[RICERCA DI AASTER SUL MUTUALISMO]

Intervento di Riccardo Terzi

Una ricerca sul mutualismo è abbastanza inusuale, perché si tratta di un’idea che siamo abituati a collocare nel passato storico, agli albori del movimento operaio, quando si trattava di gettare le basi di una pratica elementare di solidarietà e di mutuo soccorso tra lavoratori senza diritti riconosciuti e senza forza contrattuale. Del mutualismo si tende a parlare solo al passato, come di un inizio che ha dato luogo, nel tempo, ad un sistema più strutturato e garantito di diritti, nel lavoro e nella vita sociale. E tuttavia la ricerca promossa dal consorzio Aaster coglie un dato di estrema attualità, mostra cioè come, nelle attuali condizioni sociali, il bisogno di nuove forme di mutualità si ripresenta e dà luogo ad una molteplicità di esperienze, che è utile indagare sia nei loro fondamenti valoriali sia nelle loro pratiche realizzazioni.

Perché la domanda di mutualismo ritorna e si riattualizza? C’è una ragione di fondo, storico-politica, che tiene insieme queste diverse esperienze e le fa essere un dato saliente e significativo nell’attuale panorama sociale, o si tratta solo di episodi marginali, di percorsi secondari, di qualcosa che resta dunque inessenziale e che perciò non ha rilievo politico? È una domanda importante, perché essa sottende un giudizio complessivo sulle nostre moderne società e sui rapporti che si sono instaurati tra società e Stato, tra società civile e società politica. Io condivido pienamente la premessa da cui muove la ricerca: siamo in presenza di una novità rilevante, che sposta su un nuovo terreno tutto il dibattito politico e che ci costringe a pensare in termini nuovi allo stato sociale, alle politiche di welfare, alla luce delle grandi trasformazioni sociali che attraversano tutte le società dell’Occidente più sviluppato.

Il mutualismo ritorna non casualmente, e non marginalmente, perché ritornano alcune essenziali domande sociali, che non trovano più una risposta adeguata entro i canali classici dello stato sociale così come lo abbiamo conosciuto nelle sue manifestazioni più consolidate, secondo il modello socialdemocratico del ‘900. I punti di criticità sono essenzialmente due, sul versante dello Stato e sul versante della soggettività sociale. Sul primo versante, c’è il problema della crescita esponenziale delle risorse che si rendono necessarie per garantire una effettiva universalità dei diritti sociali. Ad un certo punto si determina una rottura, non essendo possibile forzare oltre una certa soglia la pressione fiscale. E proprio su questo terreno, del fisco e del contributo di solidarietà che viene richiesto a tutti i cittadini, in proporzione alloro reddito, si è scatenata una violentissima offensiva da parte delle destre politiche, che hanno assunto come loro bandiera propagandistica la diminuzione del carico fiscale. In Italia, in modo particolare, il collante che tiene unita la destra è l’idea di un fisco leggero, e quindi di uno Stato leggero, che si limita a poche funzioni assistenziali per le fasce sociali più svantaggiate, lasciando per il resto che sia la naturale dinamica del mercato a regolare la vita sociale, senza eccessive interferenze politiche.

È naturalmente una tesi che si può contestare, ma non è possibile non tener conto delle reali difficoltà che si sono determinate nel rapporto tra cittadini e Stato, per cui la politica fiscale deve trovare un suo difficile punto di equilibrio e non può essere forzata oltre una determinata soglia di compatibilità sociale. L’intervento pubblico ha un suo limite interno, e fa sempre più fatica a fronteggiare l’insieme delle emergenze sociali. C’è insomma una sproporzione crescente tra bisogni sociali emergenti e la possibilità di risolverli con gli strumenti classici dell’intervento statale. In particolare, lo stato sociale viene messo in tensione da tre ordini di fattori. Il primo, e sicuramente il più rilevante, è il crescente invecchiamento della popolazione, che determina una struttura demografica del tutto nuova, con un peso sempre più accentuato delle persone anziane, con tutto il carico che ne discende in termini di assistenza, di prestazioni sanitarie, di sostegno alle persone non autosufficienti, di organizzazione dei servizi, di riorganizzazione equilibrata della spesa previdenziale.

È un fenomeno nuovo, che riguarda tutte le società più sviluppate, e che non ha ancora trovato una risposta politica efficace. È giusto dire che la popolazione anziana non è solo un peso, ma è anche una risorsa. Ma questo rischia di essere solo uno slogan consolatorio se non si definiscono delle linee politiche concrete ed efficaci. E in ogni caso non è possibile negare il fatto che l’invecchiamento comporta, di per sé, un aumento della domanda di protezione sociale, alla quale non è affatto semplice rispondere.

Il secondo aspetto da considerare è tutto il fenomeno, sempre più impetuoso, dell’immigrazione, il quale rappresenta un dato ormai strutturale, che può essere solo in parte controllato e arginato, e che sembra destinato a segnare sempre più in profondità il futuro delle nostre società. E anche in questo caso sono evidenti le complesse e impegnative conseguenze dal punto di vista dell’integrazione, della coesione sociale, del riconoscimento dei diritti, per evitare che nel cuore della nostra civiltà si creino dei ghetti di emarginazione e delle forme intollerabili di esclusione e di sfruttamento.

In terzo luogo, ci sono le trasformazioni del mercato del lavoro, la fortissima spinta verso forme acute di flessibilità e di precarietà del lavoro, con la formazione quindi di un tessuto sociale, soprattutto nel mondo giovanile, ma anche nella fascia critica dai 50 ai 60 anni, nel quale tutto il sistema dei diritti viene rimesso in discussione. Per affrontare questa emergenza nelle sue stesse radici, e non limitarsi a qualche piccolo aggiustamento, è necessario rivisitare l’intero diritto del lavoro e impostare su basi nuove tutto il sistema degli ammortizzatori sociali. Non è più sufficiente la tutela nel singolo posto di lavoro, ma occorre una protezione allargata che consenta al lavoratore di muoversi nel mercato e di gestire percorsi di mobilità, disponendo per questo della professionalità e delle conoscenze necessarie, e avendo a disposizione una sufficiente rete di protezione. Anche questa operazione ha, come è evidente, dei costi economici assai elevati. Invecchiamento, immigrazione, mercato del lavoro: sono tre grandi emergenze politiche, che richiedono una complessiva riorganizzazione dello stato sociale e una nuova definizione degli obiettivi e delle priorità dell’intervento pubblico. Su questo versante, quindi, il problema è quello dell’uso razionale delle risorse tenendo conto della nuova struttura sociale e delle nuove domande a cui occorre rispondere.

Ma ancora più rilevante è il secondo versante, che riguarda la qualità della domanda sociale e i mutamenti qualitativi che sono intervenuti nella soggettività delle persone. Si può dire, sinteticamente, che è sempre più il “bisogno di relazione” a prendere il sopravvento, un bisogno che non è misurabile in termini quantitativi e che perciò rischia comunque di non essere afferrato da qualsiasi piano di intervento pubblico. La nostra società contemporanea produce un deficit di socialità, uno sfilacciamento delle relazioni, per cui rischiamo di trovarci in una condizione di apparente libertà, ma privi di un contesto sociale nel quale ci si può pienamente realizzare come persone. Sono ancora una volta gli anziani i più esposti a questo possibile esito di rarefazione del contesto relazionale, che produce solitudine e impotenza, e quindi difficoltà crescente ad orientarsi nella società che cambia.

Se questo è il tema, per gli anziani anzitutto, ma più in generale per una società individualizzata e competitiva in cui siamo continuamente messi in gioco nella nostra identità, è evidente che non può in ogni caso bastare un programma pubblico di protezione, ed è qui che prende forma un nuovo bisogno di mutualismo, di solidarietà tra le persone, di costruzione e sperimentazione di nuove forme e nuovi stili di vita nelle relazioni interpersonali. Qui entriamo in un campo nuovo, che sfugge alle tradizionali alternative politiche, proprio perché la risposta va cercata attraverso un movimento di auto-organizzazione sociale, che la politica può incentivare o scoraggiare, ma non può mai ad esso sostituirsi. È su questo fondamento, sull’idea cioè di una socialità che non può essere demandata alla politica, che nasce l’esperienza di Auser, associazione di volontariato promossa dal sindacato pensionati della CGIL, di cui la ricerca mette bene a fuoco le esperienze più significative, dalle Banche del tempo al Filo d’argento. Sono, appunto esperienze centrate sulla reciprocità, sulla relazione, sul bisogno delle persone di costruire uno spazio comune di incontro, di dialogo, di aiuto reciproco, nel quale ciascuno si realizza come parte di una comunità, di una esperienza collettiva. Non è il movimento unilaterale dell’assistenza, o della beneficenza, ma è l’entrare in una relazione in cui da una parte e dall’altra si dà e si riceve. Si tratta appunto di una forma di mutualismo.

È un intervento che tocca una sfera diversa da quella del diritto. Se c’è un diritto, ci deve essere un intervento pubblico che lo garantisce. Ma davvero pensiamo che tutto possa essere giuridicizzato, che i problemi della nostra esperienza esistenziale possano essere risolti moltiplicando le “carte dei diritti” e chiedendo allo Stato di essere, su tutti i terreni, il garante della nostra vita? In una recente riunione ho suscitato una certa polemica, sostenendo che il campo di intervento di Auser non sono i diritti, ma sono gli interstizi della vita, gli angoli oscuri della sofferenza. Poteva sembrare una interpretazione minimalistica, residuale, ma il fatto è che nella nostra vita il campo occupato dal diritto è solo una piccola parte rispetto alla totalità concreta delle relazioni, e quindi occuparsi degli interstizi vuoi dire occuparsi della vera vita vivente.

La società ha quindi bisogno, per avere una sufficiente coesione, di due risorse, che restano tra loro distinte: una politica pubblica a sostegno dei diritti fondamentali, e una rete sociale che crea tra le persone quel tessuto di solidarietà che non potrà mai essere imposto dall’alto, ma deve svilupparsi liberamente come un processo di auto-organizzazione nel quale le persone prendono coscienza di sé. È questo il senso di una parola oggi piuttosto abusata e assai controversa: la sussidiarietà. Essa significa che per ogni funzione occorre trovare il livello e gli strumenti più efficaci e più rispondenti al bisogno che si intende affrontare. Occorre quindi, sull’asse verticale delle istituzioni, avvicinarsi il più possibile alla concretezza delle domande sociali e decentrare tutto ciò che è ragionevolmente possibile decentrare. E occorre, sull’asse orizzontale che regola il rapporto tra pubblico e privato, affidare le diverse funzioni al soggetto pubblico o a quello privato in base ad una valutazione di maggiore o di minore efficacia dell’intervento rispetto alla domanda. La sussidiarietà è una scala, verticale e orizzontale, e lungo questa scala si tratta di scegliere di volta in volta la posizione più efficace. In via teorica, il principio è sufficientemente chiaro, anche se in via pratica non è sempre agevole individuare la soluzione ottimale.

Il problema, che di volta in volta va affrontato, è un problema di ordine esclusivamente pratico. Se invece si sovrappongono schemi ideologici astratti, allora la sussidiarietà viene piegata ad altre considerazioni e perde il suo valore, la sua efficacia come criterio-guida nella soluzione di problemi pratici concreti. C’è l’ideologia formigoniana che traduce la sussidiarietà in una linea di privatizzazione, ovunque e comunque, e in una enfatizzazione della famiglia come cellula primaria della società, scaricando infine su di essa tutto l’onere delle scelte e delle responsabilità. E c’è, sull’altro versante, il riflesso ideologico proprio di un vecchio statalismo, che vede ogni volta minacciati i sacri principi universali e vede ovunque lo spettro del privato, inteso solo come speculazione e affarismo. In entrambi i casi, la scala della sussidiarietà non viene utilizzata, perché è ideologicamente inibito percorrerle in una direzione o nell’altra. Il privato che annulla il pubblico, o viceversa il pubblico che annulla il privato, sono due pessime soluzioni, perché è sempre indispensabile che questi due aspetti si sappiano integrare.

D’altra parte, ciò che genericamente chiamiamo “privato” è fatto di tante cose diverse: volontariato, cooperative, associazionismo, imprese, fondazioni. Stanno tutte nel contenitore del “Terzo Settore”, ma ciascuna ha un suo spazio e un suo ruolo specifico, e anche qui c’è una scala di possibilità tra cui scegliere, perché il volontariato non può fare ciò che può fare un’impresa, ed è quindi sempre necessario distinguere le diverse funzioni, riconoscendo a ciascuna il suo spazio. La sussidiarietà, insomma, non è una ideologia, ma è solo un criterio empirico, e se viene ideologizzata produce dei mostri. Di questi mostri è abbondantemente popolato il dibattito politico, e il nostro primo compito è quello di operare una generale pulizia mentale, per non restare prigionieri dei nostri feticci e delle nostre astrazioni.

 

Ora, la ricerca di Aaster è una buona guida in questo lavoro di demistificazione, perché ci parla di realtà concrete, di esperienze vissute, e non di astratte costruzioni mentali. E ci fa vedere come tra i due estremi dello Stato e del mercato ci sia un grandissimo spazio per diverse forme di autonoma organizzazione sociale, ci fa vedere cioè come la società può trovare le risorse per organizzarsi su basi nuove, esercitando la sua autonomia, senza dover restare attanagliata nel conflitto Stato-mercato e nei conflitti politico-ideologici che ne discendono.

Un tale approccio, pragmatico e non ideologico, non può che essere congeniale per il sindacato, perché il sindacato è impiantato nella realtà e ha il compito di trovare, nella realtà, le vie più efficaci. Il sindacato ha qui il fondamento della sua autonomia, in quanto rappresenta i processi sociali nella loro concretezza, e per questo tiene sempre una certa distanza rispetto alle logiche politiche che tendono ad irreggimentare la pluralità sociale, a bipolarizzare la società secondo un meccanismo di appartenenza all’uno o all’altro degli schieramenti in campo.

Dal punto di vista sindacale, ragionando sui temi di cui qui abbiamo parlato, la parola-chiave mi pare essere quella della concertazione: con le istituzioni pubbliche e con i diversi soggetti privati, per costruire dei sistemi territoriali integrati. La concertazione è possibile se sappiamo anche noi usare tutte le possibilità della scala della sussidiarietà, se lavoriamo per trovare le soluzioni più efficaci, senza pregiudizi ideologici, in un rapporto aperto con tutti i soggetti, pubblici e privati, che agiscono in una determinata comunità territoriale.

Naturalmente, anche la parola “concertazione” va intesa solo come un indirizzo pratico, come un metodo di lavoro, senza caricarla di eccessivi significati. E tuttavia è il sindacato, io credo, il principale agente della concertazione, il soggetto che più di altri può svolgere la funzione del “mediatore sociale”, spingendo gli altri soggetti ad agire dentro le linee di un progetto sociale condiviso. Il sindacato, quindi, può scommettere sulla sussidiarietà, può scommettere su un nuovo rapporto tra pubblico e privato, e può proporsi di svolgere, in questo rapporto, una funzione essenziale di mediazione. Fare consapevolmente questa scelta può essere un passaggio impegnativo e importante. È un tema da discutere e da approfondire. In ogni caso, c’è un ritardo, nella comprensione dei nuovi processi sociali, e la ricerca di Aaster ci può aiutare per impostare una più aggiornata e adeguata riflessione sulla società attuale, sulle sue dinamiche e sul ruolo che in essa intendono svolgere le organizzazioni sindacali.



Numero progressivo: D35
Busta: 4
Estremi cronologici: [2006?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -