VIETATO ARRENDERSI

di Riccardo Terzi

La tendenza politica generale, in Italia e nelle altre democrazie europee, ha una precisa traiettoria: caduta delle identità e delle appartenenze, offuscamento delle differenze ideologiche e programmatiche, trasformazione dei partiti in agenzie elettorali al servizio del leader di turno, spoliticizzazione, progressivo allargamento dell’area dell’astensionismo elettorale.

La figura storica del “partito di massa”, che è stata centrale in tutta la vicenda politica del Novecento, è in evidente declino, ed è oggi difficilmente riproponibile, perché ne sono venute meno le condizioni di base. L’analisi di Peter Mair coglie esattamente tutti questi processi e offre una descrizione realistica delle condizioni attuali del sistema politico. Ma noi dobbiamo porci una domanda: questa tendenza va accettata come un destino necessario dei nostri sistemi politici, o dobbiamo viceversa ricercare nuove possibili vie per rivitalizzare la funzione democratica dei partiti politici? Non ci sono, io penso, destini, ma solo scelte politiche che producono effetti, positivi o negativi, calcolati o imprevisti. In politica non c’è mai determinismo, c’è solo la risultante di un determinato campo di forze. Può accadere che la situazione sfugga di mano, perché non si è valutata esattamente la dinamica delle forze in campo, ma il risultato che ne discende non è una necessità, ma la conseguenza di una cattiva politica.

Il panorama attuale l’abbiamo costruito con le nostre mani, con scelte, con atti politici, con indirizzi teorici e pratici. Se la politica cambia, la spiegazione è nella politica stessa, nelle sue interne trasformazioni e contraddizioni. E allora l’analisi non può essere solo una registrazione neutra dei cambiamenti in atto, ma deve essere anche critica politica, valutazione qualitativa delle scelte compiute e delle possibili alternative.

Oggi la democrazia è in uno stato di sofferenza. Non è un dato oggettivo, necessario, ma un problema su cui lavorare. Anche negli anni ‘50 si poteva considerare come un destino la fine della democrazia e l’avvento dei totalitarismi politici, ma fortunatamente qualcuno non si è rassegnato a questo destino e ha combattuto con tutte le armi possibili. Intendiamoci, non c’è oggi nessun parallelismo con quella situazione storica. I problemi attuali sono di tutt’altra natura. Ma si ripropone il problema della soggettività politica nella storia, della sua possibilità di progettare un nuovo ordine, oltre i vincoli delle situazioni di fatto e dei rapporti di potere consolidati.

Si ripropone il grande tema della politica come azione di libertà. C’è ancora uno spazio politico, o ci sono solo traiettorie prefissale, dentro un sistema di vincoli, interni e internazionali, i quali ormai svuotano la politica del suo significato?

Il problema, così posto, riguarda essenzialmente la sinistra, il suo ruolo, la sua identità come forza di cambiamento. Se la democrazia è solo procedurale, se riguarda cioè solo le tecniche di gestione dell’esistente e non più i fini, è la sinistra che è messa definitivamente fuori gioco. È messa fuori gioco anche se governa, perché non ha nulla da dire e fa solo quello che è inscritto nell’ordine dei rapporti sociali esistenti.

La crisi della politica e della democrazia, in Europa, è la crisi della sinistra. Oggi c’è un evidente divario tra l’ampiezza delle posizioni di governo conquistate dalla sinistra e la sua capacità di progettazione e di cambiamento. E quindi l’attuale ciclo politico, che ha portato la sinistra al governo dei maggiori paese europei, si può rapidamente capovolgere nel suo contrario. Tutte le più recenti tornate elettorali sembrano indicare questa linea di tendenza.

La sinistra si trova di fronte ad un problema assai complicato: deve liberarsi dei vecchi ideologismi, che la costringerebbero ad una posizione del tutto marginale, ma deve anche, nello stesso tempo, ridefinire l’asse di una propria autonoma identità, per non finire risucchiata nella grande ondata del neo-liberismo oggi dominante. Occorre un revisionismo ideologico, ma non una capitolazione.

Forse solo in Francia si è trovato un equilibrio accettabile, e ciò ha determinato anche risultati elettorali positivi, in controtendenza rispetto al resto dell’Europa. Ma nel quadro europeo complessivo, Italia compresa, c’è da un lato una sinistra “di resistenza”, attaccata ai vecchi dogmi e incapace di interpretare il mutamento sociale, e dall’altro una sinistra eclettica e spregiudicata, che ha tagliato le sue radici e che si muove sul mercato politico in una condizione di totale indeterminatezza sia sociale che culturale. C’è una sinistra che governa, per ora, ma non c’è un progetto politico capace di conquistare consenso e di dare uno sbocco alla rappresentanza sociale. Vedremo, con il prossimo Congresso dei Ds, se qualcosa cambia. Il Congresso ha di fronte un’alternativa: definire l’identità e l’autonomia culturale di un moderno partito della sinistra, o viceversa dissolvere questa identità e avviare la costruzione di un partito “democratico”, all’americana, genericamente progressista. Sarebbe necessaria una discussione che renda finalmente visibili ed espliciti i diversi approcci culturali e politici, superando la vecchia regola dell’unità ad ogni costo. Se invece si decide di non decidere, e si lascia il partito in una condizione di ambiguità paralizzante, allora rischia di aprirsi una crisi ancora più acuta.

I destini della politica e quelli della sinistra sono intrecciati, da sempre, perché la sinistra rappresenta la possibile apertura verso un cambiamento, verso un nuovo ordine, e se questa apertura viene meno c’è solo l’amministrazione dell’esistente, e c’è di conseguenza un processo di passivizzazione, di neutralizzazione dei conflitti, di distacco tra istituzioni politiche e sfera sociale. In questo contesto vince la destra, in quanto vince una condizione di rassegnazione e di chiusura nel piccolo recinto degli interessi individuali, senza passione civile e senza più un’idea che riguardi l’interesse collettivo, la struttura sociale, l’ordinamento della società.

C’è il rischio concreto di una crisi della democrazia, e in Italia siamo pericolosamente vicini ad un punto di rottura. Colpisce il fatto che nel dibattito politico corrente questa consapevolezza sia del tutto assente. Sembra che si tratti solo di tecniche elettorali, di dosaggi tra maggioritario e proporzionale, di nuove procedure di legittimazione dei governi, delle coalizioni, dei loro leader. Io penso che tutto questo sia solo il lato superficiale, e che un’operazione solo di immagine serve a poco o nulla se non cambiano i contenuti concreti della politica.

La sinistra non può pensare di cavarsela con la retorica sull’Ulivo, sul maggioritario, sulla democrazia diretta, perché queste sono solo le forme, e i cittadini vogliono sapere qual è il contenuto. Ed è proprio il contenuto, ovvero la concretezza materiale della posta in gioco, sul terreno sociale, economico, civile, ciò che sfugge alla percezione e non ha visibilità, evidenza politica, a livello di massa.

Il nodo centrale è qui: l’evidenza delle differenze politiche, o viceversa il loro offuscamento. Se ci sono differenze c’è vita democratica, se c’è la confusione dei linguaggi c’è un gioco truccato, nel quale i cittadini perdono ogni possibilità di controllo, e avvertono la politica come una mistificazione, come un rituale inconcludente. L’astensionismo e la spoliticizzazione nascono qui, su questo terreno. E si tratta ormai di un fenomeno europeo di vastissime dimensioni, come hanno confermato tutte le più recenti tornate elettorali.

Ma nelle moderne società complesse sono ancora rintracciabili differenze, discriminanti ideali, alternative? La lettura che viene comunemente fatta delle nostre società contemporanee tende a sottolineare sia la fine delle ideologie, sia la fine del conflitto di classe: la società appare ormai unificata in una condizione media, uniforme, senza fratture interne, e quindi la politica si rivolge alla figura astratta del cittadino medio, che non ha né profilo culturale né profilo sociale. La corsa al centro, che caratterizza il comportamento politico di quasi tutti i partiti, nasce da questa rappresentazione. Il conflitto politico, anche violento, avviene sullo stesso terreno, per l’occupazione del centro, e per questa ragione non riesce ad emergere un sistema limpidamente bipolare, perché non sono evidenti le alternative. Ma nella realtà i processi reali sono assai più complessi di come vengono rappresentati. Dal punto di vista sociale, con la fine del modello fordista si rivoluziona tutto il mondo del lavoro. Al processo di concentrazione industriale, a cui corrispondeva anche un determinato modello di organizzazione sociale funzionale alla produzione di massa, subentra, in tutto il settore manifatturiero, un capitalismo “molecolare”, caratterizzato da una imprenditoria diffusa sul territorio e da relazioni sociali sempre più flessibili e adattabili al mercato, mentre si determina un ancora più forte livello di concentrazione e di controllo centralizzato per tutti gli aspetti di carattere strategico. Il post-fordismo non è la fine del conflitto sociale e il declino del lavoro subordinato e delle sue esigenze di tutela, ma è un nuovo contesto sociale e tecnologico che ridefinisce le modalità del conflitto. Il cuore del conflitto non è più la grande fabbrica, con le sue dinamiche di classe ben definite, ma è l’organizzazione sociale complessiva, con i suoi processi di differenziazione e di marginalizzazione, con i suoi bisogni di cittadinanza, di riconoscimento sociale, di inclusione.

Un partito politico deve pur decidere come si colloca in questo conflitto, qual è il suo universo sociale di riferimento. Se si rivolge a tutti, non si rivolge al nessuno. La destra, con i suoi messaggi ultra-liberisti e con la rappresentazione idealizzata di una società tutta competitiva, tutta proiettata al successo individuale, interpreta i sentimenti diffusi e gli interessi materiali di un determinato blocco di forze sociali, di tutta quella parte di società che pensa di uscire vincente da una competizione senza regole. Qui c’è una saldatura di cultura politica e di rappresentanza sociale, che invece a sinistra non si vede. Il conflitto di classe sembra essersi concluso per effetto di un disarmo unilaterale. Ciò che non funziona più è il rapporto della sinistra con il lavoro, la sua capacità di dare rappresentanza politica alla domanda sociale. Nella corsa al centro si sono persi per strada i legami del consenso sociale, e il mondo del lavoro, che si trova sempre più esposto al rischio di una precarizzazione della sua condizione, alla prospettiva di una società senza diritti, non dispone di una identità politica, non pesa politicamente, e finisce per disperdersi nei rivoli di piccole lotte corporative. La frattura sociale esiste, ma non è assunta politicamente, non è rappresentata.

Siamo in presenza, a sinistra, di partiti socialmente neutri, e quindi debolissimi nel loro ancoraggio sociale, nel loro radicamento, nella loro capacità rappresentativa. Anche questo, credo, non è un destino, ma è il frutto di determinate scelte politiche. La società complessa non è una società pacificata, ma è, in forme nuove, un campo di conflitti. E il discrimine fondamentale sta, se è possibile così semplificare il groviglio degli interessi, tra chi ha tutto da guadagnare da una condizione senza regole e chi all’opposto rischia di andare a fondo senza un sistema di garanzie e di diritti sociali. Il cuore del conflitto è quindi nelle prospettive dello stato sociale: se si lavora ad un sistema universalistico che assicuri a tutti una effettiva cittadinanza, o se viceversa c’è solo un intervento residuale di tipo assistenziale. Destra e sinistra possono quindi avere un senso, in quanto rappresentano due possibili risposte, tra loro alternative, ai problemi della società moderna.

Se consideriamo il secondo aspetto, quello ideologico o identitario, scopriamo anche qui una situazione assai diversa dalla rappresentazione corrente, dal teorema della fine delle ideologie. Non troviamo il cittadino medio, che calcola razionalmente, in una logica individualistica, vantaggi e svantaggi, essendosi ormai liberato delle appartenenze, delle identità collettive, ma troviamo invece l’individuo spaesato alla ricerca disperata di una identità, di una comunità di riferimento, di una fede. Le categorie del calcolo utilitaristico elaborate da Geremia Bentham e dalla scuola liberale non ci fanno capire nulla della società moderna, proprio perché trascurano la dimensione culturale e la domanda di identità.

Se la politica non sa offrire identità, questa domanda si indirizzerà altrove, nelle più diverse direzioni. La comunità che accoglie l’individuo e gli assicura un senso, un’etica condivisa, può essere la comunità religiosa, l’associazionismo, il localismo, può essere, come in Giappone, la comunità aziendale, o anche l’appartenenza ad una società criminale, la quale pure dispone di una sua etica e di una sua ideologia. La società non è fatta di individui isolati, ma di aggregazioni collettive, che propongono un determinato sistema di valori e di norme. In questo senso, il mondo contemporaneo non è affatto deideologizzato, ma è anzi invaso dall’ideologia, in tutti i campi. Come sempre, tutte le grandi istituzioni hanno bisogno, per funzionare, di attivare meccanismi identitari. Anche il grande club sportivo, o l’azienda, o la rete televisiva, o la corporazione professionale sono, in questo senso, istituzioni ideologiche. C’è invece una crisi specifica delle identità politiche, la quale però non è l’effetto di una minore domanda di identità, ma di una incapacità delle forze politiche di intercettare questa domanda. I partiti non hanno più identità riconoscibile, e per questo stanno perdendo il loro ruolo, non perché siano sovraccarichi della loro storia e del loro vecchio bagaglio ideologico, ma perché si sono liberati della loro storia e si presentano ormai solo come agenzie tecniche, tra l’altro scarsamente efficienti anche nella loro dimensione strettamente tecnica o procedurale.

Ma tutta la cultura politica sembra non aver capito questa dinamica, e tutte le scelte politiche vanno nella direzione di un’ulteriore spinta verso l’indeterminatezza culturale e verso l’appannamento delle identità. I partiti si stanno suicidando con le loro stesse mani. Ciò dipende, credo, da un errore di analisi, perché ci si rappresenta una società che non esiste, deideologizzata, individualizzata, neutralizzata nei suoi conflitti.

Se sono tramontate, come è evidente, le rappresentazioni ideologiche che hanno segnato tutta la storia del Novecento, si tratta di definire un nuovo asse culturale, un nuovo criterio interpretativo della realtà. Non più un’ideologia, se ciò significa una filosofia della storia, ma una teoria politica e un’etica pubblica.

C’è un’unica eccezione nel panorama politico italiano: il fenomeno assai singolare della Lega Nord, che contro tutte le aspettative e le analisi correnti ha fondato la sua forza su un’operazione identitaria fortemente ideologizzata, fino all’invenzione di una vera e propria mitologia etnica, senza nessun fondamento storico, ma efficace nella sua capacità di presa e di consenso in determinati contesti sociali.

L’ideologia, in quanto elemento costitutivo di un progetto politico, non è misurata secondo il criterio della verità, ma secondo il criterio dell’efficacia. E spesso verità ed efficacia stanno su due piani del tutto separati. Così, di fronte all’offensiva separatista della Lega, valgono poco gli argomenti razionali, se non si attivano diverse e più forti motivazioni emotive. La Lega è oggi in difficoltà, ma tutta la sua traiettoria politica andrebbe meglio analizzata e studiata, perché è indicativa di quanto possano essere determinanti gli elementi ideologici e identitari. Non a caso, tutta la cultura politica ufficiale è stata colta di sorpresa, e si è rifiutata di dare dignità politica a questo fenomeno, riducendolo ad un episodio passeggero di folklore locale. Insomma, non rientrava nelle categorie interpretative ufficiali, e quindi era destinato a sparire nel più breve tempo possibile. Si è trattato invece di un fatto politico di notevole spessore, che ha condizionato in questi anni tutta la dinamica politica, non solo nelle Regioni del Nord, ma anche a livello nazionale. Sicuramente, senza la Lega il tema della riforma federalista dello Stato non sarebbe affatto entrato nell’agenda politica, e il tradizionale centralismo statale continuerebbe ad essere, per tutte le forze politiche, di destra o di sinistra, l’alveo naturale ed indiscusso della loro azione.

Ma qui interessa solo mettere in evidenza come l’irrompere dell’ideologia, o perfino del mito, possa trovare nella società contemporanea varchi insospettati ed imprevisti, come una politica tutta basata sul messaggio identitario possa conquistare solide basi di massa e riattivare un meccanismo di partecipazione militante.

Il giudizio di merito non può che essere negativo, perché questa mobilitazione avviene su una base di intolleranza razzista e di rottura della solidarietà nazionale. Ma in tutta questa vicenda c’è un insegnamento importante: la politica è sintesi di interessi e di passioni, ed è forte se offre una risposta al bisogno di identità, di riconoscimento, se è non solo una tecnica, ma una concezione, un’interpretazione della realtà, un sistema di valori.

La difficoltà, per la sinistra, sta nel passaggio da una alternativa di sistema ad una alternativa interna al sistema. Non funziona più il messaggio di una palingenesi sociale, ma può funzionare un progetto riformista che fissi un nuovo sistema di regole e di diritti. L’orizzonte storico che ci è dato è quello del riformismo. Ma entro questo orizzonte c’è un amplissimo ventaglio di scelte possibili. E c’è la possibilità di rinnovare un progetto di cambiamento sociale, che sia nuovamente capace di mobilitare, insieme, interessi e passioni, rappresentanza sociale e identità politica.

La conclusione di questa analisi è che esistono ancora tutte le condizioni, sociali e culturali, per una strutturazione del sistema politico in quanto sistema fondato sulle differenze, sul confronto tra progetti alternativi. Le condizioni di base per una democrazia politica strutturata sono ancora tutte esistenti, in quanto esistono possibili discriminanti, sociali e culturali. Non c’è né fine del conflitto sociale, né fine delle ideologie. C’è una società divisa, lacerata, che cerca nuovi valori, nuovi fondamenti etici. E la politica può essere una risposta a questa domanda. Ma solo alla condizione che sappia offrire un complesso forte di motivazioni, il che oggi non avviene, per un errore di analisi storica e politica, anzitutto, e in base a questo errore i partiti fanno il contrario di ciò che dovrebbero fare. Si presentano senza identità, senza progetto culturale, nel momento stesso in cui la società è alla ricerca di identità e di progetto. E quindi c’è un declino, non perché la dimensione politica sia stata travolta da processi oggettivi, ma solo perché l’attuale offerta politica è del tutto al di sotto delle esigenze della società civile.

Ma questo perché avviene? Come si spiega questa inadeguatezza della politica, questa sfasatura crescente tra politica e società? Si può forse interpretare questa situazione vedendo all’opera un disegno di destrutturazione della politica e di liquidazione della sua autonomia.

La politica ha sempre rappresentato un possibile contrappeso, un possibile fattore di condizionamento del sistema economico. Tra capitalismo e democrazia politica c’è sempre stata una tensione, un conflitto, che ha trovato storicamente diversi punti di equilibrio e di compromesso. Ora, c’è il tentativo di risolvere alla radice questo conflitto neutralizzando la dimensione politica. La fortissima pressione verso una democrazia di tipo plebiscitario ha questo significato. Il passaggio è da una competizione tra progetti politici ad una competizione tra leader, il che significa che la discussione non verte più sul che cosa fare, ma solo sul chi lo fa.

La politica viene così svuotata delle sue potenzialità innovative, e resta solo il mercato delle candidature. I cittadini partecipano ad un gioco truccato, e si riducono ad essere solo consumatori, spettatori di un gioco che non controllano, che non è più nelle loro mani.

La democrazia del maggioritario, che si vorrebbe spingere ancora più avanti, fino alla definitiva liquidazione dei partiti politici, ha quindi un preciso significato storico-politico, è il tentativo di risolvere le contraddizioni della società moderna spostando decisamente l’asse dalla politica all’economia, dalla soggettività dei progetti politici all’oggettività delle leggi di mercato. Ma il corpo sociale sembra avvertire questo inganno, e reagisce con l’indifferenza, con l’astensionismo.

Il processo è già molto avanti, e non sarà certo facile invertire la direzione di marcia. Anche la sinistra lo ha assecondato, senza rendersi conto degli effetti che ne derivano, senza capire di essere destinata ad essere alla fine la vittima sacrificale di questa trasformazione, perché in questa nuova logica la stessa distinzione di destra e sinistra perde di significato.

Occorre allora una strategia consapevole che punti a ricostruire gli spazi della politica. Come ho cercato di dimostrare, non è un’impresa disperata perché non sono venute meno le condizioni, sociali e culturali, per un possibile progetto politico della sinistra. Ma occorre, in una situazione così gravemente compromessa, una fortissima determinazione e una lucidità di analisi e di prospettive. Se qualcuno vuole mettersi in questa impresa, può ancora trovare nella società le necessarie risorse di consenso. Ci sono spesso nella storia situazioni politiche che sembrano bloccate, ma poi si mette in moto un processo nuovo e imprevisto. Forse può ancora accadere.



Numero progressivo: H58
Busta: 8
Estremi cronologici: 1999, novembre-dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Reset”, n. 57, novembre-dicembre 1999, pp. 30-33