UNITÀ E AUTONOMIA. I PILASTRI

di Riccardo Terzi

Il congresso della CGIL, il primo che si è tenuto sotto la direzione di Guglielmo Epifani, si è intrecciato strettamente con la vicenda politica e ha dovuto affrontare, in una vigilia elettorale densa di implicazioni, tutto il nodo complesso dei rapporti del sindacato con la politica. Questo è il valore, ma anche il limite, del congresso, che si è trovato oggettivamente schiacciato sulla dimensione politica, posto di fronte alla domanda semplice e cruciale: come far ripartire il Paese su nuove basi, come rispondete all’attuale stato di degrado e di sfilacciamento che attraversa la società italiana. Riprogettare il Paese: questa e stata la parola d’ordine del congresso, una parola d’ordine politica, che mette al centro la necessità di elaborare un nuovo progetto di società.

Questa scelta era assolutamente necessaria. Noi ci troviamo oggi in una condizione di emergenza: economica, civile, democratica. Senza una svolta politica, tutta la situazione rischia di precipitare e di produrre un vero e proprio collasso della nostra democrazia. Il modo in cui si sta svolgendo la campagna elettorale rende ancora più chiaro, per chi sa guardare alla realtà con mente aperta, che siamo a una stretta, nella quale si mettono in gioco tutti gli equilibri del Paese. L’estrema aggressività della destra non è solo una tattica difensiva, ma è l’annuncio di ciò che ci può essere preparato per il domani, di un’offensiva apertamente dispiegata contro ogni potere autonomo, per mettere tutto sotto il controllo di un gruppo di potere rapace, pronto travolgere tutte le garanzie istituzionali. Le cose stanno a questo punto, non è possibile negarlo. Non si può fingere un’alternanza tranquilla e fisiologica, nella quale si confrontano schieramenti politici reciprocamente legittimati e uniti intorno a una comune base costituzionale. Questa base comune non esiste. E forse e la prima volta che le elezioni politiche finiscono per avere, di fatto, un valore costituente, perché si tratta di decidere non solo chi governa, ma su quali principi e su quale idea di democrazia si deve costruire il futuro dell’Italia.

Ecco perché il sindacato non può essere un osservatore distaccato e neutrale. Perché nel conflitto tra decisionismo e partecipazione è messa in gioco la funzione delle rappresentanze sociali, il loro essere riconosciute come un interlocutore che concorre alla definizione delle scelte di governo. Non solo la CGIL, ma la stessa Confindustria è posta di fronte allo stesso quesito. E a Vicenza c’è stata una chiara rappresentazione del bivio che ci attende: un governo che dialoga, o un governo che comanda e pretende fedeltà.

Nel momento in cui il problema posto è quello della qualità della democrazia, il sindacato non può tirarsi indietro, ma deve far sentire la sua voce, che è una delle tante voci di una società civile che non vuole essere irreggimentata e ingabbiata dentro un sistema di governo di tipo plebiscitario, nel quale tutto ruota intorno al potere personale di una sola persona. Occuparci di questo tema cruciale, della forma e della qualità della democrazia, non significa affatto perdere di vista l’autonomia del sindacato, perché anzi si tratta proprio di difendere l’autonomia contro l’invadenza di un potere arrogante.

È un passaggio non facile: schierare politicamente il sindacato in una competizione che mette in causa valori per noi essenziali, e nello stesso tempo tenere salde le ragioni della nostra autonomia e non farci trascinare su un terreno improprio, non tornare a riprodurre una vecchia logica di collateralismo. Questo passaggio critico il congresso della CGIL lo ha superato in modo convincente. Impegno civile e politico della CGIL e riaffermazione piena della sua autonomia, sono i due lati che stanno insieme in una posizione coerente; quindi nessuno, nemmeno a sinistra, può pensare di usare la CGIL come una pedina del suo gioco politico. Il fatto molto importante, il più rilevante del congresso, è che Romano Prodi ha perfettamente compreso questa posizione della CGIL, e con essa si è misurato con il tono giusto, senza promesse demagogiche, con un atteggiamento di rispetto e di attenzione, come il capo di un governo che del sindacato vuole tenere conto, in un confronto sempre aperto, rispettandone l’autonomia, riconoscendo che c’è sempre una dialettica, una distanza, una diversità di prospettiva tra la sfera sociale e la sfera della politica. E questa distanza può essere colmata solo con la tessitura paziente di una pratica concertativa, che individua di volta in volta i possibili elementi comuni sia nell’analisi sia nell’indicazione delle soluzioni.

E altrettanto ferma e chiara è stata la risposta conclusiva di Epifani: la CGIL non firma nessuna cambiale in bianco, e verificherà giorno per giorno gli atti concreti del governo, la loro coerenza, la loro concreta capacità di rispondere alle domande del mondo del lavoro. Un dialogo, appunto, non un patto politico. Potremmo dire cosi: c’è la volontà comune di costruire uno spazio pubblico, nel quale le diverse posizioni e proposte si confrontano e si rendono disponibili alla ricerca di una mediazione. Nulla di più, e nulla di meno. Ma questo è davvero il punto essenziale, se governo e parti sociali si possono ritrovare in un percorso comune, con ruoli che restano distinti, ma non per questo sono destinati all’incomunicabilità e allo scontro frontale. Prodi ha tenuto la stessa linea nell’incontro con Confindustria, e il fatto di parlare lo stesso linguaggio, in contesti diversi, è una garanzia importante della serietà dell’azione di governo.

Questo incombere, così forte, della dimensione politica sul dibattito congressuale della CGIL ha lasciato, inevitabilmente, un po’ scoperto il terreno più strettamente sindacale. E questo è un limite che la CGIL dovrà rapidamente recuperare. Sarà un recupero più agevole se dalle elezioni uscirà un nuovo quadro politico, e più affannosamente drammatico se dovesse accadere il contrario. Avendo scommesso, con il congresso, sulla vittoria della coalizione di Prodi, sulla possibilità cioè di un rilancio della concertazione, a partire da un nuovo patto fiscale, che garantisca l’equità nella distribuzione del reddito, se questa scommessa dovesse fallire ci troveremmo nella necessità di una dura revisione pratica, per attrezzarci a reggere un difficilissimo scontro politico e sociale.

Ma, in ogni caso, abbiamo bisogno di una più puntuale analisi delle trasformazioni sociali che stanno avvenendo nel Paese e di mettere a punto, in proposito, una politica rivendicativa e contrattuale che incida più concretamente in questo nuovo contesto. Da questo punto di vista, il congresso non ha dato molte indicazioni, e questo è stato il suo limite principale. Occorre, infatti, capire bene che dietro Berlusconi e dietro la strategia aggressiva della destra c’è un processo sociale, non solo italiano, ma europeo e mondiale, che tende a destrutturare il lavoro e a frantumare il sistema dei diritti. Come il sindacato intende affrontare questa situazione, con quali strumenti, con quale pratica contrattuale? Possiamo solo chiedere un intervento politico, per abrogare le leggi che hanno incentivato la precarizzazione, o c’è un compito più direttamente sindacale, nei luoghi di lavoro, nel territorio, in un rapporto che è ancora tutto da costruire con le nuove figure sociali dell’economia post-fordista?

E su questo terreno che va approfondito il confronto con la CISL e la UIL, un confronto critico che il congresso ha lasciato troppo sullo sfondo, limitandosi a ribadire le posizioni della CGIL, senza tentare un avanzamento, i senza offrire un terreno nuovo di discussione. La tesi della CISL è abbastanza semplice e chiara: in una fase di convulsa trasformazione sociale, ciò che è decisivo è stare nel vivo dei processi, e quindi va privilegiata la contrattazione aziendale o territoriale rispetto a un contratto nazionale che non riesce più a essere uno strumento efficace di tutela collettiva e di risposta alle trasformazioni del lavoro. È una tesi che si riallaccia a una forte tradizione della cultura sindacale cislina, che da sempre ha puntato sugli strumenti di partecipazione e di controllo a livello aziendale, cercando di esplorare le nuove possibili frontiere di una democrazia partecipativa, nella concretezza delle singole situazioni. E oggi, in un’Italia sempre più differenziata, anche per effetto dei mutamenti istituzionali, il sindacato deve puntare di più sul territorio, sulla diversità dei contesti sociali, mettendo nel conto una certa differenziazione dei risultati, la quale tra l’altro c’è già nei fatti e non è impedita dalla cornice solo in apparenza unificante del contratto nazionale. In questo approccio, c’è a mio giudizio un misto di verità e di azzardo, di intuizione e di semplificazione. Ma una discussione va fatta, evitando di restare bloccati in diversi e opposti schemi ideologici.

Il sindacato deve agire sui due piani: quello dei diritti universali, e quello dell’articolazione, dell’aderenza ai diversi contesti sociali. Come regolare il rapporto tra questi due livelli è un problema aperto, che non possiamo continuare a rinviare. Ed è necessario trovare una sintesi tra due approcci che rischiano entrambi di essere unilaterali e insufficienti. Ma, soprattutto, dovremo occuparci non solo del modello contrattuale, ma dei contenuti concreti della contrattazione. Come intendiamo affrontare i problemi dell’organizzazione del lavoro, dell’orario, della professionalità, della formazione? E, in un contesto sociale più largo, come il sindacato si propone di intervenire nella negoziazione sociale che riguarda il sistema di welfare, le politiche sociali, gli interventi per gli anziani, per gli immigrati, per le nuove forme di povertà e di esclusione?

Quello che voglio dire è che c’è una grande mutazione sociale, che ancora chiede di essere interrogata, analizzata, compresa nella sua dinamica, e che richiede una risposta sindacale più efficace, ed e questo un problema che solo in parte dipende dallo scenario politico. La politica può solo agevolare o ostacolare questo lavoro, ma in ogni caso il sindacato deve saper camminare sulle sue gambe.

C’è un ultimo aspetto che vorrei prendere in considerazione, e che riguarda gli assetti interni della CGIL, dopo un congresso che e stato costruito su una base unitaria e che si è concluso con un accordo largo, che supera le vecchie incrostazioni correntizie. L’unità della CGIL era, in una fase come quella attuale, una precisa necessità politica. Non possiamo affrontare con efficacia le difficili prove del momento se non troviamo una base comune. Questo è sostanzialmente avvenuto, anche se con qualche tensione, come tutto sommato è normale che succeda in un congresso. Ma la domanda è questa: si riesce ora davvero a costruire un gruppo dirigente coeso e autorevole, che non sia il frutto di un accordo diplomatico tra le diverse aree, ma riesca a imprimere a tutto il lavoro della CGIL una chiara e innovativa direzione di marcia? Occorre cioè capire se l’esito unitario del congresso è solo una tregua, o se davvero si sta aprendo una pagina nuova. A questa domanda, per ora, non saprei rispondere. Posso solo dire che per raggiungere questo risultato è necessario cominciare a costruire, intorno a Epifani, un gruppo dirigente rinnovato, che assuma fino in fondo i nuovi compiti che il congresso ha cominciato a trattare e che sappia affrontare con spirito nuovo i numerosi problemi che restano aperti. Le vecchie articolazioni interne, nate in una diversa situazione politica e sindacale, oggi non servono più. E sicuramente va del tutto superata la rappresentazione della vita interna della CGIL ritagliata sulle appartenenze politiche, come se si dovesse riprodurre nel sindacato la discussione intorno ai destini della sinistra. Va presa sul serio la scelta del congresso: la politica è una dimensione nella quale anche noi ci troviamo a operare, che s’incrocia quotidianamente con l’agire sindacale, ma sulla quale esercitiamo un’influenza concreta solo se vengono tenute ben ferme le ragioni della nostra autonomia.



Numero progressivo: E29
Busta: 5
Estremi cronologici: 2006, aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, n. 4, 2006, pp. 92-97