuna posizione. Si tratta solo di valutarne il diverso impatto sulla nostra vita collettiva e di affrontare i problemi che ne discendono. Si può dire questo: che la religione, nel momento in cui varca i confini della fede come vissuto individuale, entro i quali la sua assolutezza non crea conflitti, entra allora in una rete di relazioni nella quale non ci può più essere una rivendicazione assoluta di verità. Il discorso filosofico è un discorso sempre aperto a diverse verità possibili, e non c’è dialogo se non si sa convivere con la relatività, se nel campo del relativo si pensa di entrare con la forza esclusiva di una verità assoluta. Lo stesso vale per la politica, soprattutto in un ordinamento democratico e pluralista. Il relativismo, in questo campo, non è una delle posizioni in gioco, ma è il terreno comune in cui può avvenire il confronto tra le diverse opzioni possibili. La democrazia implica necessariamente, come sua condizione, che il pluralismo delle posizioni e dei progetti sia sempre riconosciuto e legittimato. Se si vuole stare al gioco democratico, si deve preliminarmente accettare questa regola.

In sostanza, delle due l’una: o la religione sta sul terreno esclusivo della fede, dove l’assoluto implica solo l’esperienza e il convincimento personali, o entra nel campo della vita collettiva, nel quale agisce una pluralità di culture, di scelte, di volontà politiche, e allora il relativismo deve essere accolto come la condizione di una civile convivenza. Senza questa reciproca apertura, nessuna democrazia potrebbe funzionare. Questo significa per il cattolico rinunciare ai suoi convincimenti, e doversi ritrarre solo nella sfera privata? No, perché nello spazio comune della vita democratica c’è sempre la possibilità di agire, di dare testimonianza dei propri valori. È abbastanza singolare che proprio il concetto di «testimonianza» si stia perdendo. Esso significa che si può fare, si può offrire un esempio, si possono realizzare delle esperienze, anche in un contesto sociale in cui prevalgono altre idee, altri modelli. II testimone non impone la sua verità, ma la fa vivere, la rende visibile, la affida non alla forza coercitiva dello Stato, ma alla ricchezza delle relazioni umane che sa suscitare. È in questo spazio intermedio tra lo Stato e la soggettività individuale che si mettono alla prova le diverse culture, le quali possono offrire alla nostra vita collettiva un orizzonte di senso. Ciò vale, ovviamente, non solo per i cattolici, ma per chiunque sia portatore di valori o di progetti, e sia impegnato a sperimentarli nella realtà. Anche la sinistra dovrebbe investire di più in questo campo aperto e non ridurre tutto al solo obiettivo della conquista del governo. In una democrazia plurale, queste diverse testimonianze possono convivere, confrontarsi, dialogare o anche contrapporsi, ma dentro un contesto comune in cui nessuno ha il monopolio e nessuno può imporre ad altri una verità non condivisa.

Nella realtà, ciò che c’è oggi di vitale nel mondo cattolico avviene proprio per la via della testimonianza, dell’azione concreta di solidarietà e di carità, mentre all’inverso ogni volta che la Chiesa tende ad occupare lo spazio politico, a controllarlo, a imporre le sue regole, finisce necessariamente in un ingranaggio di potere che ne snatura le potenzialità e le risorse morali. Occorre poi sempre distinguere ciò che attiene ai singoli e ciò che attiene all’istituzione. Ci si è posti il problema se la Chiesa, in quanto istituzione, ha sempre e su tutto il diritto di parola. E quasi tutti si sono affrettati a dire che non solo c’è il diritto, ma il dovere. Su tutto? Possiamo accettare che in qualsiasi dibattito politico o in una competizione elettorale la Chiesa prenda posizione? Se fosse così, non sarebbe più Chiesa, ma partito politico, e tutti gli accordi tra Stato e Chiesa dovrebbero a quel punto essere profondamente riesaminati.

Questo tema, della laicità dello Stato e del suo rapporto con la religione, va oggi necessariamente allargato, essendo in presenza di una grande ondata migratoria che crea una situazione del tutto nuova, con una pluralità di culture e di fedi, le quali tutte hanno diritto a essere riconosciute e tutelate. La pretesa integralistica, in questo nuovo contesto, appare ancor meno accettabile, e assume di fatto un significato di intolleranza, di chiusura, di rifiuto della diversità. E accade, specularmente, che tutti i conservatori più retrivi, proprio per questa ragione, scoprano strumentalmente la cristianità dell’Italia e dell’Europa, per poter affermare il loro modello politico, per difendere il loro potere e lasciare le grandi masse degli esclusi al loro destino.

Anche la Chiesa, quindi, sta di fronte a dilemmi e alternative, di cui deve ben valutare le conseguenze. Deve scegliere se contribuire a una crescita democratica e civile, o se impegnarsi in un conflitto di potere che la porta necessariamente a essere schiacciata sulle posizioni più conservatrici. Da questo dipenderà anche il nostro atteggiamento: di dialogo o di deciso contrasto.



Numero progressivo: L33
Busta: 9
Estremi cronologici: 2006, gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: “Argomenti umani”, gennaio 2006, pp. 65-73