IX CONGRESSO SPI CGIL LOMBARDIA

Sala Convegni Unione del Commercio, Milano 18-19-20 gennaio 2006

Introduzione di Riccardo Terzi in qualità di Segretario generale SPI CGIL

1) Dopo aver concluso il ciclo dei congressi di base e di quelli territoriali, possiamo ora valutarne i risultati e compiere un primo bilancio politico. C’è stato un grande impegno per promuovere la più larga partecipazione degli iscritti, aumentando il numero delle assemblee, anche se resta, per un sindacato come il nostro, una difficoltà oggettiva. Registriamo alla fine un risultato non del tutto soddisfacente, ma apprezzabile, con la partecipazione al voto di circa 35.000 iscritti, con un miglioramento rispetto al precedente congresso.

Sotto il profilo politico, mi sembrano rilevanti tre aspetti. In primo luogo, c’è stata una grande consapevolezza del valore unitario del congresso, della necessità, in questa fase, di una forte coesione della CGIL, come condizione per fronteggiare le dure prove di questa stagione politica. Se siamo uniti, possiamo costruire un’unità più larga, e l’unità interna non significa affatto appiattimento e conformismo, ma lo sforzo da parte di tutti di partecipare, senza rigidità, ad una ricerca comune, ad una elaborazione collettiva nella quale tutti i diversi contributi possono concorrere ad una sintesi unitaria. Il secondo elemento che esce con forza dal nostro dibattito congressuale è la denuncia di una situazione sociale che si è pesantemente aggravata, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la qualità dell’organizzazione sociale e dell’intervento pubblico, con l’effetto di allargare in modo allarmante le aree di povertà e di emarginazione, e di determinare uno stato generale di incertezza e di precarietà. E rispetto a questa situazione di emergenza sociale sentiamo tutti l’insufficienza dei risultati sindacali che siamo riusciti ad ottenere, il grande divario che si è prodotto tra mobilitazione e risultati.

Questo divario ha precise ragioni politiche, è la conseguenza di un indirizzo di governo che ha consapevolmente ignorato e rifiutato le proposte del sindacato. E quindi – ecco il terzo aspetto – è del tutto chiaro che noi ci troviamo nel mezzo di un duro scontro politico e che molto dipenderà dal suo esito, dagli assetti di potere che saranno determinati dai prossimi appuntamenti: elezioni politiche e amministrative, nuovo governo, referendum sulla riforma costituzionale. A partire da queste considerazioni, a me sembra che la nostra unità interna e il largo consenso alle tesi congressuali abbiano una forte e consapevole motivazione. Ora, una volta consolidata questa base comune, dobbiamo, in questa ultima fase congressuale, dal livello regionale a quello nazionale, tentare un avanzamento, ovvero una riflessione che cerchi meglio di indagare alcuni nodi politici che restano aperti, evitando di ripetere cose già dette e già acquisite. Per questo, io non vi proporrò una relazione compiuta, ma solo qualche spunto di riflessione, in modo aperto, sollecitando il contributo di tutti.

 

2) Noi ci troviamo oggi dentro uno scontro politico di grande portata e di grande asprezza. E sappiamo bene, per esperienza diretta, che non bastano le risorse sindacali se non si creano condizioni politiche nuove. In questo quadro, qual è il significato della nostra autonomia? È ancora un valore per noi essenziale, o siamo ormai entrati in una fase del tutto nuova, nella quale la logica del bipolarismo coinvolge necessariamente anche il sindacato? La risposta non è semplice. Il rapporto con la politica è sempre complesso, e il confine tra la sfera sociale e quella politica non è mai tracciato con un taglio netto.

È un confine mobile, che di volta in volta può modificare il suo tracciato. In ogni caso, non può essere accettata una posizione di delega alla politica, di appiattimento del sindacato su una logica di schieramento, come se a questo punto non ci fosse più nessuno spazio per una sua autonoma iniziativa. Delegare significa affidare ad altri la rappresentanza del lavoro, e prepararci per il futuro ad un ruolo subalterno. Significa in sostanza tornare indietro, ad una vecchia idea di collateralismo, di cui ci siamo faticosamente liberati. Il sindacato è il luogo della rappresentanza sociale, e deve sempre agire avendo questa come sua unica bussola. Ciò non ci impedisce di prendere posizioni politiche, ma solo in quanto sono funzionali alle ragioni della rappresentanza. In questo momento politico, quindi, sono del tutto chiari i motivi per cui pensiamo necessario e urgente un cambio di governo, ma ciò non significa un arretramento della nostra autonomia, perché ci sarà comunque, tra la sfera politica e quella sociale, una dialettica complessa, senza che sia mai possibile risolvere l’una nell’altra. Noi quindi saremo attivi nella prossima prova elettorale, ma ci impegneremo anche dopo per far valere le nostre autonome ragioni, senza nessuna delega in bianco.

Ma c’è una domanda più di fondo: che cosa significa, davvero, rappresentare? In una realtà sociale complessa e frantumata, come quella che si è determinata nelle nostre società dopo l’esaurimento del ciclo fordista, si può rappresentare, si può cioè creare un’identità collettiva, solo se c’è un progetto a cui vengono finalizzati i diversi interessi particolari. Rappresentare vuoi dire convogliare una pluralità di situazioni e di aspettative individuali in una comune prospettiva di cambiamento. La rappresentanza, quindi, non è una funzione passiva, di mera registrazione dei bisogni, non è il corporativismo degli interessi, ma è sempre la costruzione di una nuova identità, di una nuova coscienza collettiva, in vista di un programma di trasformazione sociale. Non è una novità di oggi, perché tutta la storia del movimento operaio è la storia di una coscienza che si forma politicamente: c’è la classe nel momento in cui si gettano le basi di un progetto e di una coscienza politica. La novità è solo nel fatto che questo lavoro si presenta oggi più impegnativo, perché dobbiamo agire in una realtà sociale più dispersa.

Da questo punto di vista, dobbiamo necessariamente porci qualche interrogativo circa la nostra funzione, come sindacato dei pensionati e delle persone anziane. Qual è il collante progettuale con cui teniamo unito questo universo sociale, che ha in sé infinite differenze e articolazioni? Se per i lavoratori attivi il problema comune è la valorizzazione del lavoro, per i pensionati è in gioco la qualità della loro vita, il loro posto nella società, il loro riconoscimento come cittadini che vogliono svolgere una vita attiva, e quindi di conseguenza il nostro orizzonte si allarga, oltre la sfera strettamente economica, per investire tutti gli aspetti esistenziali e relazionali. La nostra rappresentanza è quindi un’operazione politica e culturale assai complessa, che mette al centro la persona nella totalità delle sue manifestazioni. A meno che ci si limiti ad una attività di servizio e di consulenza tecnica. Ma tutta la nostra esperienza ha già superato questo stadio, e si sta costruendo un modello sindacale del tutto nuovo e originale, che ha le sue radici non nel lavoro, ma nella vita dopo il lavoro. È una grande novità nel panorama del sindacato europeo, ed essa ha dimostrato una straordinaria forza espansiva. Sta a noi elaborare più compiutamente il senso di questa esperienza.

 

3) Il grande tema che ci sta di fronte è il processo di invecchiamento da cui sono attraversate tutte le società più sviluppate, e che in Italia si manifesta in forme particolarmente accentuate. È questo uno dei grandi nodi del nostro tempo. Le previsioni demografiche per i prossimi decenni ci offrono un quadro inquietante. In Italia la percentuale dei soggetti oltre i 65 anni dovrebbe passare, tra il 2001 e il 2030, dal 18,2 al 28,6%, e l’età media della popolazione dai 40 ai 52 anni. A questo processo si accompagna una profonda trasformazione della struttura familiare, che sempre meno funziona come fondamentale luogo di socializzazione, per cui la grande novità del nostro tempo è che per la maggioranza delle persone invecchiamento significa solitudine. E la Lombardia è, sotto tutti questi profili, ai primi posti nella graduatoria delle Regioni, con valori superiori alla media nazionale.

Come ci confrontiamo con un fenomeno che ha questa ampiezza, questo ritmo, e che è destinato a sconvolgere l’intero equilibrio sociale? Non possiamo sottrarci a questa domanda. Noi diciamo, giustamente, che la popolazione anziana non può essere considerata solo come un peso, come un costo sociale, ma anche come una risorsa da valorizzare. Ma può essere sufficiente questa risposta? O non c’è un equilibrio nella composizione demografica del Paese, oltre il quale i problemi rischiano davvero di diventare drammatici? Se non approntiamo per tempo delle strategie politiche efficaci, rischiamo di trovarci in tempi assai ravvicinati in una situazione difficilmente governabile, nella quale la spinta a tagliare nel vivo dello stato sociale si farà particolarmente violenta e sarà sempre più difficile da contenere.

È qui in gioco tutto il rapporto tra le generazioni. La situazione italiana ha questo di caratteristico, che non c’è nessun investimento sul futuro. Dovrebbe essere logico avere verso i giovani, che sono una risorsa scarsa, una politica di promozione e di sostegno, e invece avviene esattamente il contrario, con la precarizzazione del lavoro, con i tagli alla scuola e alla ricerca, con una struttura dell’economia e delle professioni chiusa a difesa dei poteri costituiti, per cui la società nel suo insieme manca di dinamismo e di mobilità sociale. I giovani, con poche eccezioni, restano chiusi in un’area di marginalità, da cui è sempre più difficile uscire. Tutti i tempi della vita vengono alterati. Si lavora tardi, si esce sempre più tardi dal nucleo familiare, si resta quindi troppo a lungo in una condizione di dipendenza, e tutto questo comporta un enorme spreco di risorse. Nel confronto con gli altri paesi europei, l’Italia occupa decisamente una posizione di retroguardia. In questa situazione è del tutto logico e inevitabile il tracollo del tasso di natalità. Sulla famiglia si fa molta retorica, molto moralismo, ma essa resta affidata alla divina provvidenza. Se questo stato di cose si protrae, si può aprire un grave conflitto intergenerazionale.

C’è un bel libro dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, Diario della guerra del maiale, dove il maiale da cacciare è il vecchio, bersaglio della rabbia giovanile. In questo nostro mondo, dominato dallo spirito di competizione, possono sempre accadere esplosioni violente, là dove si sono accumulati negli anni processi di esclusione e di compressione dei diritti, come è successo recentemente nelle periferie degradate delle grandi città della Francia.

Ecco allora un tema che noi dobbiamo sentire come nostro: dare un futuro alle nuove generazioni, perché da questo dipende la vitalità del nostro paese e la sua crescita civile. Non è un paradosso che lo si dica qui, al congresso dei pensionati della CGIL perché noi siamo direttamente implicati in questo eventuale conflitto, e soprattutto perché per gli anziani è molto importante potersi rispecchiare nel futuro dei figli e dei nipoti, e sentire che la loro vita e i loro sacrifici non sono finiti nel nulla. Se i giovani sono sospinti indietro, se devono ricominciare daccapo nella battaglia per i diritti, questo ha per noi il sapore acre di una sconfitta.

Per questo chiediamo una linea sindacale coerente, che non si presti mai a barattare la difesa dei diritti acquisiti con un peggioramento per i lavoratori del domani. Sotto questo profilo ci sono stati molti accordi sindacali eticamente insostenibili. Abbiamo troppe volte subito la logica miope di una difesa corporativa, che guarda solo al presente e scarica sul futuro tutti i prezzi della flessibilità del mercato. Fu Trentin a denunciare più volte, con grande forza, queste situazioni, ma nel complesso non siamo riusciti ad impedire un progressivo sgretolamento dei diritti e della dignità del lavoro. Lo stesso sistema previdenziale rischia di produrre una frattura tra le generazioni, perché non si sono ancora trovati i necessari correttivi per dare una risposta e una copertura ai lavori discontinui e perché non è ancora decollato il sistema della previdenza integrativa, anche per le gravi scelte compiute dal governo. Noi abbiamo il dovere di intervenire su questo nodo e di avanzare una proposta, garantendo anche per il futuro un sistema previdenziale pubblico e universale che dia a tutti una prospettiva di sicurezza, secondo un criterio di solidarietà e di giustizia, e dovrà anche essere affrontato seriamente il problema dell’innalzamento dell’età lavorativa, non in modo forzoso, ma tenendo conto delle diverse tipologie di lavoro, delle aspettative di vita, e governando con appositi strumenti il mercato del lavoro in quella delicata fascia di età nella quale si rischia di non avere né il lavoro né la pensione.

 

4) Questo tipo di approccio ai problemi della società italiana dà il senso di ciò che dovrebbe essere, a mio giudizio, il ruolo dello SPI in quanto forza di cambiamento, impegnata nella costruzione del futuro. Non è un passaggio scontato. Sappiamo bene come con l’invecchiamento possono prendere forza le tendenze conservatrici, l’attitudine cioè a guardare solo all’indietro, ad un passato tramontato e idealizzato, e a vedere con ostilità e diffidenza tutti: i cambiamenti che nella società si producono, a non riconoscersi più in un mondo che si trasforma, Ma questo avviene quando le persone anziane vengono tagliate fuori da tutti i processi vitali e vengono relegate in un ghetto, tollerate e anche assistite, ma solo come animali in via di estinzione.

Noi dobbiamo rovesciare questa tendenza, Non possiamo vedere il problema dell’invecchiamento solo come un problema di assistenza, ma dobbiamo dare a questa fase della vita un significato pieno, anche se problematico, in quanto si tratta di realizzarsi come persone, sia pure in un contesto sociale ed esistenziale del tutto nuovo rispetto alla propria esperienza passata. E si dà un senso alla vita se c’è un futuro da costruire, per sé e per la società in cui si vive, Essere forza di cambiamento vuoi dire questo: essere pienamente partecipi della vita della collettività, e trovare un senso in un lavoro che ancora resta da fare per allargare, per noi e per gli altri, per il presente e per il futuro, gli spazi di libertà e di crescita civile.

Con l’invecchiamento non viene meno l’impulso fondamentale della vita, che è quello di dare piena realizzazione alle proprie facoltà. Come dice Spinoza, uno dei grandi classici della filosofia moderna, «ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere», e quindi ciò che contraddistingue la virtù propria della natura umana è la capacità di «agire, vivere, conservare il proprio essere sotto la guida della ragione». È allora evidente che una società che non è capace di valorizzare tutte le risorse della vita, e che fa del mondo degli anziani un grande deposito di energie inutilizzate, di vite sprecate, contiene in sé una contraddizione di fondo, una stortura che deve essere raddrizzata, La condizione degli anziani è sempre un indicatore della complessiva qualità sociale: se la società non li sa accogliere e valorizzare, significa che le ragioni dell’uomo sono sacrificate alle ragioni del profitto o del potere. Significa, come dice il documento congressuale della CGIL, che la società deve essere “riprogettata”. In questa prospettiva, i temi da affrontare sono molteplici: gli spazi e gli strumenti della socializzazione, le forme dell’abitare, l’assistenza domiciliare, una adeguata politica della sicurezza, tutto ciò insomma che possa offrire un’alternativa alla disperazione e alla fragilità della solitudine, nella quale l’anziano si trova senza difese di fronte alla malattia, alle complesse incombenze della vita, ai professionisti del raggiro, all’indifferenza ostile di un ambiente esterno che lo esclude e lo rinchiude nel suo piccolo spazio privato.

E noi, rappresentanza sindacale degli anziani, li rappresentiamo in quanto indichiamo una prospettiva di cambiamento. Possiamo rovesciare la consueta immagine della saggezza senile come custodia della tradizione, e proporre un modello di saggezza che consiste nel saper guardare oltre la sfera del già vissuto e del già conosciuto per aprire la nostra mente al futuro da costruire. Essere saggi vuol dire allora avere uno sguardo aperto, oltre l’immediatezza del quotidiano, e vedere le cose nel loro divenire, nelle potenzialità che ancora possono essere dischiuse. Solo così, io credo, ci può essere riconosciuto un ruolo, in quanto cerchiamo di interpretare i bisogni profondi della nostra società. Questo discorso ha una sua precisa traduzione sul piano sindacale. Significa per noi fare fino in fondo la scelta della confederalità, dell’assunzione piena degli obiettivi generali, strategici del sindacato, significa considerare la realtà degli anziani non in modo isolato, settoriale, ma come qualcosa che dipende dalla qualità sociale complessiva. Noi non siamo una categoria, una rappresentanza corporativa, ma un’espressione della confederalità, un sostegno decisivo per la confederazione nella costruzione del suo progetto politico.

 

5) Un progetto per l’Italia; questo è il cuore del nostro congresso. È un’operazione ambiziosa, che proietta il sindacato in una dimensione allargata, che va oltre la sua tradizionale funzione rivendicativa e contrattuale. Ma ciò è necessario, perché la stessa attività sindacale richiede, per potersi pienamente sviluppare, un nuovo orizzonte politico. Se non alziamo il tiro della nostra iniziativa, finiamo stritolati in un meccanismo che ci marginalizza e che ci lascia solo la possibilità di occuparci di qualche piccolo dettaglio, mentre le grandi scelte strategiche sono prese altrove, senza di noi e contro di noi.

Ma un progetto per l’Italia deve avere necessariamente una dimensione globale, deve essere collocato nell’Europa e nel mondo, e di questo non abbiamo ancora una sufficiente percezione. Parliamo molto di globalizzazione, ma non ne traiamo tutte le conseguenze, non mettiamo cioè al centro della nostra analisi quello che è il dato cruciale del nostro tempo, l’esistenza di un meccanismo di sviluppo che esaspera le disuguaglianze e che apre un conflitto drammatico tra i paesi sviluppati e i grandi continenti del sottosviluppo. Stenta a prendere forma, su questo grande nodo, una politica del movimento sindacale, una sua azione forte e visibile sulla scena internazionale. Il sindacato non è ancora un soggetto globale, ma è piuttosto una sommatoria di politiche locali, e gli organismi internazionali producono spesso solo dichiarazioni generiche, senza una concreta efficacia. La stessa Ces è troppo condizionata dai diversi interessi nazionali. Occorre tradurre l’idea di solidarietà internazionale in politiche concrete, e ciò vuoi dire occuparci dei meccanismi che regolano lo scambio economico su scala mondiale. Senza questo, si fa solo della retorica a buon mercato.

E in questo quadro occorre definire quale può essere la missione politica dell’Europa, se essa vuole essere o meno un attore politico globale che si fa carico pienamente dell’esigenza di un nuovo ordine mondiale, non solo di pace, ma di cooperazione, di crescita equilibrata, di giustizia, di promozione della libertà, Il progetto dell’Europa ha un senso se c’è questa dimensione, questa volontà di protagonismo nel mondo come un fattore di equilibrio e di democratizzazione. Su questo noi dobbiamo scommettere, e lavorare perché l’Unione Europea superi la sua crisi attuale e ritrovi il senso della sua missione nel mondo. Serve un europeismo attivo e dinamico, che utilizzi tutti gli spazi democratici esistenti e che costruisca una fitta rete di relazioni, di progetti comuni, per cominciare concretamente a dare vita alla cittadinanza europea. È chiaro che per l’Italia ciò vuoi dire voltare decisamente pagina rispetto a tutte, le politiche fin qui perseguite dal centro-destra, le quali ci hanno relegato in una posizione di allineamento servile verso la grande potenza americana. E, sul piano interno, il risultato, come è noto, è un generale degrado che investe la forza complessiva del Paese, in termini economici, sociali e civili. La situazione, tra l’altro, nell’imminenza delle elezioni sta ulteriormente degenerando, con l’uso di tutti i mezzi per avvelenare il confronto, con la montatura di una vera e propria campagna di aggressione morale nei confronti dell’opposizione, All’emergenza economica e sociale si aggiunge così una emergenza democratica, È necessario un generale cambiamento di rotta, e per questo dobbiamo elaborare le linee portanti di un nuovo progetto. Non da soli, ma insieme a tutte le forze vive della società italiana che a un tale progetto possono positivamente concorrere.

 

6) Sottolineo solo tre punti, che hanno una più stretta attinenza con il nostro lavoro. Il primo riguarda il modello democratico, il progetto di democrazia per il nostro Paese. Non è, come spesso si dice, un problema storicamente risolto, come se le nostre società occidentali fossero ormai messe al riparo da tutti i possibili rischi di involuzione autoritaria. Sul terreno della democrazia si combatte una battaglia: tra il decisionismo e la partecipazione, tra la democrazia plebiscitaria che si esaurisce nell’investitura del leader, e la democrazia costituzionale che si propone di costruire un sistema equilibrato di poteri, nessuno dei quali può soverchiare gli altri e divenire il luogo esclusivo della decisione politica.

È esattamente questo che è messo in gioco nella riforma costituzionale approvata dal centro-destra e che sarà oggetto di un prossimo referendum.

Con questa riforma l’Italia cessa di essere una repubblica parlamentare, perché conta solo il primo ministro, che ha nelle sue mani il potere di scioglimento delle Camere. E cessa anche di essere un ordinamento unitario e solidale, perché si innesca, con la devolution, un meccanismo di competizione e di separazione tra le Regioni, con l’effetto inevitabile di allargare la forbice delle disuguaglianze territoriali. Non c’è uno Stato più efficiente e più vicino ai cittadini, non c’è nessun ridimensionamento del centralismo statale, ma c’è solo il fatto che i cittadini hanno meno garanzie e meno diritti.

Che cosa sia il decisionismo lo abbiamo già visto all’opera in questi anni: concentrazione del potere, attacco alle autonomie locali, fine della concertazione sociale, messa in discussione di tutti i poteri autonomi, a partire dalla magistratura, arroganza e irresponsabilità del potere, volontà di controllo totale sui mezzi di informazione. E dietro questa esibizione di forza, c’è in realtà la riconsegna al mercato dei diritti sociali, c’è una politica che rinuncia alla sua funzione propria e che dà libero corso ad una competizione senza regole. Dobbiamo semplicemente decidere se a questa politica dobbiamo anche dare una definitiva copertura costituzionale, o se vogliamo cercare di rovesciarla, ricostruendo nel Paese un tessuto democratico plurale, fatto di autonomie, di rappresentanze, di organi di garanzia, di strumenti di partecipazione e di controllo. Il referendum sarà, per tutte queste ragioni, una battaglia politica di grandissimo valore, e noi ci sentiamo direttamente e consapevolmente impegnati, perché è in gioco la qualità della democrazia. Da ciò dipende anche il ruolo delle rappresentanze sociali all’interno del sistema politico e la possibilità di un controllo democratico sull’economia, per rompere i meccanismi perversi della concentrazione oligarchica, dell’illegalità e della corruzione.

 

7) Il secondo tema, per noi centrale, è lo stato sociale, la sua architettura, il suo destino nelle moderne società europee. Non ho bisogno di trattare in profondità questo problema, perché posso rinviare a tutta la ricca elaborazione che il sindacato ha prodotto e alle concrete verifiche che si sono compiute nell’attività di negoziazione sociale. È evidente che sta qui, per il sindacato dei pensionati, il nucleo centrale della sua iniziativa. Tutti i problemi che noi solleviamo dipendono dalle decisioni politiche, dalle scelte che vengono compiute nella politica sociale. In ogni caso, i nostri interlocutori sono le istituzioni politiche, centrali o decentrate. È quindi evidente che per noi è essenziale la disponibilità dei poteri politici ad una pratica di concertazione, perché non abbiamo altre sedi, altra forza contrattuale se non all’interno di un confronto istituzionale. Non possiamo per ciò in nessun modo condividere la tesi che la concertazione sia uno strumento da archiviare, una gabbia che limita la nostra forza. Il problema non è concertazione o no, ma quale concertazione, con quali criteri, con quali obiettivi. Si può ripercorrere criticamente la nostra esperienza, ma sarebbe un atto di irresponsabilità e di cecità la scelta di agire in una autonomia totale, rifiutando in via di principio qualsiasi patto politico, nell’illusione di recuperare per questa via una maggiore forza contrattuale. Ciò potrebbe funzionare solo per alcuni segmenti forti del mercato del lavoro, a scapito dei soggetti più deboli, e per i pensionati vorrebbe dire semplicemente la loro definitiva uscita di scena. La concertazione, quindi, va riconquistata, va rivendicata una seria politica dei redditi che sia in grado di regolare tutte le politiche distributive tra i diversi settori della società. E in questo quadro è decisivo un nuovo patto fiscale, che consenta di salvaguardare le prestazioni pubbliche e che sia regolato da precisi e rigorosi criteri di equità, di progressività, di solidarietà nazionale.

I segnali che ha dato questo governo sono di segno opposto: la promessa demagogica di un paradiso fiscale per tutti, e la rinuncia a un efficace azione di contrasto nei confronti dell’evasione, di cui anzi è stata giustificata la legittimità morale. L’inevitabile punto di approdo di questa linea è un pesante ridimensionamento della spesa sociale. Non ci può essere un fisco leggero e uno stato sociale forte. La politica fiscale resta il principale strumento di redistribuzione e di sostegno alle fasce sociali più deboli. Non dobbiamo quindi avere esitazione alcuna nel respingere il programma della destra.

È in questo quadro che si collocano le proposte contenute nella nostra piattaforma, a partire dalla necessità di un pieno recupero del potere di acquisto delle pensioni, che in questi anni è stato gravemente penalizzato, anche per la mancanza di un qualsiasi controllo sulla dinamica dei prezzi e delle tariffe. Noi non chiediamo di reintrodurre degli automatismi, ma di poter negoziare annualmente il livello delle pensioni, tenendo conto dell’andamento generale dell’economia nazionale. E abbiamo introdotto, con il documento dello SPI Nazionale, la proposta di un regime fiscale differenziato e agevolato per i redditi da pensione, considerando che a questo punto si rende necessaria una scelta netta, che cerchi di dare una soluzione strutturale al problema. Naturalmente, ci rendiamo conto delle complesse implicazioni che ciò comporta e della necessità di un confronto approfondito, politico e tecnico. Ma non siamo certo disposti a subire una politica che colpisce, nello stesso tempo, i diritti dei pensionati e quelli dei lavoratori. Salari e pensioni sono le due facce di uno stesso problema, e occorre affrontarle insieme.

Apprezziamo per ciò il fatto che le confederazioni abbiano assunto pienamente il tema delle pensioni e abbiano inserito le nostre proposte nella loro piattaforma politica, promuovendo anche, insieme ai sindacati dei pensionati, la proposta di legge di iniziativa popolare per il fondo sulla non autosufficienza.

È chiaro infatti che abbiamo bisogno, per ottenere dei risultati, dell’impegno maggiore e della mobilitazione dell’intero movimento sindacale. Dobbiamo quindi rilanciare tutta la nostra iniziativa unitaria, a livello nazionale e territoriale, e usare tutta la nostra forza per imporre all’attenzione del paese i nostri obiettivi.

 

8) Il terzo tema è quello della cittadinanza, ovvero dei diritti universali che debbono essere garantiti in una democrazia moderna. La politica democratica si forma nel momento in cui al privilegio subentra il diritto, all’appartenenza di casta o di ceto subentra la cittadinanza, come un complesso di diritti e di doveri che valgono per tutti. Non si tratta affatto di un dato acquisito, e sotto diversi profili è in atto il tentativo di scardinare il carattere unitario della cittadinanza.

Un primo problema si pone nel momento in cui l’ordinamento statale assume, anche se in modo piuttosto confuso e incerto, un indirizzo di tipo federalista. Il federalismo, nella sua essenza, non è affatto la negazione dei diritti, può anzi essere un modo più efficace per farli valere, in quanto l’esercizio del potere avviene a più diretto contatto con la realtà concreta delle comunità locali. Ma sappiamo come in Italia si è avviata la discussione sul federalismo, sull’onda della campagna separatista della Lega, il cui obiettivo di fondo è la rottura della solidarietà nazionale. Il federalismo deve significare, per noi, una valorizzazione dell’autonomia locale, ma nel quadro di un ordinamento unitario. La concreta strumentazione politica e amministrativa può essere differenziata, in rapporto con i diversi contesti territoriali, ma non possono essere differenziati i diritti universali sanciti dalla Costituzione. Ed è proprio questo principio di universalità che sembra oggi essere rimesso in discussione, anche per per effetto di una riforma costituzionale che è stata patteggiata con la Lega.

L’impronta della Lega è ancora più evidente là dove si tratta dei diritti civili e sociali degli immigrati. Qui è del tutto evidente come l’universalità del diritto venga sistematicamente negata. Ora, nel momento in cui l’ondata migratoria ha assunto un carattere di massa e ha cambiato il volto delle nostre città, diviene del tutto inaccettabile che nel cuore della nostra società ci sia, per così tante persone, una condizione di servitù senza diritti. Il primo passo necessario è il riconoscimento dei diritti politici, con l’accesso al voto, perché solo così si viene riconosciuti come persone, alla pari degli altri cittadini. Dobbiamo sentirci impegnati in una grande campagna politica e culturale, perché sono in gioco valori essenziali, e perché solo una seria politica di accoglienza e di integrazione può garantire la sicurezza e può scongiurare le esplosioni di violenza. C’è una tendenza, in tutto l’Occidente, a rispondere alle nuove sfide globali, a partire dalla minaccia del terrorismo, solo con gli strumenti repressivi, invocando “legge e ordine”, anche aggirando in modo disinvolto le garanzie costituzionali, e così accade che è il nostro patrimonio comune di libertà che viene messo a rischio. È un approccio miope, perché si deve sempre vedere la legalità nel suo rapporto con la giustizia.

Legalità e giustizia possono anche divergere, e la storia ci presenta infiniti esempi di violenza legalizzata. E ancora oggi vediamo spesso un uso della legalità che produce ingiustizia. Nelle nostre società civilizzate, l’universo carcerario è spesso un luogo di violenza gratuita, di umiliazione, di accanimento verso le persone più fragili, che avrebbero bisogno di essere reinserite nella vita civile. È’ molto grave che il Parlamento abbia ancora una volta ignorata la necessità di un atto di clemenza e che sia prevalsa, su un tema che ha questa pregnanza morale, il calcolo delle convenienze elettorali.

C’è un ultimo aspetto da considerare: la laicità dello Stato come garanzia delle libertà civili. Lo Stato non può essere il depositario di una verità, di una morale, e non può in nessun modo invadere il campo delle libere scelte individuali. Quando si produce questa invasione, allora la democrazia cambia natura e diviene integralismo: che le motivazioni siano religiose o di altra natura è del tutto irrilevante, perché si tratta in ogni caso di qualcosa che è incompatibile con l’idea moderna di libertà personale.

Anche sotto questo profilo, ci troviamo oggi in una situazione in bilico, perché c’è una fortissima pressione, da varie partì, per un uso politico della religione, nel quale viene meno quel confine, quella distinzione delle due sfere del politico e del religioso, che è stata a fondamento della nostra democrazia. Il principio della laicità si può riassumere con le parole di Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti d’America: «i legittimi poteri di governo si estendono solo a quegli atti che recano offesa agli altri». La libertà individuale, quindi, ha come suo limite solo quello di non compromettere la libertà degli altri. È stato questo il senso della grande manifestazione di sabato, a Milano, che con grande chiarezza ha ribadito il valore insopprimibile dei diritti della persona.

Questa forte ripresa dell’iniziativa delle donne è una buona notizia, ed è stato significativo l’impegno di tutte le strutture della CGIL.

  1. Su ciascuno di questi terreni ci può e ci deve essere una autonoma iniziativa sindacale. Ed è chiaro che di fronte ad una prova così impegnativa abbiamo bisogno della più larga unità dei lavoratori e dei pensionati e di una intesa tra le grandi confederazioni. L’unità sindacale resta per noi una bussola indispensabile. C’è stato, in questa ultima fase, un processo nuovo e positivo, che ha via via consolidato una valutazione comune sulle grandi scelte, sui più rilevanti nodi politici, e che ha reso possibile una forte mobilitazione unitaria. Si tratta ora di dare continuità a questo processo, di fondarlo su basi più solide, con l’unico metodo che è possibile: il confronto aperto, il rispetto reciproco, l’approfondimento dei temi controversi e la ricerca di una mediazione che sia per tutti accettabile. L’unità sindacale non ha bisogno di proclami, ma di un’azione paziente. Le tesi della CGIL si muovono esattamente in questa direzione, senza irrigidire i punti di dissenso e cercando di offrire alle altre confederazioni il terreno di una ricerca comune.

 

10) La nostra esperienza, come sindacato dei pensionati, può dare un contributo positivo a questa ricerca, anche perché il vincolo unitario è stato sempre molto forte nella nostra iniziativa. Sul piano dell’azione contrattuale, noi abbiamo molto investito sul territorio, sulla negoziazione a livello comunale, seguendo una linea di forte articolazione. Ora, nella discussione sul modello contrattuale, questa esigenza di articolazione si ripresenta e non può essere elusa. Bisognerà cercare un nuovo equilibrio tra la dimensione nazionale e quella decentrata. Quello che noi possiamo dire, senza avere nessuna pretesa di imporre ad altri il nostro modello, è che il radicamento nel territorio può essere una grande risorsa, una grande occasione per il sindacato, perché possiamo entrare in un rapporto più immediato e diretto con le domande sociali che noi vogliamo rappresentare.

Su questo abbiamo costruito la nostra forza. E questa resta per noi la scelta strategica di fondo: essere una forza negoziale articolata, diffusa, che sta dentro i processi reali e che sa interagire in modo flessibile con i diversi contesti locali. In questa direzione, noi dobbiamo ulteriormente rafforzare il ruolo delle leghe, che sono la nostra struttura portante e che debbono poter operare come il fondamentale strumento della negoziazione territoriale, e anche come la forza promotrice di una pratica di socializzazione, costruendo quella vasta rete di relazioni nella quale prende senso la nostra vita individuale. A questa scelta di fondo dobbiamo far corrispondere tutta la nostra politica organizzativa.

 

11) Decentramento territoriale deve anche significare partecipazione, democrazia, costruzione del consenso. Dobbiamo fissare un quadro più chiaro e vincolante di regole, di procedure, e in questo senso abbiamo proposto a FNP e UILP di lavorare insieme per la definizione di un comune codice democratico, che possa funzionare come una guida efficace e realistica per il nostro lavoro. La stessa esigenza si pone per tutto il sindacato confederale, che deve saper superare le rigidità contrapposte e trovare un punto efficace di sintesi. È un problema che dobbiamo innanzitutto risolvere con una intesa sindacale. Solo successivamente potrà intervenire una legislazione di sostegno. Ciò che non è più accettabile è procedere a tentoni, caso per caso, senza che i lavoratori sappiano quali sono le regole della democrazia sindacale e quali sono i loro diritti. Credo che tutta la CGIL, senza sostanziali differenze interne, si senta impegnata su questo terreno, per una pratica democratica più matura nel rapporto tra sindacato e lavoratori, e credo pertanto che con il congresso sia possibile assumere una posizione comune.

Ma dobbiamo anche sapere che la democrazia non è solo un insieme di regole, ma è una pratica sociale, un lavoro costante di coinvolgimento e di responsabilizzazione, di confronto con le persone che vogliamo rappresentare, e questo richiede da parte di ciascuno di noi un coerente stile di lavoro, senza burocratismi, per essere davvero nella condizione di saper ascoltare e capire le domande che al sindacato vengono rivolte. È su questo piano che si misura la qualità del nostro lavoro di direzione.

 

12) Dovremo quindi più a fondo ragionare sul nostro modello organizzativo, sulle strozzature burocratiche da superare, sui rapporti tra i diversi livelli dell’organizzazione, puntando più decisamente su una linea di decentramento, dei poteri decisionali e delle risorse. È questa una verifica che per troppo tempo abbiamo rimandato, e sotto molti profili l’organizzazione attuale della CGIL appare sbilanciata rispetto ai processi reali che stanno mutando la composizione sociale del Paese. C’è una struttura ancora troppo centralizzata, nel momento in cui c’è una rivitalizzazione della dimensione territoriale; c’è un’organizzazione ancora centrata sui luoghi tradizionali della produzione, mentre tutto il tessuto economico e sociale viene rivoluzionato; c’è una difficoltà ad entrare in relazione con i nuovi lavori e con il mondo giovanile c’è una presenza ancora insufficiente delle donne nell’insieme delle nostre strutture. È una discussione da fare, da preparare attentamente, senza improvvisazioni e che può essere collocata in una apposita conferenza di organizzazione da tenersi in tempi brevi. A questa discussione noi siamo interessati anche perché c’è molto da chiarire e da definire nei rapporti tra lo SPI e la Confederazione, per decidere sulle competenze e sulle titolarità negoziali, per realizzare insieme un più forte presidio sindacale nel territorio.

 

13) In questo lavoro di ridefinizione del nostro modello organizzativo dovremo anche valorizzare la dimensione regionale, non solo perché ci sono gli effetti politici del federalismo, ma perché l’Italia, anche a prescindere dai suoi meccanismi istituzionali, ha in sé, storicamente, forti elementi di differenziazione e ogni regione ha una sua storia, una sua cultura, una sua diversa funzione all’interno della comune appartenenza nazionale, Qui, in Lombardia, noi ci dobbiamo misurare con problemi, con processi politici, con trasformazioni sociali, che hanno una loro peculiare rilevanza, diversa da ciò che si verifica nelle altre parti del paese, Non si tratta affatto di una velleità sterile di autonomia, o peggio di separazione, ma della consapevolezza di un ruolo, di un contributo specifico che possiamo dare, a partire dalla nostra realtà, alla elaborazione nazionale, Serve un gruppo dirigente regionale solo se sa misurarsi con la realtà nella quale è chiamato ad operare, Per questo, io penso che lo SPI della Lombardia debba individuare alcune sue linee di lavoro, alcune sue priorità, debba avere una sua fisionomia, la quale concorre, insieme alle altre realtà regionali, alla politica complessiva della nostra organizzazione. Mi limito ad indicare solo alcune linee generalissime, che non sono ancora proposte di lavoro strutturate, ma un ragionamento preliminare, per cercare di capire quali possono essere per noi le principali coordinate del nostro lavoro. Indico, schematicamente, quattro punti, Il primo è l’Europa, perché la Lombardia è la regione più proiettata nella dimensione europea, attraversata dalle relazioni internazionali, collegata strutturalmente con altre grandi regioni europee.

In secondo luogo, noi siamo nel punto dove tutti i processi politici e culturali che stanno trasformando il paese, la sua coscienza di sé, la sua identità, sono più apertamente dispiegati, e qui vediamo quindi più chiaramente gli effetti di questa grande mutazione. Sta quindi a noi, in prima istanza, cercare le coordinate analitiche e culturali per capire il cambiamento e per costruire una nostra risposta. Su questo terreno ci siamo già incamminati, con molteplici iniziative culturali e di ricerca. È un lavoro che dobbiamo proseguire e rendere più sistematico, anche dotandoci, come stiamo facendo, di nuovi strumenti di comunicazione. Il terzo tema è quello, che ho già affrontato, dell’invecchiamento della società e dei suoi riflessi sul rapporto con le giovani generazioni. La Lombardia, con i suoi indici demografici e con i suoi processi spinti di precarizzazione del lavoro, può essere il luogo dove cercare di costruire delle nuove risposte.

Infine, ci dobbiamo confrontare seriamente con tutta la realtà multiforme del terzo settore e dell’associazionismo, e con le politiche messe in atto dal governo regionale, sulla base di un preciso e assai discutibile impianto culturale, centrato sull’idea di sussidiarietà e sul primato dei soggetti sociali rispetto all’intervento pubblico. Dobbiamo saper elaborare una nostra proposta alternativa, riesaminando tutto il problema dei rapporti tra pubblico e privato, in una ottica che non può più essere la riproposizione di un vecchio statalismo.

Alle difficoltà dello stato sociale si deve rispondere mettendo in campo una più stretta cooperazione tra istituzioni politiche e soggetti sociali, dentro un quadro di regole e tenendo ben ferma la necessità di una forte funzione di regia e di programmazione da parte degli organi politici. Occorre cioè costruire dei “sistemi territoriali”, fondati sull’integrazione delle diverse funzioni e su una pratica di concertazione. È un filone di lavoro e di riflessione sul quale dovremo molto impegnarci, proprio perché in Lombardia molte cose sono in movimento, positive o negative, e con esse dobbiamo saperci confrontare.

 

14) Il nostro congresso rappresenta sicuramente un momento positivo di consolidamento, che rafforza la nostra unità interna e ci dà gli strumenti per affrontare gli impegni futuri. Si tratta ora di aprire, sulla base di questo risultato, una fase nuova di sviluppo, di crescita politica e organizzativa. Lo SPI della Lombardia intende contribuire attivamente a questo rilancio politico, in un rapporto forte di collaborazione e di solidarietà con il gruppo dirigente nazionale, e in questo senso confermiamo alla segretaria generale Betty Leone il nostro pieno sostegno. Il congresso ci incoraggia ad andare avanti e a sperimentare, insieme, nuovi percorsi di lavoro, valorizzando il pluralismo delle idee e delle esperienze e mettendo ciascuno nelle condizioni di dare il suo attivo contribuito al lavoro comune, nello SPI e nella CGIL.



Numero progressivo: D23
Busta: 4
Estremi cronologici: 2006, 18-20 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -