UN PARTITO DI GOVERNO E DI LOTTA PER IL RINNOVAMENTO DELLA SOCIETÀ, PER L’INTESA FRA LE FORZE DEMOCRATICHE

XVI congresso, 18-20 marzo 1977

Relazione di Riccardo Terzi, contenuta nel volume “I congressi dei comunisti milanesi. 1921-1983”.

Questo XVI Congresso della Federazione comunista di Milano assume un rilievo particolare nell’esperienza politica del partito, sia per ragioni di carattere interno, sia per i mutamenti che sono intervenuti nella situazione generale del paese.

In seguito alle decisioni adottate dall’ultimo congresso nazionale del partito, ci avviamo a costituire per la prima volta a livello regionale degli organismi dirigenti che saranno l’espressione diretta del congresso e che acquisteranno pertanto tutte le prerogative di una vera istanza del partito. Questa innovazione statutaria ha un suo preciso valore politico. Con le elezioni regionali del 1970 si è definito un nuovo ordinamento dello stato, e le regioni sono venute assumendo un peso sempre maggiore nella vita politica del paese. Era quindi necessario adeguare l’organizzazione del partito a questa nuova realtà istituzionale, creare le condizioni per un lavoro più organico, per una elaborazione più approfondita, per una iniziativa politica del partito che aderisse pienamente alla dimensione regionale.

Per realizzare questi obiettivi, occorre porre in termini nuovi il rapporto tra le federazioni e il Comitato regionale. Non si tratta certo di modificare radicalmente l’attuale impianto organizzativo del partito, di cui le federazioni sono un cardine essenziale: il problema è piuttosto quello di conferire agli organismi regionali l’autorità politica necessaria per assolvere a funzioni dirigenti e gli strumenti indispensabili per assicurare una elaborazione adeguata, che possa sorreggere ed orientare in modo preciso tutto il lavoro del partito. Dovremo dare tutto il nostro contributo all’attuazione di questa linea, nella convinzione che i problemi di Milano, per il rilievo che oggettivamente essi hanno, possono essere correttamente inquadrati e risolti solo nell’ambito di una impostazione regionale e nazionale.

Con la convocazione del congresso regionale del partito, si compie il primo passo necessario, si inizia dunque una esperienza nuova, un processo di adeguamento politico e organizzativo. Da qui deriva la caratteristica originale del dibattito congressuale che si è finora svolto nelle sezioni e che ci vede tuttora impegnati: si tratta infatti di un confronto politico e di una ricerca che hanno al centro i dati specifici della realtà milanese e lombarda, che vogliono cioè chiarire in quali modi concreti, con quali specificità e con quali adattamenti può essere realizzata nella nostra situazione la linea politica generale del partito. Questo passaggio dall’astratto al concreto è un movimento che necessariamente deve essere compiuto per dar corpo e sostanza all’azione politica del partito, che tanto più potrà essere efficace quanto più sarà sostenuta da un’analisi differenziata. C’è però una ragione più sostanziale da cui deriva l’importanza e la novità di questo congresso.

Dal 1975 ad oggi, in questi due anni di intensa vita politica, caratterizzati da due prove elettorali particolarmente significative, è mutata profondamente la collocazione del partito. Per quanto riguarda la realtà milanese, si è operata una svolta politica di portata eccezionale, da cui discende un quadro del tutto nuovo. Siamo ora forza di governo nel comune e nella provincia di Milano, nella grande maggioranza delle amministrazioni comunali, nei più importanti enti pubblici, ed anche alla regione si è determinata una situazione nuova, nella quale il partito, pur non partecipando direttamente alle responsabilità di governo, può influire in misura considerevole sugli indirizzi politici e programmatici ed è divenuto un interlocutore indispensabile per le forze della maggioranza. Nel corso di due anni, quindi, si è realizzato un tale rovesciamento della situazione politica, da comportare un complesso di problemi nuovi, di interrogativi, di questioni aperte, che appunto dovranno essere discussi e valutati con grande impegno dal nostro congresso.

Avvertiamo tutti l’esigenza di un elevamento delle capacità del partito, di un salto di qualità, a cui siamo chiamati con urgenza dalle nuove responsabilità di governo, e dalle stesse aspettative che legittimamente ci vengono rivolte da un elettorato multiforme e complesso che si è indirizzato con fiducia verso di noi. Per questa ragione il nostro dibattito congressuale deve affrontare il tema del carattere di governo del partito in modo ben più concreto e impegnativo di quanto non avvenisse nel passato. Il problema è tutt’altro che semplice, e non possiamo pensare di risolverlo soltanto con delle enunciazioni di principio. E soprattutto occorre evitare che nel partito si diffonda uno stato d’animo di superficiale ottimismo, basato sull’idea che comunque le difficoltà saranno superate e che le disposizioni conquistate fanno parte di un processo irreversibile.

Dobbiamo invece avere coscienza che la definitiva acquisizione delle posizioni da noi conquistate nell’elettorato e nelle istituzioni non è garantita per se stessa, ma dipende dal lavoro che svolgeremo e dalle risposte che sapremo dare ai problemi aperti. Non è quindi superfluo mettere l’accento sul fatto che dobbiamo essere forza di governo, che questo è un problema ancora da risolvere e da approfondire, che da questa esigenza politica generale discendono una serie di implicazioni pratiche, di questioni concrete, che debbono essere messe in luce ed esplicitamente affrontate. Sollecitiamo dunque una ricerca critica, invitiamo i compagni e le organizzazioni a giudicare il lavoro del partito senza faciloneria, ad individuare con prontezza gli errori e i ritardi perché possano essere corretti. In un momento come questo gravissimi sono i danni che possono derivare dal trionfalismo, da un vacuo orgoglio di partito, dall’assenza di spirito critico. In questo esame dello stato del partito, alla luce delle nuove responsabilità di governo, in primo piano si debbono porre i problemi dell’orientamento politico. La prima necessaria condizione, infatti, è che si affermi nei quadri dirigenti, nei militanti, in tutto il corpo del partito, un indirizzo politico e un metodo di analisi e di valutazione, per cui si sappiano cogliere le esigenze complessive della società, si sappiano inquadrare in una visione organica, unitaria, gli interessi e le aspirazioni delle diverse classi, e i concreti rapporti di forza che regolano il loro movimento reciproco.

Il concetto di egemonia – intorno al quale si discute spesso a sproposito – indica appunto questa capacità di una determinata classe di coordinare gli interessi di altri gruppi sociali, e di divenire così “classe dirigente”, grazie alla capacità di operare non sul terreno corporativo, ma su quello politico, di proporre cioè un’idea complessiva dello sviluppo sociale e dell’ordinamento dello stato. Si pone dunque come compito permanente quello di superare concezioni settoriali, corporative, operaistiche, che si riproducono spontaneamente all’interno della classe operaia, e di condurre una lotta politica conseguente perché i lavoratori divengano pienamente consapevoli della loro funzione dirigente nazionale. I termini concreti di questa questione appaiono con chiarezza nella situazione attuale: di fronte all’aggravarsi della crisi e ai compiti difficili e impegnativi di una ricostruzione su nuove basi, di un rinnovamento profondo di tutta la società, l’azione deviante dei corporativismi si manifesta in tutta la sua pericolosità, determinando contraddizioni e sbandamenti all’interno del movimento.

Nella discussione intorno al problema dell’austerità vediamo riflettersi in modo significativo le diverse posizioni, le diverse risposte che possono essere date dalla classe operaia alla crisi del paese. Da un lato vi è l’atteggiamento di chi, proponendosi solo di difendere le posizioni acquisite e di sostenere tutte le varie spinte rivendicative, rinuncia in partenza a ogni idea complessiva di ricostruzione e quindi assegna alla classe operaia una funzione subordinata. È chiaro che, in questa prospettiva, non ha alcun senso il tema dell’austerità: esso appare anzi come una concessione, come un cedimento. Per questa via, in realtà, non si va oltre una difesa miope degli interessi immediati, una difesa che necessariamente sarà sempre più precaria, e si lascia che la responsabilità della prospettiva, della costruzione del nuovo assetto sociale che potrà scaturire dal superamento della crisi, sia ancora una volta affidata alle vecchie classi dominanti. Dietro l’apparenza di una posizione rigorosamente classista sta in realtà l’abdicazione della classe operaia come nuova classe dirigente, il ripiegamento entro i limiti di un sindacalismo ristretto e corporativo.

A questa concezione noi opponiamo l’esigenza di un’azione politica consapevole che sappia trarre, dai dati concreti della crisi, e quindi anche dalla necessità oggettiva di una fase di austerità, le linee di uno sviluppo di tipo nuovo, alla cui definizione e realizzazione la classe operaia dia il contributo determinante, proponendosi come nuova forza dirigente, come classe egemone, capace di commisurare i propri interessi particolari ad un disegno organico di sviluppo della società. Spetta al nostro partito, anzitutto, condurre avanti con decisione e fermezza questa impostazione politica. Grandi passi in avanti abbiamo compiuto nell’orientamento dei nostri quadri, e il dibattito congressuale ha segnato una nuova tappa importante nella maturazione del partito. Questo impegno deve proseguire con grande ampiezza, per far sì che si realizzi pienamente un’unità politica, consapevole e sicura, che ci consenta di affrontare con chiarezza di prospettive, senza incertezza, i problemi nuovi che ora dobbiamo affrontare come forza di governo.

Per essere all’altezza della nuova situazione occorre realizzare anche altre condizioni, occorre cioè portare ad un livello più alto la nostra capacità di elaborazione e di iniziativa. Il partito si deve attrezzare in modo nuovo per poter intervenire, con proprie posizioni chiaramente definite, in tutti i campi. Vi è oggi la necessità di prendere posizione su un arco estremamente vasto di problemi, di passare dalle enunciazioni generali alle scelte specifiche, alle decisioni operative, all’azione di governo. Ciò comporta un diverso modo di operare di tutti i nostri organismi, ai quali si richiede di assumere una nuova capacità decisionale ed operativa. Se non avviene questo, se nella discussione interna del partito ci si limita alla definizione delle scelte generali, delle grandi questioni strategiche, allora avviene inevitabilmente che le scelte concrete di governo vengono lasciate all’intuizione di singoli compagni, senza una verifica collettiva, e si presenta il rischio di una nostra azione contraddittoria, incerta, non sorretta da decisioni politiche chiare e vincolanti per tutti. Non si tratta soltanto di uno stile di lavoro, di un nuovo abito di concretezza che tutti ci dobbiamo assumere, di un metodo di discussione essenziale e non inutilmente verboso: si tratta anche di acquistare le necessarie conoscenze specifiche, di avviare un numero sempre più grande di quadri e di una formazione specializzata, ad un lavoro di approfondimento in settori determinati. Il partito può disporre del contributo prezioso di specialisti, di tecnici, di studiosi. L’utilizzazione di queste energie e capacità deve avvenire su scala più estesa, considerando anche l’apporto che può venire dai non iscritti, da centri di ricerca, dall’ insieme delle forze intellettuali milanesi.

Ma ciò non può essere sufficiente: la specializzazione, la capacità di assumere consapevolmente delle posizioni nei diversi campi, non può dipendere solo dal contributo di chi professionalmente lavora in questa direzione, ma deve risultare dal lavoro complessivo del partito, da un’opera sistematica di formazione di quadri, dall’ affermazione di un militante di tipo nuovo, che sappia unire alla passione politica e alla dedizione disinteressata al partito lo sforzo di conoscenza, di ricerca, di studio. Nel contempo, occorre esaminare attraverso quali canali e strumenti organizzativi il partito riesce a costruire un collegamento vasto con l’insieme della società civile. L’estensione della nostra forza elettorale e l’esigenza di nuovi rapporti costruttivi con diversi strati sociali ripropongono ad un livello più alto la necessità di imprimere a tutto il nostro lavoro un carattere di massa. Occorre avere ben chiaro questo rapporto che unisce il carattere di governo ed il carattere di massa del partito: solo sulla base di questo rapporto possiamo riuscire a qualificare la nostra azione nel senso del rinnovamento, e solo per questa via inoltre possono essere effettivamente consolidate le nostre basi sociali e può essere confermata, in tutta la sua portata ed ampiezza, la svolta politica avvenuta a partire dal 15 giugno. Se sono state possibili le grandi affermazioni di questi ultimi due anni, ciò è appunto il risultato di un’azione politica in cui abbiamo saputo unire organicamente la capacità di proposizione positiva alla mobilitazione di massa. Questo nesso deve diventare oggi ancora più stretto, in quanto il problema del momento è quello di costruire un’azione di governo che sia continuamente alimentata dal consenso e dalla partecipazione democratica, e di sviluppare nel modo più ampio possibile un’azione di massa che sia finalizzata ad obiettivi concreti e positivi, che sia quindi funzionale ad una nuova visione di governo, ad un disegno complessivo di rinnovamento della società e dello stato.

In questo intreccio sta la questione di fondo che il partito deve affrontare e risolvere. Certamente vi sono ancora difetti nel nostro lavoro: una difficoltà a collegare l’azione di governo all’azione di massa, in taluni casi anche una certa contrapposizione tra questi due aspetti, il permanere di atteggiamenti di integralismo che limitano la nostra capacità di espansione e di iniziativa unitaria, un ritardo di elaborazione da cui derivano difetti di genericità e di improvvisazione. Credo che sia necessario indicare al partito l’esigenza di operare una svolta nei metodi di lavoro, di aprire su questi temi un dibattito approfondito, vincendo pigrizie burocratiche e conformismi là dove esistono, e facendo esprimere tutto il grande patrimonio di energie e di intelligenza che nel partito si raccoglie, e che si è in questi anni arricchito di nuovi preziosi contributi e di nuove esperienze.

La fase che dobbiamo aprire non è certo una fase di ripiegamento. Dobbiamo anzi guardarci dal pericolo che i nuovi compiti di governo del partito vengano intesi secondo uno spirito amministrativo e burocratico, come una somma di problemi settoriali, mettendo in ombra le ragioni profonde e ideali della nostra lotta. Il partito può certamente ricavare dal suo seno, dal suo dibattito interno, quella spinta di rinnovamento e quello slancio che sono necessari per avanzare ulteriormente nella nuova fase politica. Non abbiamo certo bisogno di rivolgimenti traumatici o di trasformazioni sostanziali del nostro modo di essere. Al contrario, dobbiamo salvaguardare e valorizzare appieno le nostre qualità peculiari, e confermare il valore insopprimibile del nostro regime interno, che ci ha consentito in ogni momento di superare le difficoltà e di affrontare le svolte anche brusche della storia salvaguardando l’unità del partito e mantenendo intatta la nostra forza e la nostra coesione.

Non è in discussione la natura del partito, non siamo alla ricerca di nuovi modelli, perché riteniamo di avere realizzato, in una misura sconosciuta a tutte le altre forze politiche, le condizioni per un’ampia e reale democrazia interna, e soprattutto di avere dato alla vita del partito e alla formazione dei suoi quadri e militanti un sostegno di ordine morale, da cui derivano quelle doti di disinteresse, di dedizione, di rigore, che ci vengono riconosciute e sono una delle ragioni fondamentali del nostro prestigio. Perché mai dovremmo cambiare?

Da varie parti ci viene avanzata la richiesta di una “revisione”, e ciò avviene oggi in modo insistente. È evidente il carattere strumentale e pretestuoso di queste richieste: di fronte ad un partito che legittimamente rivendica, in ragione della sua forza, della sua crescente rappresentanza popolare, il diritto di prendere parte alla direzione della cosa pubblica, si cercano ancora, affannosamente, pregiudiziali di ordine ideologico, si chiedono chiarimenti, si avanzano dubbi sulla nostra coerenza democratica, si pretendono revisioni. Ciò avviene oggi con minore grossolanità rispetto al passato, ma ugualmente inaccettabile resta la sostanza di queste posizioni, proprio in quanto si cerca di legittimare una preclusione di principio che non ha nessun fondamento nella realtà e nella storia del nostro paese. L’unica discriminante che in modo legittimo può e deve essere posta è quella dell’adesione ai principi fondamentali della Costituzione e dell’impegno ad operare nel quadro della legalità democratica. La nostra posizione su questo punto è chiarissima e non consente equivoci o distorsioni.

Abbiamo da tempo affermato che l’avanzata verso il socialismo deve avvenire in Italia nel quadro della democrazia rappresentativa, di un regime politico di tipo pluralistico. Nella dichiarazione programmatica approvata dall’VIII Congresso del partito si afferma: “Il regime parlamentare, il rispetto del principio della maggioranza liberamente espressa, il metodo definito dalla Costituzione per assicurare che le maggioranze si formino in modo libero” e “democratico sono non soltanto compatibili con l’attuazione di profonde riforme sociali e con la costituzione di una società socialista, ma agevolano e assicurano, nelle condizioni di oggi, la conquista della maggioranza da parte dei partiti della classe operaia, il contatto e la collaborazione con altre forze sociali e politiche, l’avvento di una nuova classe dirigente, in seno alla quale la classe operaia sia la forza determinante”. A distanza di vent’anni c’è ancora chi finge di non avere capito e risolleva la questione della nostra coerenza democratica.

Si cerca ora di porre in opposizione il concetto di pluralismo e quello di egemonia, i quali si riferiscono evidentemente a due piani concettuali differenti. L’egemonia è la capacità di una classe o di un blocco di forze sociali di assumere nella società una posizione di guida e di direzione.

Il fallimento delle vecchie classi dirigenti pone la necessità che nuove forze prendano in mano la direzione del paese, pone quindi la questione dell’egemonia di un nuovo blocco sociale, che abbia nella classe operaia la sua forza fondamentale. Sorge allora il sospetto che chi solleva tanto scalpore sull’ inconciliabilità di pluralismo ed egemonia sia preoccupato di salvaguardare non già il regime democratico quanto piuttosto la posizione dirigente delle classi capitalistiche ed il vecchio sistema di potere. Naturalmente esistono questioni teoriche da approfondire e da discutere, e noi abbiamo avviato nel partito una ricerca che dovrà svilupparsi, in un confronto aperto con altre forze e con altri indirizzi di pensiero, lungo la via di un’interpretazione non dogmatica del marxismo. È con questo spirito che ci accingiamo a celebrare il quarantesimo anniversario della morte di Gramsci, a cui il partito si deve preparare con serietà, con un’opera di ricerca e di studio.

Cercare di sviluppare le nostre posizioni, politiche e teoriche, di ricavare dall’esperienza, dalle modificazioni della realtà, dai nuovi contributi della ricerca scientifica e filosofica, nuove acquisizioni, nuovi sviluppi della nostra elaborazione, tutto ciò costituisce un’esigenza che sentiamo profondamente. Ma, allora, si discuta seriamente nel merito delle questioni, facendo i conti in modo approfondito con il nostro patrimonio di pensiero, con i suoi sviluppi, e abbandonando una buona volta la saccenteria di chi si vuole arrogare il diritto di assegnare attestati di buona condotta democratica ed ha la curiosa ed assurda pretesa di discutere con i comunisti alla condizione che essi abbandonino le loro posizioni. Davvero, è un bell’esempio di pluralismo!

Nella nostra concezione, il rapporto tra democrazia e socialismo è una questione centrale, un nodo che si ripropone continuamente nelle diverse situazioni storiche e che richiede ogni volta soluzioni storicamente determinate. Non si tratta di fissare un modello astratto di organizzazione politica, un’idea di “democrazia pura”, e di farne un metro di valutazione universalmente valido, ma piuttosto di cogliere nel suo divenire e nel suo movimento storico il processo contrastato di emancipazione della società, e di non smarrire in nessun momento la finalità della lotta, gli obiettivi di libertà e di democrazia che sono parte integrante della prospettiva socialista. «Il limite dell’emancipazione politica – scriveva Marx – si rivela immediatamente nel fatto che lo stato si può liberare da un vincolo senza che l’uomo ne sia realmente libero, che lo stato può essere uno stato libero, senza che l’uomo sia un uomo libero». Le forme della democrazia politica, quindi, sono strumenti e conquiste importanti, che hanno però valore solo in quanto attraverso di esse può avanzare un’organizzazione della società in cui i valori dell’uomo possano esprimersi in tutta la loro pienezza.

Di ciò noi abbiamo un’esperienza concreta, in quanto avvertiamo assai nitidamente sia il valore delle conquiste democratiche, sia anche nello stesso tempo il limite di una concezione solo formale della democrazia, i fenomeni profondi di alienazione e di disgregazione che caratterizzano la moderna società borghese, la necessità quindi di guardare più avanti, di concepire la vita democratica come un processo di lotta, di conquista, di avanzamento reale verso una condizione di libertà e di dignità umana per le grandi masse lavoratrici. Sotto questo profilo, è certamente necessario sottoporre ad esame critico anche le esperienze compiute nelle società socialiste, cogliere i limiti, le resistenze, gli errori, che fanno ancora ostacolo allo sviluppo della libertà socialista. Riteniamo che nuovi decisivi passi in avanti debbano essere compiuti, che si debba riprendere con coraggio la via che era stata indicata dal XX Congresso, che si debbano creare le condizioni di una piena libertà di ricerca, di informazione, di dibattito, che da tutto questo possa derivare un nuovo impulso per lo sviluppo del socialismo e per la lotta internazionale della classe operaia e dei popoli oppressi. Abbiamo ribadito in più occasioni questa nostra posizione, e anche recentemente, di fronte alle manifestazioni di dissenso in Unione Sovietica e all’acutizzarsi di una situazione di tensione in Cecoslovacchia, abbiamo visto in tutti questi fatti una conferma del nostro giudizio, il segno di una certa stagnazione, di un’eccessiva lentezza nell’opera di rinnovamento dei metodi di governo, di una permanenza di strutture autoritarie non più giustificabili.

Ma le nostre critiche – ciò deve risultare assolutamente chiaro – non hanno nulla in comune con la campagna di denigrazione sistematica che viene condotta dai nemici del socialismo. Assistiamo in questi giorni ad una pressione propagandistica massiccia, con la quale si cerca di determinare una situazione nostra di isolamento e di difficoltà.

Non è certo con questi metodi che potranno essere indeboliti i nostri legami con la classe lavoratrice, che ha imparato a giudicare con giusta diffidenza chi valuta la realtà dei paesi socialisti secondo gli schemi usuali della propaganda borghese. Noi vogliamo discutere ed esprimere del tutto liberamente le nostre valutazioni anche critiche sui paesi socialisti, considerando che ciò sia utile per il movimento operaio internazionale, e continuando quindi ad operare sulla base dell’internazionalismo proletario. Abbiamo scelto un nostro modo originale di operare all’interno del movimento comunista, con nostre posizioni autonome, senza conformismi, con il senso vivo della specificità della nostra esperienza, e insieme con la convinzione più ferma che sarebbe un errore irreparabile la scelta della rottura e dell’isolamento, che anzi un impegno sempre maggiore deve essere dedicato alla costruzione di una salda unità internazionalista del movimento operaio.

Il campo socialista ha conquistato una posizione di grande forza e prestigio sulla scena politica mondiale, sia per i progressi ottenuti nel campo scientifico, economico e sociale, sia per il contributo determinante che esso ha dato alle lotte di liberazione nazionale e ai movimenti progressisti di tutto il mondo. Sono mutati sensibilmente i rapporti di forza, e si sono aperte le condizioni per un nuovo sistema di relazioni internazionali, basato sulla distensione, sulla progressiva riduzione degli armamenti, sullo sviluppo multilaterale dei rapporti di collaborazione fra gli stati, nella prospettiva del superamento definitivo della logica dei blocchi. È questo un terreno di iniziativa politica e di lotta che ha un’importanza primaria per il movimento operaio e per tutte le forze anti-imperialistiche: di qui viene anche l’ esigenza di un’ azione internazionalista più vasta, di una iniziativa nostra verso i movimenti progressisti che agiscono nell’area del terzo mondo, verso tutte le forze di orientamento socialista, anche al fine di superare la frattura e la contrapposizione che nel passato si è determinata e verso tutte le forze di orientamento democratico. L’azione per la distensione non può essere affidata soltanto alla diplomazia degli stati, ma deve poggiare su un movimento, su un’iniziativa unitaria di forze politiche e sociali, e nel quadro di questo processo di grande ampiezza e di grande prospettiva si rafforza la causa della democrazia, si possono definitivamente liquidare le conseguenze tragiche del fascismo e dell’oppressione imperialistica, si favorisce anche lo sviluppo di una vita democratica più ampia nei paesi socialisti.

Sollecitiamo le forze politiche milanesi ad un impegno comune più intenso, ad un lavoro non episodico, ma continuativo ed organizzato. Agiscono a Milano numerose organizzazioni che si occupano dei problemi di politica internazionale, ma è mancato finora uno sforzo più organico e un intervento più diretto delle forze politiche. Il prossimo appuntamento delle elezioni per il parlamento europeo, previste per il 1978, può costituire l’occasione preziosa per un confronto delle rispettive posizioni e per un impegno unitario volto ad informare la pubblica opinione, a creare fin d’ora una nuova sensibilità ed attenzione per i problemi dell’Europa, per evitare che alle elezioni si giunga in una situazione di impreparazione o di indifferenza. Si tratta anche per il nostro partito di un’esperienza di tipo nuovo a cui ci dobbiamo preparare con un lavoro accurato, con una campagna di ampio respiro per l’orientamento dei nostri quadri e per mettere in evidenza il significato della nostra partecipazione al processo di costruzione della comunità europea. L’obiettivo che noi ci proponiamo è di superare la fase nella quale la politica comunitaria si svolgeva nell’ambito ristretto delle sfere governative e dei gruppi economici più forti, di costruire una presenza politica del movimento operaio capace di imprimere un nuovo carattere democratico a tutta l’attività degli organismi comunitari, e di far avanzare inoltre un processo di collaborazione tra le forze democratiche europee, di autonomia dall’ingerenza americana, di partecipazione attiva alla politica di distensione e di cooperazione internazionale.

Il nostro dibattito congressuale si svolge in un momento di crisi profonda di tutta la società italiana. Già nel precedente congresso avevamo condotto un’analisi volta a mettere in evidenza le ragioni strutturali della crisi e avevamo ricavato da questa analisi l’esigenza di un eccezionale sforzo di mobilitazione di tutte le energie del paese per impedire il tracollo della nostra economia e del nostro sistema democratico. Nessuno è in grado di smentire la validità di questi nostri giudizi, ed è ormai unanimemente riconosciuto che la società italiana si trova a un delicatissimo punto di svolta, che non esistono più le condizioni su cui si è retto nel passato il nostro sviluppo economico, e che si tratta di configurare per il futuro una nuova strategia, un nuovo modello di sviluppo. Anche da parte governativa sono stati ormai abbandonati i tentativi di interpretare la crisi di questi anni come un’ordinaria difficoltà congiunturale.

Ciò che è essenziale aver chiaro è che la crisi attuale è cresciuta ed è esplosa come conseguenza inevitabile di un sistema di potere, di un metodo di governo, che essa dunque mette in causa non solo gli indirizzi di politica economica, ma gli orientamenti di fondo della classe dirigente, il suo modo di essere, gli equilibri politici e di classe su cui ha basato il proprio potere. Un’analisi che si limitasse all’ambito strettamente economico non ci potrebbe dare una coscienza adeguata della situazione. Nessuna misura economica può infatti essere per se stessa efficace se non si inserisce in un programma di risanamento politico. La prima necessaria condizione è che si ristabilisca un rapporto di fiducia tra la società e le sue espressioni politiche, tra i cittadini e lo stato. In assenza di questa, non si esce dalla precarietà, dall’incertezza, dall’instabilità permanente di tutte le soluzioni di governo, e quindi non si determinano quelle condizioni politiche che sono indispensabili per affrontare con autorevolezza e con decisione la crisi della società italiana. È appunto attorno a questo nodo che si svolge oggi la lotta politica, è qui che incontriamo la resistenza tenace della Democrazia Cristiana, che vuole mantenere intatto il proprio sistema di potere e che tenta rischiosamente di superare la crisi del paese senza mutamenti del quadro politico, esponendo così tutta la società italiana ai pericoli di una manovra politica arrischiata e quasi certamente illusoria. Con ciò si vogliono ignorare le indicazioni inequivoche che sono venute dal responso elettorale del ‘75 e del ‘76. È infatti evidente che il massiccio spostamento verso sinistra e l’affermazione straordinaria conseguita dal nostro partito stanno ad indicare quanto sia diffusa la convinzione che il futuro sviluppo dell’Italia può essere costruito solo con un rinnovamento della classe dirigente, con il contributo indispensabile di nuove forze che siano l’espressione delle classi lavoratrici.

Da queste elezioni è uscito un quadro politico del tutto nuovo, e sarebbe miopia irresponsabile qualsiasi tentativo di non prenderne coscienza, di non trarne le dovute conseguenze, di rimanere ancorati a vecchie formule ormai improponibili. Emerge dunque con grande forza ed urgenza, sia dalla crisi economica profonda sia dai mutamenti che sono intervenuti nel quadro politico, la necessità di aprire una fase nuova, di avviare un’opera di ricostruzione con nuovi metodi, con nuovi schieramenti politici. La contraddizione e la difficoltà maggiore della situazione italiana sta nel fatto che il partito di maggioranza relativa, il partito che in questi trent’anni si è del tutto identificato con il potere pubblico, dando luogo ad un vero e proprio “regime”, si trova completamente impreparato ad affrontare questo discorso. La DC attraversa una crisi storica nella sua evoluzione, e ciò rischia di avere conseguenze incalcolabili sullo sviluppo del nostro paese. Se infatti la Democrazia Cristiana non riesce a trovare al proprio interno la capacità di rinnovarsi e di corrispondere alle nuove necessità del paese, allora si profila come inevitabile una crisi politica acutissima, una lacerazione, una prova di forza estremamente pericolosa. Noi non riteniamo che sia questa la strada obbligata, crediamo anzi che si debba lavorare per scongiurarla. La Democrazia Cristiana, infatti, non può essere semplicemente interpretata come l’espressione politica delle classi capitalistiche, ma è il punto di mediazione politico-ideologica di una realtà sociale assai più vasta, di strati intermedi e di ceti popolari. A chi può giovare una situazione che trascini tutte queste forze in un blocco conservatore e reazionario, che spezzi in modo irreparabile tutti i processi che in questi anni si sono costruiti, che consenta ai gruppi reazionari di volgere a loro vantaggio e di strumentalizzare le tradizioni cattoliche e la coscienza religiosa diffusa nel paese?

La linea del “compromesso storico” è appunto la presa di coscienza di questa questione. Non è l’indicazione di una formula di governo, non è tanto meno la proposta di un equivoco accordo di potere con la DC, è piuttosto la messa in chiaro di una grande questione strategica, nella convinzione, storicamente provata, che non può esservi una linea d’azione efficace verso il mondo cattolico che passi tutta all’esterno della DC, che non si misuri con questa realtà politica specifica, in cui si è venuto organizzando il movimento cattolico italiano. Nessuna linea politica può eludere questo problema, che è centrale nella realtà italiana. Le critiche che sono state rivolte alla politica del “compromesso storico” hanno un semplice difetto: quello di non offrire altra risposta ed altre soluzioni. D’altra parte, dobbiamo avere piena coscienza dell’estrema complessità e difficoltà con cui si presenta in Italia la questione cattolica e democristiana. Il compromesso storico non è una formula magica che scongiura queste difficoltà, è l’indicazione di un problema, di un nodo politico reale, su cui non è possibile sorvolare.

Quando da parte socialista si ripete, con una certa pedanteria, che nella sinistra si confrontano due diverse strategie, il compromesso storico e l’alternativa, ci pare che il dibattito politico sia a tal punto semplificato e costretto entro schemi da non consentire nessun chiarimento effettivo. In realtà, i compagni socialisti sanno bene che la questione democristiana non è un piccolo dettaglio trascurabile, e nella loro pratica politica effettiva dimostrano, al di là delle dichiarazioni ufficiali sull’alternativa, di tenerne conto con realismo e di conoscere l’arte del compromesso. Allora, che giovamento può venire da questa contrapposizione astratta di formule?

Il problema che ha davanti a sé la sinistra è quello di operare una svolta profonda nella vita politica del paese, e di evitare nel contempo che ciò comporti una messa in crisi di tutto il rapporto con le forze cattoliche, di impedire che si creino pertanto le condizioni per una controffensiva di destra che possa avere nella DC il suo centro organizzatore. La situazione attuale nella Democrazia Cristiana si presenta assai confusa, e complessivamente arretrata rispetto agli elementi di novità che si sono affermati nella realtà politica del paese. Le elezioni del 20 giugno, che hanno segnato una svolta di valore storico, hanno anche consentito alla DC di riaffermare la propria forza. Ma il fatto decisivo è che il tradizionale sistema di alleanze della DC si è completamente sfaldato, che pertanto tutta la teoria della centralità democristiana non può più costituire l’asse di una proposta politica concreta.

In questo senso appunto è legittimo parlare di una crisi della DC non già perché questo partito abbia cessato di rappresentare un aspetto essenziale della realtà italiana, ma perché esso si trova costretto a scelte di tipo nuovo, a una ridefinizione radicale del proprio ruolo, e non può più proseguire sulla via del passato, non può più contare su un sistema naturale di alleanze, e si trova ormai di fronte al problema politico dei rapporti col Partito comunista, sia nel parlamento nazionale, sia a tutti i livelli dell’ordinamento democratico dello Stato. La Democrazia Cristiana non è stata finora in grado di scegliere e di indicare una prospettiva. Ci sono le reazioni rabbiose di chi vuole preparare rivincite e vuole riaffermare in modo tracotante il ruolo egemone della Dc; ci sono i tentativi più o meno scoperti di riprendere il cammino interrotto del centro-sinistra, senza rendersi conto che non è il tempo della resurrezione dei morti e che la chiave risolutiva dei nuovi problemi non può certamente essere trovata nella riesumazione di vecchie formule; c’è infine chi, più attento e consapevole, avverte la necessità di scelte innovative, di una nuova elaborazione strategica, ma per l’immediato non sa dare indicazioni concrete e chiede una pausa di riflessione, una tregua, senza forse avvertire l’ironia che assume questa richiesta in un momento come quello attuale, di crisi precipitosa, che non pare consigliare attendismi e rinvii.

Da questo quadro generale emerge una sorta di impotenza, in cui si combinano incertezze, travagli reali e propositi consapevoli di conservazione, prudenza tattica e arroganza del potere. L’iniziativa unitaria della sinistra deve partire da questi dati, da questa crisi della Democrazia Cristiana, a cui ci dobbiamo rapportare non come spettatori rassegnati, ma come un interlocutore reale capace di indicare una prospettiva di tipo nuovo. Sarebbe del tutto errato attendere fatalisticamente il crollo della DC, non solo perché attese di questo genere possono ricevere dal corso reale delle cose delle crudeli smentite, ma perché, soprattutto, la fine della DC come partito politico capace di una mediazione tra interessi differenti avrebbe l’effetto di sprigionare pericolose tendenze reazionarie. Noi abbiamo potuto verificare a Milano i sintomi preoccupanti di un tale processo: dalla crisi di identità della DC hanno tratto alimento le posizioni oltranziste, rappresentate da De Carolis, che puntano ad un rivolgimento della natura della DC nel senso di un partito di opinione dichiaratamente conservatore ed anticomunista, e ha preso sviluppo inoltre un fenomeno di neo-integralismo, dotato di una visione ideologica, tradizionalista e populista, che si è affermato come forza di pressione sulla DC, disponendo di propri autonomi strumenti organizzativi. La pericolosità di questa miscela di reazionarismo e di clericalismo non può sfuggire a nessuno, e proprio per questo noi abbiamo valutato con attenzione l’esito del dibattito congressuale della DC, considerando anzitutto come positivo il fatto che queste tendenze non siano prevalse, che sia stata confermata, pur con ambiguità e con un certo irrigidimento, la linea del “confronto” con le altre forze politiche, che insomma la DC abbia deciso di muoversi sul terreno del realismo politico, senza crociate ideologiche e respingendo l’idea di uno scontro frontale.

Il problema centrale che la DC deve risolvere è quello dei rapporti con il Partito comunista. Fino a quando, infatti, non si ha il coraggio di affrontare in termini nuovi una tale questione e si continuano a far valere pregiudiziali ideologiche, è allora inevitabile che la DC si qualifichi sempre più esplicitamente come il luogo di incontro di tutte le forze conservatrici, che dunque la sua stessa tradizione di partito popolare e interclassista venga profondamente snaturata e distorta. Dobbiamo tener conto, ovviamente, della necessaria complessità e gradualità dei processi politici, purché questo non sia l’alibi per l’immobilismo e per la stagnazione. L’esperienza compiuta in questi mesi con il governo monocolore di Andreotti mette in evidenza le contraddizioni e le incertezze della DC. Con la formula politica che ha consentito la formazione del governo Andreotti, era stato compiuto un primo passo sulla via di un rapporto di tipo nuovo con il Partito comunista. Per la prima volta, dal momento della rottura dei governi di unità antifascista, il contributo dei comunisti è essenziale per la formazione del governo, e viene superata la teoria della “delimitazione della maggioranza”, dell’“area democratica”, secondo cui le scelte e le posizioni del PCI non dovevano in nessun modo influire sull’azione politica autonomamente decisa dalle forze di governo. Si tratta di una soluzione ancora interlocutoria, parziale, non basata su un accordo programmatico definito in partenza, ma piuttosto su un nuovo metodo nei rapporti tra governo e parlamento, in quanto il governo, che non dispone di una maggioranza definita, deve di volta in volta verificare nel libero confronto parlamentare le posizioni di tutti i partiti democratici e quindi la possibilità di disporre, sulle singole misure, di una maggioranza di consensi.

Il nostro partito ha compiuto consapevolmente la scelta dell’astensione, considerando in tutto il suo valore il fatto che si realizzava un mutamento di rilievo nei rapporti politici, e nello stesso tempo abbiamo chiarito fin dall’inizio, che il partito manteneva la sua piena autonomia di giudizio e di scelta politica, non essendo vincolato da nessun accordo programmatico generale, e che considerava inoltre inadeguata e provvisoria questa situazione. In una parola, l’esperimento del governo delle astensioni può avere un valore positivo se esso viene inteso come la fase di passaggio che consente la maturazione di uno sbocco politico più avanzato, di un’intesa più organica e impegnativa tra le forze democratiche, nell’abbandono definitivo di ogni discriminazione di principio verso il Partito Comunista.

Ma nella Democrazia Cristiana nessun passo concreto è stato compiuto per preparare un tale sviluppo positivo nei rapporti politici, anzi da varie parti si è manifestato un atteggiamento di diffidenza e di disimpegno rispetto al governo, si è teorizzato sull’invalicabilità della “linea del Piave”, si è esercitata una pressione per caratterizzare l’azione del governo in senso conservatore nel tentativo di provocare una nuova crisi o di esercitare un ricatto provocatorio verso la sinistra e verso le organizzazioni sindacali. Le oscillazioni della politica governativa, l’alternarsi contraddittorio di linee e comportamenti diversi, tutto ciò ha creato una situazione confusa, da cui hanno preso consistenza anche le ipotesi di una crisi di governo a breve scadenza, e la causa fondamentale di tale stato di cose è l’atteggiamento politico della DC, l’insieme composito e torbido di resistenze e di manovre con cui si cerca di mantenere il quadro politico entro i binari tradizionali del “regime” democristiano.

È certamente significativa la scelta compiuta dalla DC sullo scandalo Lockheed, il rifiuto tenace di ogni misura volta ad accertare severamente le responsabilità, la difesa pregiudiziale dei suoi rappresentanti coinvolti in questa vicenda. Non si è esitato ad esporre il paese al rischio di una crisi politica acuta pur di difendere ad ogni costo gli interessi di partito. Non possiamo nascondere, a proposito di questa complessa vicenda politica, la nostra critica a quei partiti che non hanno voluto condurre fino in fondo, con fermezza, la battaglia per l’accertamento completò della verità, consentendo che l’ex presidente del Consiglio Rumor potesse sottrarsi al giudizio del dibattito parlamentare. La pretesa arrogante della DC di affermare un proprio “primato” indiscutibile è stata comunque battuta dal voto del parlamento. È stato respinto il ricatto politico, è stato compiuto un primo passo importante sulla via della moralizzazione della vita pubblica, della denuncia dei guasti profondi che hanno inquinato il costume politico e i metodi di governo.

Va tuttavia segnalato come un dato grave, preoccupante, l’atteggiamento che la Democrazia Cristiana ha messo in evidenza e che si è espresso autorevolmente nell’intervento dell’On. Moro: preoccupa l’ostinazione con cui la DC cerca di tenere in vita un sistema di predominio assoluto, di monopolio del potere, e l’incapacità di avvertire i mutamenti politici e, quindi, di concepire in modo più aperto il rapporto con gli altri partiti. Un’altra prova del modo irresponsabile con cui la Democrazia Cristiana conduce rapporti con le altre forze politiche è nella posizione di intransigenza e di chiusura assunta sulla questione dell’aborto. Alla ricerca di un’intesa, per una definizione equilibrata e responsabile di un problema così complesso, si è preferita la via di una contrapposizione di principio, di carattere ideologico, ripetendo così ancora una volta l’errore che già fu commesso in occasione della discussione sulla legge del divorzio. Si espone così nuovamente il paese al pericolo di una profonda lacerazione, di una guerra di religione che può avere gravi conseguenze. Il banco di prova decisivo su cui si dovrà misurare nell’immediato futuro la volontà della Democrazia Cristiana e da cui dipenderanno le posizioni politiche, nostre e degli altri partiti, verso il governo, è dato dalla politica economica, dalle questioni di fondo che la crisi solleva. I nodi ormai stanno venendo al pettine. Dopo le prime misure che il governo ha adottato, e di fronte alle quali il movimento operaio ha assunto una posizione di grande responsabilità, riconoscendo la necessità di una politica severa di austerità e riconoscendo anche l’esigenza di interventi volti a ridurre il costo del lavoro, non hanno ancora trovato una risposta adeguata a problemi di fondo : il, programma di riconversione industriale, l’occupazione, le scelte per l’agricoltura e per il mezzogiorno, la spesa pubblica, la politica fiscale. Il governo, anzi, ha tentato una pericolosa prova di forza con il movimento sindacale, presentando i noti decreti con decisione unilaterale, dopo che un accordo positivo era stato raggiunto tra sindacati e Confindustria.

Chi pensa di poter affrontare la crisi economica del paese solo imponendo sacrifici ai lavoratori, e lasciando inalterati gli squilibri sociali, gli sprechi e i parassitismi, lasciando cioè che la vita economica del paese sia regolata dall’anarchia capitalistica, rinunciando ad esercitare una direzione nell’interesse generale della società, non tiene conto della forza e della maturità del movimento operaio. La lotta per un nuovo sviluppo economico diviene in questo momento il problema centrale. Tutta la questione della prospettiva politica deve essere pertanto giudicata in relazione a questo obiettivo fondamentale: solo così la discussione diviene concreta, legata alla situazione reale del paese, e si evita di cadere nel bizantinismo delle formule. Deve risultare molto chiaro che la nostra ricerca di un punto d’incontro con la Democrazia Cristiana non avviene nell’astrazione della “politica pura”, ma avviene nel vivo della crisi sociale ed economica dell’Italia, e che il metro di giudizio è quindi dato dai problemi della società italiana, dalle risposte che a questi problemi si intendono dare. È con questo spirito di concretezza che dobbiamo partecipare al dibattito, che già si è aperto, sugli sbocchi politici da costruire dopo la fase interlocutoria del monocolore. Non consideriamo che l’aspetto essenziale sia quello della formula di governo. Certo, l’attuale equilibrio governativo si presenta precario, inadeguato, innanzitutto per l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani della DC, che costituisce un ostacolo oggettivo all’attuazione di una linea di rinnovamento.

L’unica soluzione che corrisponde davvero al carattere di emergenza della situazione, e che nello stesso tempo riflette in modo fedele gli orientamenti dell’elettorato, è quella di una vasta coalizione democratica, che comprenda anche il nostro partito in un rapporto di leale collaborazione con le altre forze politiche. Solo in questo modo si può formare un governo che abbia nel paese una solida base di consenso, e che pertanto abbia l’autorità ed il prestigio necessari per affrontare la difficile situazione del momento : questa soluzione, inoltre, tiene conto del particolare equilibrio politico che nel paese si è determinato, del fatto che nessun partito e nessun blocco di partiti può ritenere di avere in sé la rappresentanza di tutte le componenti fondamentali della società e può sentirsi naturalmente investito delle responsabilità di governo. Sarebbe certo errato considerare questa soluzione come l’unica valida in linea di principio, e che tutto il sistema democratico, ai vari livelli, si debba uniformare sulla base di un’intesa generalizzata fra tutte le forze democratiche. In questo caso, davvero, sostanziali obiezioni di principio dovrebbero essere sollevate, perché ne verrebbe come conseguenza l’instaurazione di un regime uniforme, privo di dinamica interna. Questa non può essere la nostra impostazione. La proposta politica che noi abbiamo avanzato, e che riteniamo di dover confermare, non è l’indicazione di un modello di democrazia, ma è la risposta al problema politico concreto che si pone oggi in Italia, alla necessità di assicurare, in questo momento, una guida politica autorevole e di porre fine a uno stato permanente di instabilità che ha già gravemente compromesso, in tutti questi anni, le prospettive del paese. Se non si parte da questo dato, tutta la discussione finisce per essere accademica e fuorviante. Alla medesima conclusione sono giunti, per vie diverse, i compagni socialisti, e anche negli altri partiti laici si fa strada la convinzione che il rapporto con il Partito comunista si rende necessario e che la situazione richiede scelte politiche di emergenza.

Noi valuteremo, pertanto, tutte le proposte, tutti gli svolgimenti della situazione in riferimento a questo obiettivo politico, non escludendo che possano essere ricercati e concordati degli sviluppi parziali, alla condizione che essi si indirizzino nel senso dell’intesa democratica e dell’impegno comune intorno ad un programma di rinnovamento. Le scelte compiute dal Partito socialista, a partire dall’ultimo congresso nazionale, hanno consentito un progressivo avvicinamento di posizioni tra due partiti della sinistra, almeno per quanto riguarda le indicazioni politiche per il tempo breve. La fase del centro-sinistra viene considerata conclusa e non più proponibile. In sede di analisi storica può essere certamente interessante sviluppare nella sinistra una discussione approfondita su tutto quel periodo, sugli effetti che la politica del centrosinistra ha avuto sulla società italiana, sulle ragioni che hanno impedito l’attuazione degli ambiziosi disegni riformatori che erano stati all’inizio annunciati e progettati.

Da questa discussione potrebbero uscire meglio chiari i punti di convergenza e di dissenso tra comunisti e socialisti, non in modo astratto e ideologizzato, ma in rapporto ai nodi strategici della trasformazione socialista in Italia. Dobbiamo operare perché si realizzi nell’ ambito della sinistra questo confronto più approfondito, partendo dall’esame della realtà, dei rapporti di classe, dell’organizzazione del potere, in modo che il rapporto unitario non sia esposto alle vicende mutevoli della lotta politica, che possono anche comportare momenti inevitabili di differenziazioni e di polemica, ma tragga alimento da una più sostanziale e consapevole concordanza circa gli obiettivi generali ed i caratteri fondamentali della lotta del movimento operaio. Dopo la difficile fase del centro-sinistra, segnata da divisioni che hanno operato in profondità, il problema dei rapporti tra socialisti e comunisti si pone ora in termini nuovi e va compiuto uno sforzo reciproco perché si compia un passo in avanti nell’elaborazione di una linea comune, al di là dei momenti tattici e senza lasciarsi guidare dalla sola considerazione degli interessi di partito e dalla loro concorrenzialità.

Nel momento politico attuale, la posizione del PSI gioca un ruolo fondamentale : il rifiuto del centro sinistra, la proposta del governo di emergenza, la ricerca di una linea che possa accomunare tutte le forze di sinistra, l’azione che viene esercitata per ristabilire rapporti di collaborazione col partito socialdemocratico, tutto questo chiude la strada ai tentativi democristiani di ritorno al passato, e costringe la DC a prendere atto di una situazione nuova e ad assumersi quindi con chiarezza le proprie responsabilità. Senza forzature, e senza precipitazioni, noi dobbiamo condurre con fermezza la battaglia per un mutamento del quadro politico e per l’affermazione di chiari indirizzi di governo che avviino l’uscita dalla crisi.

La politica del partito, che raccoglie nel paese un largo consenso, deve farsi stringente e puntuale. Essa può avanzare e ottenere successi se è sorretta da una vasta iniziativa di massa, se non si confonde la virtù della prudenza con l’inerzia dell’attendismo. Il pericolo che si presenta nel momento attuale è soprattutto quello della stagnazione, del permanere di una situazione confusa, in cui si accentua l’incertezza e in cui le forze politiche si logorano in manovre tattiche inconcludenti. Ciò può avvantaggiare solo quelle forze conservatrici che puntano al deterioramento di tutta la vita democratica, attendendosi da esso un moto di sfiducia e un ripiegamento di segno moderato. La nostra iniziativa deve sventare questi pericoli, deve suscitare iniziative, lotte unitarie, partecipazione attiva alla vita democratica, deve sviluppare un confronto serrato con le forze politiche, e un’elaborazione concreta di obiettivi da conquistare nei vari campi dell’azione sociale e politica. Anche per la situazione che esiste nella regione lombarda, appare opportuno questo richiamo all’ iniziativa del partito, alla necessità di conseguire degli effettivi risultati. La nostra non può essere una posizione d’attesa, e nessuno può illudersi di ottenere dal nostro partito una benevolenza a buon mercato, una copertura di comodo che consenta di governare secondo la vecchia logica.

Abbiamo compiuto nel consiglio regionale una scelta politica coraggiosa e responsabile. È bene ricordare che potevano esserci altre scelte, altri comportamenti. Infatti, i rapporti di forza esistenti nella regione non escludono la possibilità di una maggioranza diversa da quella attuale, e non sono comunque tali da consentire alla Democrazia Cristiana di considerarsi inamovibile e insostituibile nelle sue funzioni di forza di governo. La formazione di una “giunta aperta”, e l’accordo programmatico che è stato sottoscritto d’intesa con il nostro partito, indicano la via della costruzione di rapporti politici di tipo nuovo, e ciò costituisce indubbiamente un fatto di grande rilievo, il cui significato va oltre i confini della nostra regione. Non a caso l’offensiva della destra democristiana ha avuto di mira soprattutto la giunta aperta regionale, considerando che la disponibilità ad un accordo programmatico con il Partito comunista faccia venire meno quella netta linea di demarcazione a sinistra che tradizionalmente la DC ha costruito e difeso. Si è creata quindi una situazione positiva, che pone fine all’isolamento del nostro partito e stimola un più ravvicinato confronto tra le forze politiche. Perché queste potenzialità positive si possano pienamente sviluppare, è necessario che l’azione del partito si dispieghi con grande ampiezza e continuità. Occorre infatti verificare puntualmente l’attuazione del programma concordato e realizzare in linea di fatto una partecipazione attiva del partito a tutta l’azione di governo della regione. È evidente che alcune forze tendono a minimizzare la portata dell’accordo politico-programmatico e a far sì che il ruolo del nostro partito sia sostanzialmente un ruolo marginale, senza un’influenza effettiva sulle decisioni e sui metodi di gestione. Vi è dunque la possibilità di esiti diversi, e vi è una battaglia politica da condurre. Il partito non ha ancora compiutamente avvertito tutta l’importanza di questa battaglia, e lo stesso dibattito congressuale ha registrato un ritardo, una tendenza a risolvere la questione con una delega di fiducia al nostro gruppo consiliare.

Vi è dunque un limite da correggere, e il congresso regionale potrà essere l’occasione per attuare un’inversione di tendenza, per rendere pienamente consapevole il partito della posta in gioco e per dare avvio ad un lavoro organico di elaborazione, di confronto politico e di iniziativa di massa. Oggi per le regioni si apre un periodo di aspro confronto con il governo attorno alla applicazione della legge n. 382 che riguarda il completamento dei trasferimenti di poteri dallo stato alle regioni.

Il decreto del governo che determina le competenze delle regioni è grave: viene completamente stravolta la legge n. 382, addirittura una serie di competenze già assegnate alle regioni dai decreti delegati del 1972 vengono riprese dai ministeri. Il significato della condotta del governo va colto in tutta la sua essenzialità: la strada di una profonda riorganizzazione dello stato viene di fatto abbandonata, e si tende a snaturare il ruolo delle regioni nell’ordinamento costituzionale. La partita che si apre con il governo non registra uno schieramento compatto delle regioni, degli enti locali e dei sindacati. In ciò ha contato anche una condotta separata delle diverse battaglie in difesa delle autonomie, in ciò ha contato una condotta della regione Lombardia che non è stata in grado di realizzare una unità di fondo con i comuni e con le province, che ha creato negli enti locali una estrema delusione circa i rapporti con l’ente regione.

Attuazione corretta della 382, ruolo delle regioni in materia di riconversione industriale e di avviamento al lavoro, correggendo le proposte di legge presentate al parlamento, sono il terreno su cui la regione, le forze politiche e sociali, gli enti locali debbono impegnarsi nelle prossime settimane costruendo una salda unità attorno alle questioni dello sviluppo economico. Si tratta da un lato di recuperare risorse e poteri nei confronti dello stato, dall’altro lato di utilizzare le risorse già acquisite, la legislazione e l’amministrazione regionale. In concreto, il confronto tra le forze politiche e con le forze sociali dovrà svilupparsi intorno agli obiettivi della riconversione industriale, della localizzazione delle industrie sul territorio della regione, della qualificazione della produzione agricola alimentare. In particolare, occorre assicurare un intervento che possa consentire alla piccola e media industria e all’artigianato, che costituiscono grande parte del tessuto produttivo milanese e lombardo, una maggiore presenza sul mercato interno ed internazionale: con la creazione del centro tecnologico, con una assistenza per la commercializzazione dei prodotti, con centri di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati, con un impegno per il credito industriale.

Inoltre, partendo da una verifica critica delle scelte in materia urbanistica e territoriale fin qui fatte, occorre nei prossimi mesi definire una proposta di piano territoriale della Lombardia che costituisca lo strumento di attuazione di una politica economica regionale e che dia coerenza e organicità alla spesa regionale e degli enti locali. La programmazione dell’uso delle risorse pubbliche e del territorio non può essere definita con decisioni di vertice ma attraverso un ampio processo politico che coinvolga da un lato le forze sociali e dall’altro i comprensori, il cui avvio è un punto di grande impegno per il nostro partito. Questi obiettivi richiedono una più elevata produttività dell’amministrazione regionale, una trasparenza delle decisioni, e soprattutto uno sviluppo positivo dei rapporti politici, una ripresa maggiore e convinta da parte di tutti della linea che è stata scelta e che ancora deve dispiegarsi più ampiamente. In generale, è necessario che tutta l’organizzazione del partito sappia intervenire con maggiore puntualità ed efficacia su tutte le questioni del governo locale, che hanno assunto, dopo le elezioni del 15 giugno, un nuovo rilievo politico, e che pertanto non possono essere affidate solo alla competenza degli specialisti e degli amministratori.

La svolta è stata profonda, ha interessato nel suo complesso il sistema degli enti locali, ha completamente rivoluzionato i rapporti politici. Basti ricordare che il numero dei comuni amministrati con la partecipazione del nostro partito è passato da 49 a 124, con una popolazione di 3.200.000 abitanti, che corrisponde all’80% della popolazione complessiva della nostra provincia. La Democrazia Cristiana non ha saputo prendere atto della nuova situazione e, rimanendo chiusa nel rifiuto pregiudiziale ad ogni forma di intesa con il nostro partito, si è trovata isolata, incapace di una proposta politica. È avvenuto così che anche in alcuni centri di tradizionale egemonia democristiana si sono venute organizzando delle nuove maggioranze, comprendenti il nostro partito, il PSI e i partiti laici.

In questo generale rivolgimento vi sono state certamente anche delle forzature e degli errori, che nulla tolgono però al grande valore positivo che ha avuto la spinta al rinnovamento che così ampiamente si è realizzata nel sistema degli enti locali. Il dato politico più significativo è costituito dall’ampia convergenza che si è stabilita tra comunisti e socialisti: si tratta di una tendenza generale, profondamente radicata, che ha messo fine a residue situazioni di divisione.

Non vogliamo certamente nascondere i problemi che permangono, le difficoltà di quella linea unitaria, che possono essere ricondotte essenzialmente a due ordini di questioni. Ci sembra anzitutto che all’interno del Partito socialista sia ancora presente un oscillazione di linea, per cui la strategia dell’alternativa viene diversamente motivata e interpretata. È chiaro che ciò si riflette sull’azione pratica, dando luogo in qualche caso a forzature massimalistiche che possono essere pericolose. Ci auguriamo che l’imminente congresso provinciale del partito costituisca un momento di chiarezza e di unità, che da questo confronto interno esca rafforzato il ruolo dei socialisti nella vita politica milanese. In secondo luogo, vi è talora nell’azione del PSI un’accentuazione eccessiva degli interessi di partito, da cui deriva uno spirito di concorrenzialità non sempre motivato, che non consente di valutare le singole questioni politiche ed i problemi dell’organizzazione della vita pubblica con l’oggettività che sarebbe necessaria.

Noi ci proponiamo dunque un ulteriore miglioramento dei rapporti, valutando le difficoltà che si presentano nell’attuale collaborazione anche da un punto di vista autocritico, consapevoli del fatto che nell’ambito del nostro partito non sono ancora del tutto superate le conseguenze delle polemiche passate, e permangono quindi atteggiamenti non giusti di chiusura e di settarismo. Non c’è però dubbio che il dato oggi essenziale è rappresentato da un impegno unitario sempre più consapevole, che questa tendenza all’unità si è affermata ed estesa, determinando risultati politici importanti.

L’unità dei partiti della sinistra non ha lasciato margini di manovra alle forze moderate, anzi sulla base di questa salda unità si sono avviati nuovi rapporti con le forze intermedie, ed in particolare col Partito socialdemocratico. L’accordo recentemente concluso al comune di Milano e alla provincia, in base al quale i rappresentanti del partito socialdemocratico entrano a far parte a tutti gli effetti della maggioranza, è il punto d’arrivo di un processo non facile. La socialdemocrazia milanese già da tempo si era fatta promotrice di una iniziativa politica volta a correggere radicalmente l’immagine che il partito aveva assunto a livello nazionale, e la lotta interna era stata talmente aspra da spingere la segreteria nazionale, allora diretta da Tanassi, a sciogliere gli organismi della Federazione milanese e ad affidarne la direzione ad un commissario.

L’esito delle elezioni aveva determinato nel partito molta incertezza e spinte contraddittorie. La formazione del Muis (Movimento unitario di iniziativa socialista) apriva una crisi interna e provocava inoltre una fase di tensione con il PSI. Il partito socialdemocratico tende ora a ristabilire una convergenza con il PSI a partecipare con le proprie autonome posizioni ad una ricerca comune nell’ambito dell’“area socialista”. Tutto ciò avviene ora in un clima politico ben diverso da quello che aveva caratterizzato l’unificazione socialdemocratica: allora infatti si tendeva ad operare per un isolamento del nostro partito e per una rottura dei rapporti unitari, mentre ora, all’opposto, vi è la convinzione comune che l’apporto del Partito comunista sia indispensabile per poter costruire una prospettiva politica nuova.

Le scelte compiute dal Partito socialdemocratico hanno un grande valore politico soprattutto nella situazione del comune di Milano. La Democrazia Cristiana, dal momento della formazione della nuova giunta, aveva scelto la via della opposizione frontale e aveva cercato di assumere il ruolo di forza-guida di una specie di “cartello delle opposizioni”, con l’obiettivo di logorare la maggioranza e di mantenere nella città una situazione precaria, instabile, così da rendere possibile un ribaltamento dei rapporti politici. Questa linea non ha avuto successo, e il gruppo democristiano si è trovato isolato, ed anche diviso al proprio interno. Con il rinnovo della giunta e con l’accordo raggiunto con il Psdi, la maggioranza può disporre di una maggiore disponibilità e di una base di consenso più vasta. La DC ha reagito con stizza, lanciando all’indirizzo dei socialdemocratici violente o grossolane accuse di trasformismo, e con ciò ha dimostrato ancora una volta quale conto faccia dell’autonomia delle forze politiche, che dovrebbero essere solo dei satelliti del sistema solare democristiano. Anche il Partito repubblicano ha preso le distanze dalla linea della DC, scegliendo di confrontarsi in modo aperto, senza pregiudiziali, con le proposte della maggioranza, e contribuendo così in modo costruttivo al dibattito in consiglio comunale. Il Partito repubblicano e il Partito socialdemocratico partecipano, d’altra parte, in numerosi comuni della provincia a giunte unitarie, sulla base di precise intese programmatiche.

Possiamo quindi affermare che l’obiettivo, da noi indicato, della costruzione di larghe intese democratiche, è stato parzialmente raggiunto, che il nostro sforzo tenace in direzione dell’unità ha determinato un nuovo clima politico, nel quale sempre meno valgono le logiche degli schieramenti precostituiti e si afferma invece l’esigenza di un confronto effettivo sui contenuti che debbono qualificare l’azione politica. Anche nei confronti della Democrazia Cristiana noi insistiamo perché si affermi questo metodo, perché al confronto risultino in tutta chiarezza le divergenze nell’analisi e nei programmi, e siano individuati i possibili punti di incontro. Non abbiamo mai avuto la pretesa di far scomparire le diversità tra le forze politiche e di appiattire la vita democratica nella ricerca forzata dell’unità. Pensiamo invece che nell’esercizio della democrazia, ai vari livelli, debbano effettivamente valere i principi dell’autonomia, che cioè debbano avere piena legittimità esperienze diverse, senza nessuna pretesa di ricondurre tutta la ricchezza della vita democratica entro i limiti angusti di formule rigide e precostituite. Quando i governi di centro-sinistra tentarono di attuare una tale omogeneizzazione, si scontrarono con una resistenza diffusa e fallirono completamente in questo loro disegno.

Consideriamo quindi la varietà delle soluzioni politiche e la libera competizione democratica come una di vitalità, che in nessun modo deve essere compressa. Ma la Democrazia Cristiana tende tuttora ad introdurre nella vita democratica un principio che provoca delle distorsioni profonde. Quando infatti si vuol fare valere nei confronti del nostro partito una preclusione di principio, di carattere ideologico, è evidente che il libero confronto democratico subisce una limitazione fondamentale, e che da tale posizione discende un principio di lacerazione profonda, che è un motivo permanente di turbamento e di instabilità del quadro democratico. Il recente congresso della DC milanese ha ribadito la linea del “confronto”, ma non ha ancora a sufficienza chiarito i connotati di questa linea politica, e non si è liberato dal peso di posizioni integralistiche che di fatto riducono la tesi del confronto ad una frase vuota, senza nessuna efficacia.

La proposta che noi rivolgiamo alla Democrazia Cristiana è di procedere effettivamente ad un confronto politico sistematico, senza pregiudiziali, volto a chiarire i problemi di fondo che stanno di fronte alla società milanese. Un tale metodo può consentire, pur nelle divergenze che esistono, di garantire un equilibrio democratico, di impedire lacerazioni profonde, di ricercare su alcune questioni fondamentali un accordo delle forze politiche. Il rapporto dialettico tra maggioranza e opposizione può essere proficuo se avviene in questo quadro, se non si tratta di una lotta senza principi, se al di là dei ruoli diversi agisce una solidarietà democratica basata sulla comune difesa del fondamento della nostra Costituzione e degli istituti rappresentativi che hanno il compito di realizzarli. Attendiamo dalla Democrazia Cristiana un chiarimento della propria linea politica. Finora abbiamo assistito ad una polemica confusa e strumentale. Che senso ha, infatti, dopo aver rifiutato ogni proposta di intesa, dopo aver ribadito la netta contrapposizione ideale e politica con il Partito comunista, polemizzare con noi perché vi sarebbe una volontà di egemonia esclusiva e di emarginazione delle forze cattoliche?

La proposta di intesa viene rifiutata e denunciata come una manovra subdola, come un tentativo di annullare nell’unanimismo le differenti espressioni politiche, e d’altra parte la presa d’atto delle scelte che la DC ha compiuto escludendo ogni possibilità di collaborazione nel governo della cosa pubblica diviene, nella polemica fantasiosa di alcuni dirigenti democristiani, la prova della nostra intolleranza e faziosità. Con questi metodi disinvolti, la discussione non può approdare a nessun risultato positivo. Ci sembra invece che sia interesse comune regolare i rapporti politici secondo chiarezza, ed attuare una linea di confronto che riconduca il dibattito ai suoi termini oggettivi. Non crediamo che l’alternativa obbligata sia tra l’intesa di governo generalizzata e lo scontro frontale. Crediamo invece che nelle varie realtà, quali che siano le soluzioni politiche adottate, possa e debba attuarsi un rapporto tra le maggioranze e le opposizioni aperto al confronto costruttivo, rispettoso delle posizioni che ogni forza politica esprime e volto a trovare, quando è possibile, un punto di incontro tra le posizioni diverse. Soprattutto quando si tratta di atti amministrativi di grande rilievo, come è nel caso delle scelte di pianificazione, non può valere in modo meccanico la regola della maggioranza, ma è invece di trovare quelle soluzioni che abbiano più consensi. In molti comuni ciò è avvenuto in occasione dell’approvazione dei nuovi piani regolatori, e di altri atti fondamentali. In alcuni casi è stato anche possibile pervenire a intese programmatiche generali, come a Monza, e in altri centri della Brianza.

A maggior ragione questa esigenza si pone quando si tratta di decidere su questioni che non hanno un interesse soltanto locale, ma che riguardano l’intera area milanese, che coinvolgono quindi la responsabilità di enti diversi. Con la costituzione dei comprensori sarà messa alla prova la capacità delle forze politiche di dare un assetto più funzionale ed efficace alla struttura amministrativa, superando sia i difetti della polverizzazione delle decisioni sia quelli dell’accentramento. Per questo è necessario che tra le forze politiche democratiche si realizzi una collaborazione definendo con chiarezza quali funzioni si intendono attribuire a questi nuovi organismi, quale ruolo debbono avere nel sistema complessivo del governo locale. In assenza di questo sforzo unitario, otterremmo non già una struttura più funzionale, ma, al contrario, un ulteriore elemento di complicazione e una confusa sovrapposizione di ruoli.

Le divisioni di carattere politico non devono impedire il funzionamento più efficace possibile di tutti gli istituti democratici, evitando in ogni modo che si determinino situazioni di paralisi. Crediamo quindi che sia indispensabile al più presto convocare un incontro tra tutte le forze politiche per decidere quale tipo di ordinamento democratico intendiamo costituire nell’area milanese e per assumere concordemente degli impegni precisi al fine di eliminare strozzature, impacci burocratici, conflitti di competenza, lungaggini amministrative, che ostacolano gravemente l’esercizio delle funzioni di governo. È nostra convinzione che si debba tendere ad una semplificazione dell’ordinamento attuale, facendo del comprensorio l’unico ente intermedio tra regione e comuni, dotato di competenze e di poteri ben determinati, e attuando sempre più largamente una linea di decentramento reale delle funzioni, dalla regione ai comprensori e ai comuni, dai grandi comuni ai consigli di quartiere.

In molti centri della nostra provincia, e nella stessa città di Milano, si dovranno svolgere entro breve tempo le elezioni dirette dei nuovi organismi decentrati. Si tratta d’una scadenza che ha evidentemente un valore politico e che vedrà impegnati tutti i partiti. Sarebbe del tutto sbagliato pensare di spoliticizzare queste elezioni, di sostituire il ruolo essenziale dei partiti. È però altrettanto importante che nel confronto tra i partiti e nella loro competizione non si smarrisca il valore di crescita democratica che ha lo sviluppo del decentramento e non venga meno un impegno comune a sostegno di questo processo. Anche in questo caso occorre dar vita ad organismi che assolvano a precise funzioni amministrative, che siano lo strumento per una nuova organizzazione democratica del potere pubblico. Tutti i discorsi sulla partecipazione democratica finiscono per essere monchi e generici se non si individuano nuovi strumenti e nuovi ambiti di potere.

La democrazia non è un esercizio vuoto, ma è l’assunzione di responsabilità e la possibilità pratica di esercitarla. Credo che anche noi dobbiamo compiere uno sforzo maggiore per delineare nel concreto i caratteri che deve avere un modo di governare più aderente alla crescita democratica del paese, evitando l’errore di chi pensa di potersi affidare solo ad un moto spontaneo di organizzazione dal basso, ed avendo presenti i rischi di una moltiplicazione di organismi di partecipazione sostanzialmente sprovvisti di potere effettivo o eccessivamente settoriali; perché da ciò deriva non una democrazia più ricca e sostanziale, ma al contrario un pericolo di frantumazione e di parcellizzazione. L’impegno unitario della difesa della vita democratica è stato, in tutti questi anni, un importante momento di convergenza e di solidarietà tra tutte le forze politiche democrati che. Di fronte all’offensiva dei gruppi eversivi e reazionari, che avevano concentrato a Milano la loro attività provocatoria, si è determinato uno schieramento unitario molto ampio, protagonista di grandi mobilitazioni di massa e di un’attività permanente che ha avuto il suo strumento più efficace nel Comitato unitario antifascista. Oggi la situazione è molto diversa, e le forze di destra si trovano in una crisi profonda, che è testimoniata anche dalla recente lacerazione avvenuta nel Movimento sociale.

Divenuto ormai quasi inservibile il partito neofascista, la manovra avviene in altre direzioni: da un lato, cercando di saldare un nuovo blocco d’ordine attorno ai settori più conservatori della Democrazia Cristiana, e dall’altro alimentando nel paese un clima sempre più torbido e confuso, in cui agiscono diverse centrali terroristiche, variamente mascherate, e in cui le stesse organizzazioni della delinquenza comune vengono utilizzate e manovrate secondo disegni politici. Ogni distinzione di colore politico diviene a questo punto superflua: tra le imprese criminali delle Brigate rosse, dei Nap e delle centrali fasciste non c’è una linea di demarcazione sostanziale, si giustifica anzi sempre più l’impressione di sotterranei collegamenti. Ed inoltre, accanto all’azione terroristica di piccoli e selezionati gruppi clandestini, sta venendo alla luce una rete più vasta di organizzazioni squadristiche armate, inquadrate secondo regole militari, che agiscono non solo al di fuori di ogni criterio di legalità, ma che puntano apertamente alla sovversione, all’aggressione contro le forze dell’ordine, al saccheggio, ad uno sconvolgimento profondo e violento di tutta la vita civile. Gli avvenimenti recenti di Bologna e di Roma dimostrano che siamo ormai di fronte ad un piano sistematico. I cosiddetti gruppi di “autonomia operaia” trovano un esplicito sostegno politico nell’organizzazione di Lotta continua e nel suo quotidiano, e agiscono all’interno delle manifestazioni dei vari gruppi estremisti trovando qui un terreno favorevole alle loro imprese.

È evidente il pericolo di quanto sta accadendo, è evidente il tentativo di trascinare gruppi consistenti di giovani sul terreno eversivo, e di creare così un pericolosissimo potenziale che può servire per qualsiasi avventura. In questa situazione, si ripropone in termini nuovi l’esigenza di un’azione unitaria delle forze democratiche e di un collegamento con gli organi dello stato, con le forze di pubblica sicurezza, con la magistratura, che devono essere messi in grado di esercitare fino in fondo la loro funzione di tutela della legalità democratica.

Lo stato democratico deve sapersi difendere e deve colpire con severità i nemici della Repubblica, i professionisti della violenza, i provocatori prezzolati e coloro che li sostengono e finanziano. La nostra solidarietà con questa azione di difesa della legalità democratica deve essere totale e incondizionata e dobbiamo favorire e sviluppare un nuovo rapporto tra le forze politiche e gli organi dello stato, così da creare un nuovo clima di fiducia, di vigilanza collettiva, che contribuisca all’isolamento di tutte le formazioni terroristiche. In materia di ordine pubblico possono rendersi necessarie misure anche severe, provvedimenti di emergenza, purché ciò sia compatibile con la salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini e non divenga, invece, un primo passo sulla strada di un ordinamento di tipo autoritario. Si sono create a Milano nuove condizioni che possono favorire un costruttivo rapporto di collaborazione tra le forze politiche, istituzioni democratiche e apparati dello stato. Nella rigorosa delimitazione dei compiti che a ciascuno competono, è necessario che questi rapporti si facciano più intensi, e che in tutto il corpo dello stato si affermi in modo rigoroso una linea di coerenza democratica, operando la necessaria opera di pulizia e di risanamento là dove ancora esistono forze che si sono compromesse con le trame reazionarie e che possono tuttora essere manovrate per oscuri fini antidemocratici.

Nell’attuale situazione del paese, fino a che perdura la grave crisi politica ed economica, i pericoli di un’eversione di destra non sono certamente scomparsi, e sarebbe di grave danno qualsiasi atteggiamento di sottovalutazione. Ci sembra dunque che su un arco di questioni assai vasto sia necessario consolidare l’unità di tutte le forze popolari e democratiche, che quindi tutti i partiti debbano essere chiamati ad una responsabilità precisa, ridando pieno vigore agli strumenti unitari che esistono ed esaminando la possibilità di nuove forme organizzative. Di fronte ai fenomeni gravissimi di criminalità e di organizzazione sistematica della violenza, da tutti unanimemente denunciati, di fronte ai segni allarmanti di una disgregazione che avviene nel profondo della società e dei suoi valori, quali obiezioni possono esserci alla costruzione di un lavoro comune?

I comitati antifascisti, sorti nei quartieri e nei comuni nel periodo dell’offensiva reazionaria degli anni scorsi, possono oggi rinnovare ed estendere i loro compiti, e divenire dei centri di orientamento e di mobilitazione, per la difesa dell’ordine democratico e dei fondamenti della nostra convivenza civile. Abbiamo già affermato in altre occasioni che consideriamo come una discriminante di fondo l’atteggiamento che le varie forze assumono di fronte al problema della legalità democratica, che pertanto non ci potrà essere da parte nostra che una lotta aperta e incondizionata verso tutte le formazioni, anche sedicenti di sinistra, che scelgono come loro terreno d’azione quello della violenza e della sovversione. Intorno a questo problema non possono essere tollerate posizioni ambigue, perché non siamo più di fronte ad errori giovanili, a manifestazioni ingenue di estremismo, ma ad organizzazioni che in modo sistematico e consapevole vogliono operare contro lo stato democratico. Per questa ragione, per la pericolosità crescente che assumono gruppi specializzati nella provocazione e nella sovversione, è necessario il loro isolamento più completo, e questo dipende in larga misura anche dalla posizione che sapranno prendere quei settori dell’estrema sinistra, che sono in realtà estranei a queste forme torbide di violenza e che vogliono mantenere la loro azione sul terreno politico.

Sulla base di una posizione chiara di impegno democratico e di condanna dello squadrismo, potrà svilupparsi un confronto ed un rapporto costruttivo con il movimento operaio, con le sue organizzazioni. Non abbiamo intenzione di accomunare in un unico giudizio tutto quanto si agita sul fronte dell’estremismo, sappiamo anzi distinguere quelle che sono posizioni politiche che meritano un confronto ed una discussione, e quelle che sono invece manifestazioni di un’irrazionale esplosione di violenza che ha di mira non solo il regime democratico, ma anche le organizzazioni, politiche e sindacali, della classe operaia.

Dobbiamo tutti prendere coscienza del fatto che da varie parti si ha interesse ad intorbidire la situazione, a creare le condizioni di uno stato di ingovernabilità e di disordine, per potere, su questa base, mettere in atto un’offensiva di destra contro le conquiste del movimento operaio e contro il ruolo che esso si è guadagnato nella vita democratica del paese. Dovrebbe risultare chiaro che il lavoro anticomunista di certi gruppi, i metodi odiosi di calunnia e denigrazione che vengono usati, sono un aiuto fornito, coscientemente o no, alle peggiori forze reazionarie, il cui primo obiettivo resta quello di colpire la grande forza organizzata del nostro partito. Dobbiamo mettere in guardia da questi pericoli, e chiamare tutta la classe operaia, e tutte le forze di progresso, ad una vigilanza attiva, ad una linea di fermezza e di combattività, a condurre avanti con grande decisione una politica di avanzata democratica e di unità delle forze popolari.

Abbiamo già messo in evidenza il rapporto che unisce i problemi della crisi economica a quelli della prospettiva politica. Abbiamo sostenuto l’esigenza di una generale opera di ricostruzione che sia guidata da un nuovo blocco di forze sociali. È questo il problema che la classe operaia deve risolvere, e pertanto si pone ancora una volta in primo piano la questione delle alleanze, da cui dipende la possibilità di affermare un nuovo indirizzo politico e di arrestare i processi di disgregazione e di crisi. L’ostacolo maggiore che il movimento operaio incontra in questa sua difficile azione sta nell’esasperazione delle spinte corporative e settoriali, che vengono alimentate coscientemente dalle forze conservatrici, le quali puntano ad un isolamento della classe operaia e ad una messa in crisi della sua capacità di direzione politica. È indicativa, ad esempio, l’impostazione che alcune forze tendono a dare al mezzogiorno e al problema giovanile, prospettando una linea di contrapposizione al movimento operaio organizzato. È questa una manovra insidiosa, a cui si deve rispondere rilanciando con grande forza ideale, e con una coerenza di linea e di comportamento, la battaglia per una trasformazione generale della società, per uno sviluppo di tipo nuovo che risolva i problemi dell’occupazione, del mezzogiorno, dell’agricoltura, secondo una visione unitaria degli interessi nazionali della società italiana.

Nella realtà milanese, il problema delle alleanze si configura anzitutto come problema del rapporto con i ceti medi che operano nei settori produttivi e nelle attività terziarie. È a questa grande massa che si rivolge l’azione della Democrazia Cristiana e dei gruppi moderati in generale, è nell’ambito di queste forze sociali che si è verificato, nelle ultime elezioni politiche, uno spostamento consistente verso il partito democristiano. I nostri collegamenti sono ancora scarsi, frammentari, anche se alcuni miglioramenti vi sono stati. Ancora troppo limitato è l’impegno concreto di attività che viene svolto dal partito: non mancano le dichiarazioni impegnative nei documenti congressuali, ma a ciò non fa seguito un lavoro adeguato.

La nostra linea di azione verso questi ceti non può rivolgersi soltanto ad alcuni settori limitati, ma dobbiamo invece avere una iniziativa che si confronti con l’insieme delle categorie, ed in questo quadro deve anche essere esaminata la possibilità di avviare un processo di aggregazione unitaria, anzitutto nel settore del commercio e in quello dell’artigianato. L’attuale situazione di divisione di queste categorie è un dato che ha la sua ‘origine in una situazione diversa da quella attuale, e che può essere superato. Da un processo di ricomposizione unitaria può uscire valorizzato e potenziato il ruolo di questi ceti, alla condizione che si affermi una linea aperta al confronto con le forze politiche e con le organizzazioni sindacali. Il movimento operaio potrà ottenere dei risultati politici effettivi nell’allargamento delle proprie alleanze, se sarà in grado di prospettare una linea positiva per lo sviluppo dell’economia milanese e per la soluzione dei grandi problemi sociali. È questo il terreno dell’incontro con i ceti medi, con le forze imprenditoriali interessate alla ripresa produttiva, con gli operatori economici che agiscono nei diversi settori.

Milano, che ha avuto una funzione trainante nella vita economica del paese, vede oggi offuscato il proprio ruolo e segnala sintomi preoccupanti di decadimento e di crisi. Ciò ha una sua spiegazione evidente: sono venute meno infatti le condizioni su cui si è basata l’espansione capitalistica degli anni sessanta, che proprio a Milano ha avuto il suo epicentro, e quindi, si manifestano qui, nella realtà milanese, tutti i problemi e tutte le contraddizioni che contraddistinguono questa difficile fase di transizione. È noto a tutti quali gravi conseguenze sociali ha comportato lo sviluppo economico disordinato che si è avuto nel recente passato: l’immigrazione in massa dalle regioni meridionali, la crescita impetuosa e sregolata della città e dell’intera area metropolitana, la rottura che si è determinata nell’organizzazione civile, nell’assetto urbano, negli stessi rapporti umani. Noi esprimiamo questa critica di fondo. Proponiamo in primo luogo l’esigenza di un riequilibrio nello sviluppo economico, e consideriamo prioritario lo sviluppo del mezzogiorno e delle altre zone arretrate, non solo per una ragione di solidarietà, ma perché è questa la condizione di base per correggere le distorsioni profonde che si sono determinate nelle aree di più intensa industrializzazione. Questa impostazione meridionalistica non deve essere in nessun momento smarrita, ma deve guidarci in tutta la nostra azione. Nuovi grandi investimenti devono essere indirizzati verso le regioni meridionali, ed in questo senso vanno predisposti dei programmi precisi da parte dei grandi gruppi industriali e delle partecipazioni statali.

Nel contempo si pone l’esigenza di una riqualificazione dell’apparato produttivo milanese, di un’azione programmata che individui i settori e le scelte produttive fondamentali, che fornisca un quadro di riferimento preciso a tutti gli operatori economici, che affronti i problemi dell’efficienza aziendale, della produttività, dell’elevamento tecnologico.

Nei gruppi dominanti, che nel passato hanno imposto uno sviluppo corrispondente ai loro interessi di classe, manca oggi la capacità e la volontà di affrontare con spirito nuovo i problemi della prospettiva economica. Prevale una visione aziendalistica ristretta, una tendenza ad esaminare i problemi soltanto sotto il profilo dell’efficienza aziendale. Ma ciò è chiaramente insufficiente e inadeguato.

La condizione essenziale perché possano essere affrontati in modo efficace i problemi dello sviluppo economico e perché si definisca una prospettiva valida a cui indirizzare gli sforzi dell’iniziativa privata e di quella pubblica, è che si introducano finalmente dei principi di programmazione e di direzione consapevole in tutta la vita economica. Ciò deve avvenire attraverso la definizione di un quadro generale di riferimento, con l’indicazione di piani settoriali e di priorità economiche da perseguire, che permettano di stimolare e guidare una consistente ripresa degli investimenti produttivi e sociali, sia per dislocazione territoriale che per settore economico. Tale programmazione, democratica nelle procedure di formazione, può e deve avvenire, basandosi sulla domanda sociale delle grandi masse, sul concorso delle forze politiche e sociali, sul ruolo degli imprenditori, sul contributo degli enti locali.

Il riequilibrio della vita economica nazionale, il risanamento e il rinnovamento della società italiana possono avvenire oggi solo attraverso un uso razionale delle risorse esistenti e una mobilitazione di tutte le energie morali e materiali di cui il paese dispone. A ciò mira l’iniziativa del movimento operaio, che rifiuta di esaurire la propria azione nella sola contrattazione aziendale, e tende invece a costruire un confronto serio sulla politica degli investimenti, sulle scelte produttive, sulle implicazioni che ne derivano per l’occupazione, sugli insediamenti produttivi, sui problemi dell’ambiente di lavoro e degli inquinamenti industriali, considerando quindi necessaria una visione d’insieme dei problemi dello sviluppo. In questo quadro, bisogna affrontare seriamente i problemi del mantenimento e dello sviluppo della occupazione, che devono essere ottenuti anche garantendo la efficienza produttiva ed economica delle aziende. Ciò può avvenire attraverso una riconversione dei processi produttivi che punti a più elevati livelli tecnologici e che affronti la questione della mobilità e della riqualificazione della forza lavoro. Questi processi devono essere guidati dalle autorità pubbliche, con il consenso delle forze sociali e in primo luogo dei sindacati, garantendo la continuità dell’impiego dei lavoratori e la loro utilizzazione in quei settori suscettibili di ulteriore sviluppo.

Occorre anche perseguire con sollecitudine una riforma del sistema della istruzione e in particolare di quella professionale, che consenta un effettivo elevamento culturale e che, evitando la dispersione di ingenti risorse umane e materiali, le orienti verso sbocchi professionali utili alla ripresa e allo sviluppo economico e sociale.

Le forze politiche milanesi, se vogliono davvero esercitare una funzione di governo, nel senso più ampio del termine, se intendono cioè guidare ed orientare lo sviluppo della società nei suoi diversi aspetti, devono con grande impegno porsi il problema della programmazione dello sviluppo, economico e sociale, e ricercare quindi una comune strategia, individuare quelle scelte di fondo che possono rappresentare per l’intera comunità milanese un punto di riferimento preciso. Per questo è necessario che gli organi del potere pubblico, a partire dalla regione e dai comprensori, stabiliscano un metodo di confronto permanente con le organizzazioni imprenditoriali, con le confederazioni sindacali, con il movimento cooperativo, con le varie associazioni di categoria, non certo per assumere un ruolo di mediazione, ma per esercitare la necessaria funzione di indirizzo politico, per indicare obiettivi, per adeguare tutta l’attività degli enti pubblici a precise finalità. Il ritardo in questo campo è ancora grande, e da ciò deriva una pericolosa situazione di incertezza e di ristagno delle iniziative. È urgente, ad esempio, decidere come dovrà essere organizzato, secondo un piano, il sistema distributivo nella regione, quali dovranno essere i prossimi insediamenti residenziali, quale risposta dare alle numerose richieste, di enti pubblici e di aziende private, che hanno problemi urgenti di trasferimento e di ampliamento, come affrontare, con tutta l’urgenza necessaria, i gravissimi problemi del risanamento dell’ambiente, a partire anzitutto dalla situazione tuttora drammatica della zona di Seveso.

Non occorre, in questa sede, trattare in modo approfondito le singole questioni; importa, invece, affermare un’esigenza di ordine generale, e chiamare tutte le forze politiche all’appuntamento di un confronto su questi temi. Noi siamo convinti che Milano possa continuare ad assolvere nell’economia nazionale ad un ruolo di primo piano, e che ci siano le condizioni e le energie necessarie per riassumere una funzione propulsiva, in un rapporto aperto con le altre regioni del paese, e potenziando anche i rapporti con il mercato europeo. Deve essere salvaguardata la caratteristica di Milano come grande centro in cui si realizza un equilibrio tra le diverse funzioni economiche, tra i diversi settori produttivi.

Questa impostazione è stata seguita, ad esempio, nella predisposizione del nuovo piano regolatore della città di Milano, che ha teso a conservare le caratteristiche industriali della città, tenendo conto nel contempo delle esigenze che si pongono di espansione e qualificazione delle attività terziarie, di difesa del verde, di miglioramento complessivo dei servizi.

Da tutte queste considerazioni, pur frammentarie, risulta chiaramente che il problema di fondo nella situazione milanese non è solo quello dell’impresa, della sua possibilità di sopravvivenza e di sviluppo, ma è piuttosto quello delle condizioni generali che regolano l’attività economica, della produttività complessiva del sistema, che dunque la via di uscita dalla crisi non può essere cercata nella restaurazione di un regime interno all’azienda che riduca il ruolo della classe operaia e delle sue organizzazioni, ma deve invece essere cercata in una linea politica che esalti il ruolo della programmazione e che associ pienamente alla definizione delle scelte sia gli imprenditori privati sia i rappresentanti dei lavoratori. In questo quadro deve essere valorizzata anche la funzione dei tecnici e dei dirigenti, che possono concorrere all’individuazione delle scelte più opportune, e per i quali si pone la questione di un elevamento delle capacità professionali, di un maggiore riconoscimento sociale e di una maggiore autonomia e responsabilità nell’ambito delle imprese.

Il regime tradizionale che ha fin qui organizzato la vita interna dell’impresa è decisamente superato, e si pone ormai con urgenza il problema della costruzione di un regime di democrazia industriale, che tenga conto della nuova forza acquisita dai lavoratori e dalle loro rappresentanze sindacali. Può essere rischioso, almeno in questa fase, fissare in modo rigido dei modelli, dare un assetto giuridico definito a questo problema. Ma, certamente, occorre creare un nuovo clima, liquidare definitivamente le forme di autoritarismo e di dispotismo padronale, avviare un processo di tipo nuovo che consenta ai lavoratori di partecipare alle scelte, di avere un ruolo attivo, di prendere in mano responsabilmente le questioni dell’azienda, del suo ruolo, della sua produttività, dell’organizzazione del lavoro.

Se ciò non avviene, se ancora si ha la pretesa di regolare i rapporti interni secondo il principio dell’autorità assoluta, allora è inevitabile che venga esasperata la conflittualità interna, che si affermi la tendenza ad un rivendicazionismo accentuato. Senza la partecipazione dei lavoratori, senza il loro consenso, il loro contributo, la crisi è destinata a precipitare. Per questo noi abbiamo avanzato la proposta di una grande campagna per le conferenze di produzione, che sono lo strumento concreto che consente alla classe operaia di affrontare i problemi economici complessivi, di definire obiettivi, di esercitare nei fatti un ruolo di direzione. Alcune esperienze importanti si sono compiute, ma ancora il lavoro in questa direzione non ha assunto l’ampiezza che sarebbe necessaria. Da parte di alcune forze si è manifestata una certa diffidenza, dovuta essenzialmente alla preoccupazione che i comunisti possano divenire i protagonisti e gli organizzatori principali di un tale movimento. Considerazioni ristrette di partito sono del tutto estranee alla nostra impostazione: noi poniamo un problema che riguarda la classe operaia nell’insieme delle sue espressioni, e crediamo che la via più opportuna sia quella di un’iniziativa presa direttamente dai consigli di fabbrica o con il loro accordo, e che coinvolga tutti gli organismi, sindacali e politici, così da rappresentare gli interessi complessivi dei lavoratori.

E, d’altra parte, le forme di iniziativa possono essere varie, molteplici: a livello di fabbrica, di settore o di zona, con un’accentuazione diversa dei temi da discutere, con forme articolate, differenziate di organizzazione.

La cosa essenziale è che il movimento operaio non accetti di rinchiudersi in una logica solo rivendicazionista, che si faccia protagonista di una battaglia generale per affermare le linee di un nuovo sviluppo economico.

Come più volte abbiamo ribadito, la prima essenziale condizione è che venga seriamente contrastato il processo inflazionistico, che ha ormai raggiunto livelli non più sostenibili, e che rischia di provocare non solo degli squilibri insanabili, delle tensioni sociali molto acute, ma anche una situazione più generale di ingovernabilità e di crisi degli istituti democratici. Di fronte a questo fenomeno così acuto, i lavoratori occupati hanno conquistato degli strumenti che consentono loro di difendere il tenore di vita raggiunto, mentre altre categorie, i disoccupati, i pensionati, i giovani senza lavoro, le popolazioni del mezzogiorno, le masse più disagiate, si sono trovate più esposte e indifese davanti a una inflazione così incalzante come quella avvenuta in questi anni. Ciò ha rischiato e rischia tuttora di creare contraddizioni e divisioni fra i diversi settori del popolo italiano e soprattutto di alimentare, in modo drammatico, gli squilibri tra nord e sud. D’altra parte, l’inflazione a livelli così sostenuti rischia di indebolire la nostra presenza internazionale, di emarginarci dagli altri paesi europei, di portare anche a situazioni che limitano la nostra indipendenza e autonomia nazionale.

Per far fronte a questi problemi si rende indispensabile quella politica rigorosa di austerità, di utilizzazione razionale delle risorse, di lotta allo spreco, di introduzione di nuovi modelli di vita, che abbiamo proposto e su cui abbiamo aperto un ampio dibattito nel partito, nel movimento operaio, nelle forze intellettuali. Fino ad oggi l’azione del movimento operaio, l’iniziativa delle forze di sinistra e in particolare del nostro partito, nel parlamento e nel paese, hanno impedito che la crisi precipitasse, che più acuti e drammatici diventassero i pericoli di involuzione nella situazione economica ed hanno imposto la necessità di affrontare i problemi della lotta all’inflazione, della espansione degli investimenti, dell’occupazione giovanile, della riconversione produttiva, del piano agricolo-alimentare, come alcuni dei nodi decisivi per un nuovo indirizzo economico e sociale.

Di fronte alle insufficienze e alla inadeguatezza dell’opera del governo occorre oggi sviluppare, con una azione più ampia ed articolata, più precisa e puntuale sui singoli aspetti, l’iniziativa del movimento operaio, perseguendo un allargamento delle intese e delle alleanze con le altre categorie sociali, al fine di imporre un effettivo, concreto, immediato avvio di interventi economici che incidano sulle cause strutturali della crisi e superino la logica delle misure esclusivamente congiunturali, dell’azione episodica che ha fin qui caratterizzato l’opera del governo. Il terreno di lotta che oggi si impone è più difficile, più impegnativo. C’è il rischio, dunque, che la strategia definita dal movimento sindacale stenti ad affermarsi nella realtà, che si dia luogo ad una comprensione soltanto intellettuale, che non si riesca ad imboccare la strada di un reale movimento di massa.

La giornata di lotta che oggi si è svolta e che ha dato luogo aduna grande manifestazione di massa ha indubbiamente un grande valore: il movimento sindacale riafferma la propria iniziativa, ripropone le questioni di fondo dello sviluppo economico, e chiede al governo che si decida ad assumere impegni concreti e che si cimenti in un confronto serio con le organizzazioni sindacali. Esprimiamo il nostro pieno consenso, il nostro appoggio e la nostra solidarietà ai lavoratori in lotta. La mobilitazione delle masse è, come sempre, decisiva, e noi riteniamo che questa mobilitazione debba essere costruita anche in modo più articolato, su singoli temi, su obiettivi immediati. Un rilievo particolare assume oggi la battaglia per garantire i livelli di occupazione, e soprattutto per indicare nuove prospettive di lavoro alle forze giovanili. Il calo della popolazione attiva si fa sempre più preoccupante, siamo ormai vicini a Milano alla soglia del 35%, e questa diminuzione interessa in particolare l’occupazione operaia e quella giovanile.

Il movimento operaio deve affrontare oggi con un grande impegno il problema delle nuove generazioni, della loro prospettiva, del loro inserimento nell’attività produttiva. A ciò si collega tutta la questione della scuola, del suo ordinamento, degli sbocchi professionali a cui deve essere finalizzata, degli elementi di programmazione che anche in questo campo è necessario introdurre. Devono essere incoraggiate tutte le iniziative che intendono affrontare questi temi non in modo paternalistico, non andando a rimorchio di impostazioni demagogiche, ma facendo i conti seriamente con la realtà.

Un altro tema che è bene sottolineare è quello della lotta per una politica fiscale rigorosa, perché siano colpiti con severità i casi, purtroppo assai numerosi e diffusi, di evasione fiscale, perché si introduca in questo campo un criterio di effettiva equità. È questa una condizione indispensabile perché attorno ad una linea di austerità vi sia il consenso delle grandi masse, perché in modo chiaro si renda visibile il fatto che i sacrifici non vengono chiesti in un’unica direzione, che vi è anzi la volontà politica di limitare i consumi di lusso e gli sperperi che hanno fin qui caratterizzato lo stile di vita di determinate classi. Di fronte alle difficoltà e ai fenomeni di inefficienza, che contraddistinguono l’opera degli uffici statali, riteniamo che sia utile una partecipazione attiva degli enti locali, con propri strumenti di accertamento e di indagine. Deve essere seriamente esaminata la possibilità di costruire degli uffici tributari decentrati, i quali potrebbero quanto meno creare un clima di maggiore vigilanza e scoraggiare, quindi, i più clamorosi episodi di evasione.

Altri temi fondamentali sono quelli della politica della casa, dell’equo canone, dell’organizzazione dei servizi, dei trasporti, del sistema sanitario. Su ciascuno di questi problemi esiste già un insieme di proposte, di posizioni, ed esiste un movimento che può essere rafforzato e che può conseguire dei risultati concreti.

Il movimento sindacale ha conquistato nel paese una grande forza, un grande prestigio; con esso bisogna fare i conti, bisogna misurarsi in modo serio e responsabile. Il rapporto tra le forze politiche e le organizzazioni sindacali diviene sempre più un aspetto essenziale della situazione italiana. C’è evidentemente una diversità di ruoli, e quindi un’autonomia reciproca che è essenziale difendere, ma nel contempo è anche evidente il fatto che partiti e sindacati si trovano ad affrontare dei problemi comuni, che non può esserci una distinzione di sfere di influenza, di una linea comune. L’obiettivo deve essere perseguito con sempre maggiore convinzione. Sarebbe del tutto illusorio concepire la vita del sindacato come un fatto del tutto separato dalle vicende politiche: ciò è in contrasto con la tradizione del movimento operaio italiano, con il fatto, storicamente definito e che ha un suo valore positivo, che l’organizzazione sindacale non ha avuto in Italia un carattere fondamentale dell’esperienza politica dei lavoratori, del loro impegno verso l’unità della classe, della loro lotta per obiettivi generali di trasformazione dell’assetto sociale. Riaffiorano oggi tendenze riduttive, sindacalistiche, che si manifestano con diverse motivazioni. In tutto ciò noi dobbiamo vedere un pericolo, un modo di essere subalterno della classe operaia, una presa di coscienza più limitata, che si restringe agli interessi immediati e rinuncia ad ogni disegno di carattere generale. L’unità della classe non è un fatto spontaneo, non è il riflesso naturale delle condizioni di sfruttamento, non è quindi un fatto solo sociologico, ma è invece il risultato di un processo, di una presa di coscienza, di una riflessione intorno alla linea di lotta che deve essere assunta, agli obiettivi che devono essere perseguiti. Per questo è necessario che i comunisti partecipino attivamente alla vita delle organizzazioni sindacali, che si confrontino con tutte le posizioni, che sappiano unire allo spirito unitario una capacità di lotta politica, di combattività, per impedire che prevalgano posizioni corporative, settoriali, economicistiche. Nel momento attuale, proprio per l’estrema complessità che la situazione presenta, è necessario che il dibattito sia molto aperto, che si confrontino apertamente e con franchezza le diverse posizioni che sono presenti nel movimento sindacale. La causa dell’unità non può essere affidata a equilibrismi diplomatici, ma deve essere il risultato di un confronto che veda protagonisti i lavoratori, secondo un metodo di effettivo esercizio della democrazia. La scelta unitaria non significa configurare una situazione idealizzata in cui scompaiono le differenze reali, le contraddizioni, ma è piuttosto la scelta di un metodo, per cui di volta in volta si sviluppa un confronto democratico tra i lavoratori e si individua una posizione che tenga conto delle diverse opinioni, che consenta di sviluppare pienamente l’iniziativa unitaria dei lavoratori. Non possiamo nascondere la nostra preoccupazione per le difficoltà che si incontrano, che non sono dovute soltanto alla naturale differenziazione che si manifesta nel movimento operaio, ma anche a tentativi di esasperazione e a strumentalizzazioni politiche non accettabili, di fronte alle quali deve esserci una reazione ferma e una difesa dell’autonomia del sindacato e della logica unitaria. L’impegno dei comunisti nell’organizzazione sindacale deve tendere dunque ad esaltare il ruolo autonomo del sindacato, a contrastare le spinte centrifughe ed i fenomeni di frantumazione corporativa, a sviluppare l’iniziativa unitaria al livello più alto, sui temi di fondo dello sviluppo economico e sociale, in coerenza con lo sforzo che in tutti questi anni è stato compiuto per sviluppare l’iniziativa di lotta dei lavoratori su tutti i terreni, dentro e fuori dalla fabbrica, in una visione più ampia del ruolo del sindacato. Il nostro augurio è che i congressi delle confederazioni siano davvero un momento di approfondimento della strategia unitaria del movimento sindacale e che, nel dibattito fra i lavoratori, si sviluppi e si rafforzi la volontà unitaria di costruire un sindacato, che sia una forza coerente, autonoma impegnata a trasformare democraticamente la società italiana, nell’interesse delle masse lavoratrici e del paese.

La crisi complessiva che ha investito la società italiana ha provocato anche dei rivolgimenti profondi nella coscienza morale, nei modi di vita, nel sistema dei valori. Nell’analisi di questo ordine di problemi, credo che sia necessario evitare facili e superficiali generalizzazioni, che anzi si debba mettere in evidenza il carattere profondamente contraddittorio dei processi in atto. È certamente giusto parlare di una “crisi di valori”, ma c’è da domandarsi quale debba essere l’atteggiamento da assumere di fronte a questo fenomeno. C’è un modo conservatore e reazionario di trattare problemi di questa natura, che è assai diffuso, e che rischia di diventare “senso comune”. Questo atteggiamento consiste in una rappresentazione della realtà secondo cui tutto appare viziato da un tarlo morale e profondo, da un decadimento generale di qualsiasi criterio di moralità. Una tale posizione non può essere in alcun modo condivisa, perché si ignora e deforma il valore positivo che ha la spinta a spezzare concezioni morali ormai ossificate e a ricercare una moralità di tipo nuovo.

Anche in questo campo si manifesta, pur in forme confuse e non sempre accettabili, una volontà nuova, una spinta a creare dei modi di vita in cui possa esprimersi più liberamente tutta la ricchezza della vita soggettiva. Al fondo di tutto ciò c’è la rivolta contro le forme di standardizzazione della vita e contro i fenomeni di autoritarismo occulto che sono propri dell’organizzazione borghese della società. È questo un grande fermento positivo, a cui dobbiamo guardare con attenzione e partecipazione. L’idea di una società più libera, di rapporti umani più autentici, di una vita soggettiva che non sia costretta entro schemi rigidi, entro le regole di un formalismo cristallizzato, è un’idea che non ci può essere estranea, che anzi è parte della nostra battaglia per una società più umana. Vi sono ancora nel nostro movimento certe chiusure, certe angustie economicistiche che si combinano con una visione morale tradizionalista. Nell’esperienza di questi ultimi anni, nel modo di essere e di partecipazione alla lotta politica che ha caratterizzato le nuove generazioni, c’è invece un’attenzione crescente per i problemi della vita soggettiva, c’è la convinzione che il processo di rinnovamento della società debba anche comportare una moralità di tipo nuovo, che non è sufficiente combattere per l’eliminazione di ogni forma di oppressione economica, se non avanzano parallelamente anche uno stile di vita e una concezione dell’uomo più aderenti ai principi di libertà.

Accanto a questo ci sono anche, contemporaneamente, fenomeni profondamente deteriori, forme convulse ed esasperate di individualismo, c’è la diffusione di comportamenti asociali, c’è l’abitudine all’uso della droga, ci sono le forme di irrazionalismo e di culto della violenza. Cominciano a manifestarsi, soprattutto nei grandi agglomerati urbani, alcuni fenomeni che sono tipici delle società capitalistiche più sviluppate. In alcuni di questi paesi vi è anzitutto il fatto che manca una forza rivoluzionaria sufficientemente autorevole, e pertanto tutte le spinte di protesta non riescono ad indirizzarsi secondo una visione politica, e assumono un carattere individualistico accentuato. Per usare le parole di Adorno, “lo stato di cose in cui l’individuo sparisce, è insieme quello dell’individualismo scatenato”.

Noi dobbiamo evitare che il destino della società italiana, dei suoi grandi centri urbani, sia quello di percorrere la via verso la disgregazione. Ciò può essere evitato nel nostro paese proprio perché c’è la presenza di un movimento operaio forte ed organizzato, che può essere il protagonista di una battaglia per il rinnovamento morale della società, per una ricomposizione dell’uomo, della sua forza morale, e dei vincoli di solidarietà sociale.

Un esempio significativo ci viene fornito dai nuovi fenomeni di coscienza che si vanno affermando tra le donne, e che danno luogo a nuove esperienze di movimento e di organizzazione. L’elemento di novità sta nel fatto che in primo piano vengono posti, talora anche in modo esasperato, i problemi della condizione umana, delle relazioni intersoggettive, del ruolo che alla donna viene affidato nell’ambito del modo di vita tradizionale. Sono evidenti le forzature, ed è anche troppo facile criticare sotto il profilo teorico quelle concezioni che sostituiscono l’idea della lotta di classe con quella della lotta dei sessi. Ma, tuttavia, c’è qui un nodo reale, un complesso di problemi che deve essere affrontato con impegno da parte del movimento operaio, c’è l’indicazione di un campo nuovo di intervento che non possiamo trascurare.

Abbiamo la convinzione che il nuovo che oggi si manifesta è stato reso possibile dalle lunghe lotte che il movimento operaio ha combattuto, dal cammino che è stato percorso a partire dalle prime forme di organizzazione delle donne lavoratrici per tutelare i loro diritti più elementari. Il nostro partito ha certamente avuto un’influenza grande, ha contribuito più di ogni altra forza politica a fare avanzare tra le masse femminili la coscienza del loro ruolo nella vita democratica. Non c’è dubbio che questo rivoluzionamento del modo di essere della donna è un fatto positivo, anche se appaiono all’interno dei movimenti femministi alcune impostazioni inaccettabili e assurdamente schematiche.

Il problema che si pone è quello di una saldatura con l’azione del movimento operaio, in modo che il problema dell’emancipazione femminile sia visto anzitutto nel suo rapporto con l’organizzazione della società, e non si smarrisca il fatto che la condizione primaria è la partecipazione della donna all’attività produttiva, la conquista di diritti nel campo della qualificazione professionale e dei servizi, l’esercizio di funzioni sociali non subalterne. Dobbiamo però evitare di restringere il nostro lavoro verso le donne alle sole questioni di ordine economico e sociale, perché ciò ci impedirebbe di cogliere un’esigenza più profonda che oggi si manifesta e che pone in discussione la condizione della donna nei suoi tratti più generali, il suo ruolo nella famiglia, i rapporti con l’altro sesso, la tradizionale immagine di passività e sottomissione, la manipolazione che la donna subisce in una società che ne esalta soltanto le doti fisiche e che la trasforma in un oggetto di consumo. Dobbiamo domandarci, criticamente, quanto ancora rimane anche al nostro interno di una visione tradizionalista, di un atteggiamento di indifferenza e anche di ostilità nei confronti delle esigenze profonde del movimento femminile, e dobbiamo quindi segnare una svolta e cogliere davvero tutto il valore rivoluzionario che può assumere questo mutamento del ruolo della donna, questa nuova coscienza che si viene affermando.

In modo analogo dobbiamo affrontare i problemi delle nuove generazioni. I giovani risentono in modo più diretto della crisi della società, sia dal punto di vista della loro condizione materiale sia sotto il profilo morale e ideale. Abbiamo già ricordato come la questione dell’occupazione giovanile venga assumendo un’importanza particolare. Non c’è dubbio che molti fenomeni di esasperazione hanno qui la loro origine. La crisi acuta in cui si trova attualmente tutto l’ordinamento scolastico accentua il carattere precario della condizione giovanile. Vi è stato in questi anni un processo di scolarizzazione di massa, che ha sostanzialmente eliminato il carattere di élite della scuola; ma ciò è avvenuto senza che le strutture scolastiche si adeguassero a questa nuova dimensione, e senza che venisse affrontato il problema degli sbocchi professionali, del rapporto che deve legare lo studio al lavoro, lasciando alla spontaneità e al caso le prospettive future di utilizzazione di questa nuova leva di forze intellettuali. È accaduto così che da un lato si è prodotto un processo di dequalificazione degli studi, e che inoltre non è stata offerta nessuna garanzia, nessuna prospettiva, ad una massa sempre più grande di giovani, i quali vedono frustrate ed ingannate le loro aspirazioni. Che da tutto questo insieme di fatti sia derivata una situazione di tensione, che abbiano preso consistenza forme esasperate di protesta, non è cosa che ci meravigli, e la responsabilità principale di tale situazione è nell’incapacità e nell’imprevidenza delle forze di governo. Al punto in cui siamo le difficoltà sono diventate gigantesche, e non sarà certamente agevole restituire alle scuole e all’università delle condizioni che ne assicurino almeno il normale funzionamento.

Un grande sforzo dovrà essere compiuto per gettare le basi di una scuola moderna e rinnovata, che sia autentico centro di cultura e che sia collegata in modo organico alla realtà sociale ed economica. I problemi del mondo giovanile hanno raggiunto un’acutezza estrema e preoccupante. Gravissime possono essere le conseguenze se non si affronta per tempo questa questione e se si lascia la nuova generazione a se stessa, chiusa in una protesta cieca e negativa. Per evitare questo esito, c’è soltanto una via: quella della costruzione di un forte movimento di lotta che si colleghi coscientemente alla classe operaia. In caso contrario, tutta l’ondata estremistica di oggi si capovolgerà nella tetra rassegnazione di chi non sa più concepire un ordine di cose diverso.

Le nuove generazioni si sono fatte portatrici, nel corso di questi dieci anni, di un complesso di esigenze nuove, di un impulso di rinnovamento molto profondo, e ciò ha esercitato indubbiamente un influsso positivo sul movimento operaio e sull’insieme della vita democratica, facendo avanzare nuove esperienze di partecipazione e ravvivando il dibattito politico e teorico. Nuovi strati sociali si sono spostati su una posizione di lotta e di critica dell’ordinamento borghese, e hanno cominciato a misurarsi con il pensiero marxista. Soltanto in una misura parziale, però, si è stabilito un legame reale con il movimento di classe.

Tutta l’esperienza complessa e travagliata dei vari gruppi estremisti si spiega anzitutto come il tentativo di creare un’area politica autonoma, distinta in modo netto dalle organizzazioni storiche della classe operaia, e da questa scelta di contrapposizione, da questa presunzione assurda di creare una nuova avanguardia, deriva il progressivo scivolamento verso l’avventurismo più irresponsabile e verso la provocazione. Là dove il movimento operaio è una grande forza organizzata e matura, là dove la lotta di classe si è pienamente dispiegata, non vi possono essere incertezze nella scelta di campo, e l’unica posizione rivoluzionaria possibile è quella di chi si schiera con la lotta delle grandi masse lavoratrici.

Scriveva Marx nel 1871: “Lo sviluppo del settarismo socialista e lo sviluppo del vero movimento operaio sono sempre in rapporto inverso e fino a quando le sette hanno una ragione storica di essere, la classe operaia non è ancora matura per un movimento storico indipendente. Quando avrà raggiunto questa maturità, tutte le sette diventeranno essenzialmente reazionarie”. Come è evidente, non poniamo qui un problema di partito, poniamo invece la questione del rapporto con il movimento operaio.

Ci sembra che il travaglio che si è aperto nei gruppi di sinistra, in particolare nel PdUP e in Avanguardia operaia, avvenga sostanzialmente su questa questione: la rottura avviene tra chi vuole continuare, senza nessuna riflessione critica, lungo la via fin qui percorsa e vuole quindi riconfermare una linea di divisione e di contrapposizione, pensando di poter raccogliere tutta l’accoglienza dell’estremismo più avventuroso, e chi invece, pur mantenendo posizioni di critica, si preoccupa di operare come una componente interna al movimento operaio, e tende a ristabilire un rapporto, a ricostruire le condizioni per un dibattito e per una ricerca comune. È questa una differenziazione significativa e importante, che può offrire una nuova possibilità di iniziativa politica, e di cui dobbiamo tenere conto.

Ma, evidentemente, il problema non si esaurisce nelle vicende interne dei gruppi, ma riguarda invece l’orientamento di masse più estese, di strati di gioventù, di forze intellettuali, verso i quali questo richiamo ad un rapporto positivo con la classe operaia deve essere rivolto con grande forza, dimostrando la più ampia disponibilità ad una discussione, a un confronto aperto delle idee.

L’ultima riunione del Cc ha affrontato con grande ampiezza questi temi, chiamando il partito ad un lavoro di grande respiro sui problemi della condizione giovanile e delle questioni dell’orientamento ideale. In particolare, emerge come questione centrale quella della posizione da assumere verso lo stato democratico, della lotta che deve essere condotta verso quelle posizioni che, ignorando tutto il processo storico dalla Resistenza ad oggi, concepiscono lo stato solo come macchina repressiva, e da questa visione fanno discendere quindi metodi di lotta inaccettabili.

Questa posizione di sfiducia verso l’ordinamento democratico, verso tutte le forze politiche, verso la possibilità di lottare nel quadro della democrazia, dà vita a torbide spinte di carattere eversivo, su cui può far leva l’azione della destra reazionaria.

La Federazione giovanile comunista, che in tutti questi anni si è trovata impegnata in una lotta politica assai difficile e che ha rafforzato le sue posizioni e il suo prestigio, deve avere un sostegno più ampio da parte del partito. Il compito della FGCI è in questo momento decisivo: essa opera in uno dei punti nevralgici, e non può quindi esserci, a nessun livello, un buon funzionamento del lavoro del partito senza l’apporto di una organizzazione giovanile che estenda i propri legami con la gioventù. La FGCI deve tendere sempre più ad essere un’organizzazione di massa e di lotta, a costruire una propria presenza diffusa in tutta la società, e ad operare perché, intorno ad una visione democratica della lotta della gioventù, si realizzi un movimento unitario, di forze laiche e cattoliche, di studenti e di lavoratori.

Nel nostro lavoro verso il mondo giovanile in particolare, ma anche in tutta la battaglia politica generale del partito, un peso crescente assumono i compiti della battaglia culturale e ideale. A ciò siamo sollecitati non soltanto dai tentativi di manipolazione del marxismo, dalle semplificazioni grossolane che esso subisce e che vengono utilizzate nella polemica contro di noi, ma soprattutto dall’esigenza del confronto con le grandi correnti di pensiero che agiscono nella società italiana, e all’interno delle quali si manifestano fatti nuovi, da analizzare attentamente.

Nel mondo cattolico agiscono tendenze diverse, sempre più difficilmente conciliabili. La linea ufficiale della chiesa, che si richiama alle posizioni del Concilio con quello spirito di prudenza e con quella costante preoccupazione per l’unità della comunità religiosa che caratterizzano la linea di condotta dell’attuale pontefice, è messa ad una prova difficile su due fronti diversi. Da una parte vi sono le posizioni del “dissenso”, che contestano la struttura gerarchica della chiesa e che tendono a ricavare conseguenze radicali dalla svolta del Concilio, e dall’altro lato vi sono le tendenze di carattere integralistico che vorrebbero restaurare l’immagine tradizionale della chiesa ed il monolitismo politico dei cattolici. Con il convegno su “Evangelizzazione e promozione umana”, che ha avuto grande risonanza, si è compiuto un passo importante nella direzione del rinnovamento, di una visione aperta della chiesa e dei suoi rapporti con la società di oggi. È stato esplicitamente condannato il tarlo dell’integrismo, chiamando il mondo cattolico a un “dialogo insieme critico e costruttivo con tutte le ideologie del nostro tempo”.

In modo nuovo è stato affrontato anche il problema dell’impegno politico dei cattolici. Nella sintesi conclusiva del convegno svolta da padre Sorge viene data questa impostazione: “Una medesima ed unica fede può ispirare movimenti differenti tra loro, può condurre a impegni diversi. E ciò, sia per la ricchezza inesauribile del messaggio evangelico, che non potrà mai essere tradotto adeguatamente dall’uno o dall’altro movimento storico, sia per la natura essenzialmente mutevole, contingente e imprevedibile della realtà temporale e della storia. Perciò, sono del tutto legittimi – anzi di continuo arricchimento – sia il pluralismo associativo dei cattolici, sia il pluralismo delle loro opzioni temporali in campo culturale, sociale, economico e politico”.

Ad affermazioni importanti ed impegnative come quella ora citata, fanno però da contrappeso tendenze di segno contrario, che non si manifestano soltanto come una resistenza del passato, come un segno inevitabile, dello spirito di conservazione, ma che hanno una radice più profonda, e mettono in moto tutto un complesso di energie, anche giovanili. Lo sviluppo del movimento di “Comunione e liberazione” è il fatto che più chiaramente rivela questa tendenza, e che solleva interrogativi complessi, a Milano soprattutto dove questo movimento ha conquistato una consistenza rilevante.

Ciò che ci preoccupa non è certo il fatto che il mondo cattolico voglia riprendere una propria presenza organizzata nella società, è invece il modo in cui si attua questa presenza, è la tendenza a concepire di nuovo il rapporto della chiesa con la cultura moderna nei termini di un conflitto insanabile. Continuiamo a ritenere che dalle forze cattoliche possa venire un contributo prezioso, e ciò per una ragione sostanziale: perché nella moderna società capitalistica, che ha in sé la tendenza alla polverizzazione dei valori e alla edificazione di un modo di vita che può essere definito di individualismo standardizzato, la concezione cattolica della vita, l’idea che l’uomo debba assolvere ad un impegno che solo nella solidarietà con gli altri trova la sua realizzazione, rivela un punto di contatto non secondario con le aspirazioni del movimento operaio e con la nostra visione della società.

Non sono ragioni di opportunismo e di tattica contingente quelle che ci hanno spinto a ricercare un incontro con le forze cattoliche, e per questa convinzione di fondo, non strumentale, guardiamo oggi con viva partecipazione al dibattito tra i cattolici. I fenomeni di neointegralismo di cui abbiamo parlato ci debbono spingere ad un esame più approfondito del modo con cui abbiamo saputo portare avanti l’iniziativa, il dialogo con le forze cattoliche. Dobbiamo chiederci, e verificare nel concreto, se non vi sia stata una qualche caduta nel nostro impegno. Non è certo casuale il fatto che il movimento di Cl abbia trovato proprio nella realtà milanese un terreno più fertile. Evidentemente vi è tra i cattolici una reazione al diffondersi di una cultura di tipo radicale, di concezioni e di modi di comportamento che sono l’esatto ribaltamento della morale cattolica, vi è la convinzione che nel profondo della società moderna sia in atto un processo di scristianizzazione della vita e che, pertanto, sia dovere dei cattolici dare piena testimonianza di sé e contrastare in ogni modo tutto quanto è in conflitto con la concezione cristiana.

Non ci può sfuggire il pericolo di questa scissione della società in due campi avversi. Ciò mette in forse tutti gli sviluppi positivi che si sono avuti nell’evoluzione del pensiero cattolico, e mette in forse soprattutto l’unità morale del paese. Deve essere nostro obiettivo quello di tenere aperto il confronto, in una tensione morale comune, e secondo un criterio di tolleranza e di rispetto reciproco. Molti gruppi cattolici sono convinti di questa necessità, e già operano – come, ad esempio, le Acli -sul terreno sociale in un rapporto aperto e fecondo con le diverse espressioni della società civile.

Molto di più può essere fatto, in molti campi più estesa può diventare la collaborazione con le varie organizzazioni cattoliche. Operare concretamente su questa via, dimostrare nei fatti come solo dalla convergenza delle grandi correnti ideali può venire un impulso all’evoluzione civile del paese e al suo risanamento, è questo l’impegno di lavoro che ci dobbiamo assumere, e che può favorire all’interno del mondo cattolico e della chiesa la ricerca di un dialogo più costruttivo e il superamento delle tentazioni integralistiche. C’è da osservare, d’altra parte, come le correnti della cultura laica borghese abbiano progressivamente perduto molto della loro vitalità. È difficile in questo campo individuare un complesso ben definito di concezioni, di elaborazioni culturali. Possiamo riferirci piuttosto ad una penetrazione diffusa che avviene attraverso i canali dei grandi mezzi di informazione e che manifesta tendenze contraddittorie: da un lato un orientamento democratico prevalente (naturalmente con alcune eccezioni), dall’altro lato una tendenza al giudizio superficiale, ad una certa forma di qualunquismo, alla moda delle opinioni correnti. C’è da una parte della pubblica opinione che si colloca in una generica area di sinistra democratica in questo modo disimpegnato e superficiale, senza in realtà mettere in discussione i fondamenti dell’ordine sociale vigente.

Le recenti fortune del Partito radicale possono essere considerate come un’espressione, non l’unica certamente ma significativa, di questa sorta di “sinistra borghese”, amante del gesto brillante, radicale nelle sue posizioni, ma solo là dove si tratta delle libertà borghesi, anticomunista per tradizione radicata e per spirito di classe, anticlericale in modo viscerale ed irriverente. Questo decadimento della cultura borghese democratica lascia un vuoto pericoloso, che si avverte anche sotto il profilo politico, e che pochi e ristretti gruppi si propongono di colmare. C’è quasi da rimpiangere il momento in cui in Italia vi era una solida cultura borghese, in cui c’era un Benedetto Croce con il quale misurare le nostre armi critiche.

Non è detto, però, che l’assenza di una cultura, di un sistema di pensiero elaborato, sia necessariamente un sintomo di debolezza. L’ideologia della società borghese tende sempre più ad essere il riflesso di ciò che esiste, proprio in quanto è nella natura di questa società ridurre il pensiero ad un meccanico riflesso condizionato. Ciò che già è stato sconfitto e superato nella teoria, resiste nella realtà, con la forza di inerzia e con la pesantezza delle cose materiali. La battaglia culturale e ideale deve quindi legarsi all’azione politica concreta e alla lotta delle masse. Il marxismo ha già conquistato delle posizioni decisive nella vita culturale, ma la teoria diviene forza materiale solo quando mette in movimento delle forze reali, ed è quindi il partito, l’organizzazione politica della classe, lo strumento in cui deve prendere corpo l’azione per il rinnovamento morale e culturale.

A Milano tutti questi problemi si pongono in modo pregnante: abbiamo il privilegio di una situazione in cui tutte le varie tendenze si esprimono al loro livello più alto, dall’estremismo all’integralismo cattolico, e in cui si concentrano gli strumenti dell’industria culturale. Il partito deve quindi essere sempre più attrezzato sul terreno culturale e teorico, per affrontare in campo aperto il confronto con tutte le diverse tendenze politiche e ideali.

L’organizzazione del partito ha conseguito in questi due anni dei successi importanti. Abbiamo portato il numero degli iscritti, dal precedente congresso provinciale, da 81073 a 90479, abbiamo costituito 40 nuove sezioni di partito, abbiamo elevato considerevolmente il contributo finanziario che ci viene da ogni compagno, portando la media tessera dalle 6300 del 1975 alle 8900 di oggi, abbiamo sviluppato ulteriormente la diffusione della nostra stampa. Il lavoro che abbiamo svolto, pur con i difetti e le lacune non evitabili, è una dimostrazione della grande forza del partito, della sua vitalità, delle energie morali che esso sa mettere in movimento.

Con questo congresso ci dobbiamo porre nuovi obiettivi di rafforzamento del partito e di adeguamento delle sue strutture organizzative. Per evitare la genericità, e per dare a tutto il partito l’indicazione chiara di alcuni filoni di lavoro fondamentali, devono essere messi in evidenza due obiettivi prioritario Il primo obiettivo è quello di portare ad un livello decisamente più alto tutta la nostra organizzazione nei luoghi di lavoro. Dobbiamo moltiplicare le sezioni e le cellule di fabbrica, creare ovunque l’organizzazione del partito, e dobbiamo soprattutto far sì che il peso della classe operaia organizzata incida più a fondo nella nostra vita interna, che per tutti i compagni e per tutti i gruppi dirigenti l’impegno verso le fabbriche ed intorno ai temi della condizione operaia e di una nuova politica economica sia uno degli aspetti essenziali e permanenti del loro lavoro.

La nostra organizzazione è ancora prevalentemente territoriale, e ciò rischia di non valorizzare in modo adeguato i quadri operai, e inoltre rischia di orientare il lavoro del partito in maniera prevalente sui problemi delle amministrazioni locali, lasciando in ombra i compiti che abbiamo nel movimento di massa. Noi vogliamo essere partito di governo in quanto partito della classe operaia, senza esasperazioni operaistiche ovviamente, ma intendendo il carattere di classe del partito come un dato politico a cui tutti contribuiamo con il nostro lavoro e che da parte di tutti richiede quel legame vivo e costante con i lavoratori che deve essere il requisito essenziale del militante comunista.

Il secondo obiettivo è quello di operare per una grande espansione organizzativa e politica della FGCI. Ho già illustrato le ragioni politiche che stanno alla base di questa scelta.

Dobbiamo però porre con molta più concretezza operativa questo problema. Non vi può essere nessuna nostra sezione che non si ponga come obiettivo di lavoro proprio quello del potenziamento del circolo della FGCI, o della sua costituzione, mettendo a disposizione, se è necessario, quadri giovani che operano nel partito, sostenendo uno sforzo finanziario adeguato, aiutando la formazione politica dei quadri. Il numero degli iscritti alla FGCI può essere, grazie ad un lavoro sistematico, raddoppiato, nuovi circoli possono essere costituiti, nei quartieri, nelle scuole e nelle fabbriche.

Naturalmente, numerose altre questioni meriterebbero un esame approfondito, ma credo che ciò possa essere affidato all’apposita commissione sulle strutture del partito che sarà costituita nel corso del congresso. La vita democratica all’interno del partito, già assai ampia e positiva, deve svilupparsi ulteriormente, creando le condizioni per un dibattito più aperto, per un costume interno di partito in cui ogni compagno senta di poter dare del tutto liberamente il proprio contributo. E, soprattutto, la forza del partito deve esprimersi nell’iniziativa di massa, su tutti i terreni, e nel collegamento più ampio con la società civile. Una forza compatta che sia chiusa in se stessa non può dare risultati politici di rilievo. Sempre più dobbiamo saper operare in campo aperto, nel confronto, con una capacità di indicare soluzioni concrete per tutti i problemi della società. Questo appunto significa essere partito di governo e di lotta.

Non sempre, nel lavoro delle nostre organizzazioni, si realizza questa capacità di suscitare e di dirigere movimenti reali, e di avere un collegamento vasto con le masse. Dobbiamo sempre preoccuparci di chiarire il significato delle nostre posizioni al numero più grande possibile di cittadini, di far sempre corrispondere alle nostre scelte politiche uno sforzo adeguato di propaganda, di mobilitazione, di collegamento di massa. Anche le cose che ci appaiono più semplici e più scontate non lo sono per molti compagni, per molti nostri elettori, per molti lavoratori.

Teniamo conto del fatto che i grandi mezzi di informazione lavorano spesso contro di noi, che le nostre possibilità sono in questo campo molto limitate, che quindi è necessario in ogni momento uno sforzo eccezionale da parte di tutto il partito.

Voglio ancora sottolineare l’esigenza che nel nostro lavoro sia costantemente presente l’ispirazione internazionalista del partito, che in modo continuativo venga condotta l’azione di solidarietà attiva con i movimenti di lotta della classe operaia e di tutte le forze democratiche.

Abbiamo accolto a Milano con grande entusiasmo ed affetto il compagno Luis Corvalan, ribadendo il nostro impegno a proseguire la lotta per la liquidazione definitiva dell’oppressione fascista nel Cile. Milano ha dato sempre un grande contributo alla lotta per la democrazia e per la pace, è stata in prima fila nel grandioso moto di solidarietà con il popolo del Vietnam e sta a noi tenere alta questa tradizione, e chiamare altre forze democratiche e tutto il popolo ad una mobilitazione unitaria ogni volta che sia necessario.

I compiti che abbiamo di fronte sono ardui e complessi, tutta la nostra strategia di avanzata democratica verso il socialismo si trova in una fase decisiva. Noi siamo consapevoli del grande impegno che il partito deve esprimere, un impegno di lavoro e di ricerca, di lotta e di riflessione. Con il nostro lavoro dobbiamo contrastare con la massima decisione tutte le manovre conservatrici, e dobbiamo imporre uno sviluppo nuovo dei rapporti politici. Il partito deve combattere contro ogni tendenza all’attendismo, alla passività, all’inerzia. Anche nella selezione dei quadri, dobbiamo guardare anzitutto alle doti di combattività e di impegno, di slancio nel lavoro e di dedizione al partito. E dobbiamo anche esercitare in modo più rigoroso e severo i compiti di vigilanza che la situazione richiede.

Abbiamo bisogno di discutere più a fondo, di sviluppare la nostra elaborazione, di prospettare in modo sempre più chiaro i lineamenti fondamentali di uno sviluppo nuovo della società, di una trasformazione che sia orientata nella direzione del socialismo. Questa discussione e questa ricerca non riguardano soltanto noi, interessano tutte le forze del movimento operaio e tutte le forze di progresso. Ci rivolgiamo quindi alle masse fondamentali del paese, alle forze della cultura, ai partiti popolari e democratici, perché da un impegno comune, nell’azione politica e nel dibattito, venga un nuovo impulso per la trasformazione del paese, per la sua crescita democratica, per un avvenire di libertà e di progresso sociale.


Numero progressivo: V5a
Busta: 14
Estremi cronologici: 1977, 18 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Volume, b/n, ill., 819 pp.
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: Gianfranco Petrillo (a cura di), “I congressi dei comunisti milanesi. 1921-1983”, Franco Angeli, 1986, pp. 473-526