LA DIFFICOLTÀ STA NEL MERITO DELLE SCELTE

Democraticismo, interessi corporativi, alleanze

Contributo di Riccardo Terzi alla discussione “Il partito, oggi”, aperta su Rinascita sul n. 23 da Adalberto Minucci, Giovanni Berlinguer, Abdon Alinovi, e proseguita con gli articoli di Giuseppe Vacca, Andrea Geremicca, Vasco Giannotti sul n. 24, e che continua in questo numero con gli interventi di Riccardo Terzi, Luigi Coiajanni e Giuseppe Caldarola

La tematica della partecipazione democratica non basta: occorre andare a una più rigorosa analisi di classe. La questione dei ceti medi e il rapporto con la DC. C’è il rischio che riaffiori in forme nuove una visione totalizzante, non laica, del partito e della politica

 

È opinione diffusa che, nella nuova fase politica, il partito debba riesaminare a fondo il proprio modo dl essere e di operare. Infatti, nel momento in cui la nostra linea politica generale compie in decisivo passo in avanti e si comincia a profilare nel concreto la questione di una nuova intesa tra le forze democratiche, sono numerosi e complessi i problemi di tipo nuovo che il partito deve affrontare. Non è sufficiente la riaffermazione delle grandi opzioni strategiche, e l’unità politica del partito, ribadita nel corso dei congressi provinciali e regionali, deve essere ulteriormente verificata e commisurata agli sviluppi più recenti della situazione politica del paese. Possiamo forse dire che già tutto è chiarito, che non vi sono ritardi e incomprensioni? Evidentemente le cose non sono così semplici, anzitutto per il fatto che il partito è un organismo vivo e complesso, composto da uomini che sanno pensare e sanno anche sbagliare, che non agiscono per disciplina cieca ma per intima convinzione, e quindi ogni nuova «tappa» (e davvero a me sembra siamo entrati in una fase nuova e più avanzata) comporta un lavoro assai complesso di orientamento, di assestamento delle idee, di adeguamento dello stile di lavoro, che non può essere automatico e che anzi richiede un certo travaglio.

Occorre mettere in chiaro questi problemi, ed evitare quelle affermazioni generiche che sono buone per tutti gli usi. Le frasi consuete sul modo nuovo di fare politica, sul salto di qualità, sulla rinnovata capacità di collegamento con le masse, sulla crescita politica e culturale, hanno, a mio avviso, un effetto pressoché nullo e non aiutano i compagni a riflettere e a capire. Se ci abituassimo a parlare solo se ci sono delle cose da dire, sarebbe già questa una prima riforma feconda del nostro stile di lavoro.

È mia opinione che la questione fondamentale del momento sia quella del «carattere di governo» del partito. Occorre, anzitutto, prendere piena coscienza che il nostro ruolo di governo, faticosamente conquistato nel corso degli ultimi due anni, è un dato non ancora acquisito e consolidato. Il rivolgimento è stato grande, impetuoso, tutto il vecchio sistema di potere ha subito un colpo assai duro, ma proprio per questo si sono messe in movimento tendenze di segno contrario, e si vanno oggi ricercando, da parte delle forze conservatrici, nuove linee di difesa e di controffensiva. Sarebbe pericoloso farsi illusioni e immaginare la vicenda politica come un graduale, irreversibile, spostamento verso sinistra. E allora, il problema di attrezzare il partito come nuova forza di governo appare come un problema estremamente urgente e concreto, perché non possiamo certo affidarci alla benevolenza altrui o alla fatalità della storia. È dalla soluzione di questo problema che dipende la stessa forza elettorale del partito, la cui ampiezza è ormai tale da rendere possibili oscillazioni anche vistose, dato che le ragioni del consenso sono, per una larga fascia del nostro elettorato, non di natura ideologica, ma piuttosto di natura pragmatica.

È certamente essenziale, per un partito come il nostro, concepire l’azione di governo in modo strettamente congiunto ai compiti di lotta e all’azione di massa. Ogni offuscamento di questo legame non può che essere deleterio. Ma, badiamo bene, si tratta davvero di vedere questo intreccio nella sua unità organica, di non intendere quindi il carattere di lotta del partito come un’aggiunta intrinseca, o come una concessione al massimalismo. Noi abbiamo bisogno, in questo momento, non di una lotta qualsiasi, di un movimento qualsiasi, ma invece di un’azione coerente, finalizzata ad obiettivi rigorosi, cosciente dei dati oggettivi della crisi e volta alla costruzione di uno sbocco politico positivo. Sotto questo profilo, abbiamo ancora nel partito ritardi pesanti. E talora si manifesta una curiosa inversione di prospettiva: molti compagni sembrano essere preoccupati soltanto di non essere sopravanzati dal «nuovo», dai nuovi fermenti di protesta, e sembrano ignorare il rischio, assai più corposo, di essere sopravanzati dalla logica di conservazione, dalla forza di inerzia del sistema.

Per comprendere meglio quali sono i nostri punti di debolezza e dove si presentano i rischi di un rovesciamento dei rapporti di forza, dobbiamo condurre, con grande impegno di approfondimento, un’analisi puntuale dei rapporti di classe, quali si presentano in questa fase determinata dello sviluppo capitalistico del paese. Non ci può essere capacità di governo né egemonia del movimento operaio senza un’analisi della società e delle sue contraddizioni.

Da questa analisi possiamo ricavare una percezione più chiara degli ostacoli, delle resistenze, dell’insieme di interessi materiali che fanno da supporto alle posizioni conservatrici.

Il concetto di egemonia – intorno al quale si discute spesso a proposito – indica appunto questa capacità di una determinata classe di coordinare gli interessi di altri gruppi sociali, di riassumerli entro una visione complessiva dello sviluppo economico e sociale, di divenire così «classe dirigente» grazie alla capacità di operare non sul terreno corporativo e neppure su quello astratto degli ideologismi, ma su quello politico dell’organizzazione della società e dell’ordinamento dello Stato.

A giudicare da una certa pubblicistica e da certe correnti di opinioni, il problema non sembra più essere quello delle classi e dei partiti che le esprimono ed organizzano, ma diviene quello dell’antagonismo metafisico tra le masse e il potere. Kierkegaard scriveva che la folla è la falsità, è il male del mondo. Possiamo pure ribaltare questi concetti, ma rimaniamo ancora nell’ambito del misticismo.

Mi pare che anche nel nostro linguaggio di partito si sia introdotto un certo abuso di questo riferimento generico alle «masse» e si sia pericolosamente offuscata l’abitudine di considerare le masse come un insieme articolato e contraddittorio di gruppi e di interessi non omogenei. La nozione di «democrazia di massa», che ha avuto notevole diffusione, mi pare sintomatica di tale situazione, ed esprime una regressione da Mare a Rousseau.

«Componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna»: così diceva Mare nella Critica del programma di Gotha, e l’avvertimento non ha certo perso di attualità. Il concetto di «massa» deve essere disaggregato nelle classi e nei diversi gruppi sociali: soltanto così ci mettiamo in grado di costruire una politica di alleanza, di porre in modo concreto e realistico la questione dell’egemonia, della formazione di un nuovo blocco di potere. È tutta la questione dei ceti intermedi che il partito deve riprendere con grande vigore. È qui la chiave interpretativa del sistema di potere costruito dalla Democrazia cristiana, che a questi ceti ha assicurato, in varie forme, una situazione di relativo privilegio e che li tiene legati ad una visione politica moderata, ad una determinata idea dell’equilibrio tra le classi.

Noi abbiamo ottenuto recentemente dei risultati di grande interesse nel rapporto con le classi medie: si tratta ora di vedere come li consolidiamo, come una linea di rigore e di austerità possa andare avanti senza provocare arretramenti in questo rapporto, senza scatenare reazioni corporative che diano corpo ad una controffensiva di destra. Questo mi sembra, oggi, il problema di maggiore difficoltà, e per questo considero preoccupante lo scarso impegno di elaborazione, e di iniziativa politica che l’organizzazione del partito sta dedicando a questo insieme di questioni.

La nostra attenzione mi sembra, in sostanza, troppo spostata sul terreno della democrazia. Tutta la tematica della partecipazione ha assunto un rilievo politico di primo piano, e ciò naturalmente è il segno di un bisogno reale. Tuttavia, noi abbiamo il compito ingrato di ridimensionare le illusioni democraticistiche, e abbiamo anche il dovere di riconoscere che, sotto il profilo della democrazia, la società italiana è tra le più avanzate nel mondo. Le difficoltà oggettive e reali che incontriamo nella nostra azione politica sono di natura più complessa: non possono essere esorcizzate con il ricorso diretto alle masse e alla loro partecipazione, ma ci rinviano al problema degli antagonismi di classe e a quello delle mediazioni politiche. Di ciò abbiamo già potuto fare esperienza nell’azione amministrativa degli ultimi anni: abbiamo verificato infatti che non basta governare in un modo nuovo, applicare un metodo conseguentemente democratico; che la difficoltà sta nel merito delle scelte, nella capacità di valutare di volta in volta gli effetti sociali delle decisioni e le conseguenze che ne derivano nell’intreccio dei rapporti di classe. Ecco che allora siamo ricondotti al problema del partito di governo, il quale appunto deve fare i conti con tutta la complessa articolazione della società e con le forze politiche che sono il tramite attraverso culi gli interessi molteplici si organizzano ed operano nell’ambito delle istituzioni dello Stato.

La democrazia italiana ha come sua caratteristica essenziale quella di essere fondata sul ruolo dei partiti politici, attraverso la cui azione avviene nel concreto la partecipazione delle masse alla vita politica. La costruzione di una nuova unità democratica non può che avvenire nell’ambito di questa «democrazia rappresentativa». Spetta al nostro partito il compito di essere, ad ogni livello, promotore e organizzatore di un confronto politico che faccia cadere le chiusure pregiudiziali del passato e costruisce le condizioni di un’iniziativa unitaria.

L’iniziativa nostra verso la Democrazia Cristiana, in questo senso, non può consistere in una monotona ripetizione della parola d’ordine del compromesso storico, non può ridursi all’appello generico all’unità e all’intesa. Occorre invece partire dalla piena coscienza delle profonde diversità esistenti, del particolare retroterra culturale e sociale che caratterizza il partito democristiano, e da ciò trarre, con realismo, l’indicazione dei punti possibili di intesa, delle condizioni di un confronto più proficuo, degli atti politici che possono creare un nuovo clima di comprensione e di solidarietà democratica. Anche da questo punto di vista, il lavoro del partito deve essere notevolmente migliorato. Ancora persistono, sia pure non teorizzate, forme di integralismo, che riducono la nostra politica unitaria entro una visione tattica strumentale. È forse un caso o un segno soltanto di difetti organizzativi, il fatto che le manifestazioni unitarie e le iniziative di confronto con altri partiti registrano, in generale, un impulso di partecipazione più scarso dei nostri quadri e militanti?

La nostra linea politica non potrà avere il necessario sviluppo se non si correggono questi difetti, se non si mettono a nudo i ritardi, se non si conduce un’azione assai vasta per orientare il partito in modo che sappia comprendere le ragioni politiche degli altri ed intrecciare quindi dei rapporti di confronto effettivo. Nella nuova fase politica che si è aperta, si tratta di garantire questo nuovo equilibrio tra le forze democratiche, di mandare avanti nei fatti rapporti politici più aperti e costruttivi, scongiurando i pericoli di lacerazione e il prevalere di una logica di arroccamento o di contrapposizione. Dal punto di vista pratico, ciò comporta per il nostro partito una grande duttilità politica, una capacità elevata di mediazione e di sintesi.

Nel lavoro di tutti gli organismi del partito c’è un mutamento di qualità e di stile che deve essere operato. Vi è oggi infatti la necessità di prendere posizione su un arco estremamente vasto di problemi, di passare dalle enunciazioni generali alle scelte specifiche, alle decisioni operative, all’azione di governo. Ciò comporta un nuovo stile di lavoro, un nuovo abito di concretezza, un metodo di discussione essenziale e non inutilmente verboso, una democrazia interna che consenta di decidere, che non sia paralizzata dall’idea dell’unanimismo, che dia spazio alle responsabilità individuali e al ruolo dirigente degli organismi. A che servono riunioni dove non si decide nulla, dove le scelte vengono rinviate, dove l’esistenza di pareri discordi dà luogo a una sintesi solo fittizia ed esteriore, senza nessuna efficacia pratica? A tutto questo si collega anche l’esigenza di una politica di quadri che sia rivolta alla specializzazione, all’approfondimento in settori determinati, all’affermazione cioè di una figura di militante che sappia unire alla passione politica e alla dedizione disinteressata al partito, lo sforzo di conoscenza, di ricerca e di studio. C’è il rischio reale che questi compiti più impegnativi determinino una selezione di quadri unilaterali, riducendo ulteriormente il peso nella vita del partito dei militanti di formazione operaia. Se le cose vengono lasciate alla spontaneità, questa è la tendenza inevitabile, ed è una tendenza che va contrastata con decisione, con misure organizzative rigorose e severe, introducendo in questo campo una correzione rispetto al passato, il che comporta anche una battaglia politica là dove ci sono determinate trasformazioni non accettabili nella natura di classe del partito. Tanto più questa preoccupazione ha valore oggi, quando, con l’assunzione di compiti di governo, maggiori diventano i pericoli di opportunismo e di trasformismo.

Vorrei concludere con un’ultima osservazione, un po’ slegata dalle cose fin qui dette, ma non priva di rilievo politico. Alla politica si chiede oggi più di quanto essa possa dare. Si tende cioè ad introdurre nel dibattito politico tutta quella massa di problemi che riguardano la sfera dell’esistenza soggettiva, pretendendo che siano date risposte certe, criteri di valore e principi incrollabili di una nuova moralità. Non considero tutto ciò come un fenomeno progressivo, ma anzi come un segno di crisi e di smarrimento. Assistiamo nella società odierna a un eccesso di politicizzazione, come se l’orizzonte della politica fosse l’unico e conclusivo orizzonte di tutta l’esperienza umana. Mi sembra che per questa via possano riaffiorare nel partito tendenze ad una visione totalizzante, ad una riassunzione meccanica nel sociale di tutta l’esperienza

soggettiva, ad una visione della società nella quale solo il collettivo è portatore di valore.

Al contrario, dobbiamo tenere ferma una visione laica, non conventuale, della politica, e dobbiamo lavorare non per annullare la separazione del pubblico e del privato, ma per annullare piuttosto i meccanismi di standardizzazione e di massificazione entro cui la libertà individuale viene soffocata.


Numero progressivo: G36
Busta: 7
Estremi cronologici: 1977, 8 luglio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 27, 8 luglio 1977, pp. 9-10